Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 11 novembre 2010

Sulla famiglia


La famiglia è un cenobio lunare. Senza il sole della verginità consacrata, non potrebbe risplendere; ma senza la sua luce incerta e ambigua il mondo non vedrebbe nulla nella sua lunga notte. L’atroce potenza del sangue non è originaria, ma è di poco posteriore alla creazione del cielo e della terra. Le nozze non sono chiamate a educare bestioni, ma a captare i raggi del bereshit.

L'impero delle gramigne


L’impero delle gramigne è cominciato
come si deve, con un accampamento
di barbari ardenti e tranquilli sul prato
intorno a un pulviscolo di luna, severa
gioia di migrare, di affondare nel tramonto
la spada dell’aurora. Tutto qui.
Il principio è stravagante, umile, un limo
nel turbine di Dio. Ma sarà sempre vero
che il sogno della pace s’imbandiera sul prato
come ferocia estiva, come il folle
plebiscito che diecimila gramigne
lasciano vegetare in una veglia ingannevole.
E venga dunque il principe beato di sole,
porga un cuore autunnale ai suoi ragazzi,
conforti le radici, dissecchi le cime
inebriate dalla memoria, dai vaneggiamenti
della sapienza! Dimentichiamo anche noi
al margine della festa e sul pomerio del prato
di tarda estate, il cielo inevitabile
della vita straziata, l’avvento gridato
dai semi ogni volta, ogni volta smarrito,
dimentichiamo insieme alle gramigne
il nostro e il loro Annunciatore, l’unico.

martedì 2 novembre 2010

Discorso nel deserto


Andiamo, amici, impariamo
l’amore dalle pietre.
Qualcuno
mi obietterà che, piuttosto, le calme
nella loro durezza indifferente
fanno da degno simbolo all’amore
che nutrì per un giorno lo spettrale
angelo aptero abbarbicato
sulle mura di Sodoma
il mio è il mio e il tuo è tuo, questo
secondo i rabbini il suo motto –:
guardate
meglio, cioè amate (proviamoci)
di più. Chi luce di una così segreta,
temprata carità come quei sassi
che calpestate senza rossore,
e a volontà potete spostare
e incidere e rompere e rifare
con le mani di Adamo o di Caino?
E non cadiamo ancora in tentazione
dicendo che sì, è vero, la figurano
l’umiltà, ma perché per natura
non libere, non perché liberamente
servitrici di tutto in obbedienza
a chi tutto sostiene sul suo seno
– e a fortiori non sanno portare, quasi
più neanche figurano il frutto
della croce, l’amore, non è così?
Andiamo, amici, guardiamo,
tocchiamo i veri poveri, gustiamo
le gocce del loro miele, più antico
della manna e più celeste. Non siamo
degni: almeno spogliamoci
di un inutile velo, di una pelle
spessa e morta, che il Progenitore
non impacciava ancora.
Come può non essere in origine
libera la creatura di un Amante?
E se il moto ricevere da altro,
da fuori di sé ci appare, cosa
e non membro del Figlio dell’Uomo,
non viva pietra intagliata per la
Gerusalemme cui ci ha fidanzato,
ma inerte vestigio del giorno
originale in cui tutto parlava
a tutto, solo immagine – è certo
nel cuore, come noi parlanti adesso
siamo muti e attendiamo morendo
in un’azzima pasta ancora crudi
la nostra vita, così il loro fuoco
attende con il nostro, nel silenzio
amoroso prega, un lento salmo
di pietra, liscio di quiete
e ritegno, puntuto di dolore, o irto
di rughe e schegge che ancora domandano
nella speranza, da quel giorno, il Giorno.

Andiamo, amici,
impariamo.

- Febbraio 2003 –


NOTA:

Il mio è il mio e il tuo è tuo: nel trattato talmudico Avòth è scritto che questa è la condotta [misura, middàh] mediana [la mesotes, o lo jus]; e tuttavia c’è chi dice che è la condotta di Sodoma (a questo punto un commentatore cita Ezechiele 16,49 e dice che i sodomiti “non pretendevano nulla dagli altri uomini, ma non tolleravano che un povero potesse beneficiare delle loro ricchezze”). Nel medesimo testo si parla anche della condotta del santo: Il mio è tuo e il tuo è tuo.

lunedì 1 novembre 2010

Reb Menachem e l’esistenza di Dio


Se Stavrogin crede, non crede di credere. Se egli non crede, non crede di non credere.
F. Dostoevskij, I Demoni

Reb Menachem, l’unico figlio di Avraham Lifschitz, era un uomo molto dotto, molto devoto e molto povero. Quando non studiava, pregava, quando non pregava, studiava, e quando non pregava e non studiava faceva opere buone. La gente del suo miserabile shtetl soleva dire: «La fede di Reb Menachem è incrollabile come il Sinai».
Un giorno, mentre andava di buon’ora all’unica sinagoga del villaggio, passando per l’unica strada, vide un mendicante cristiano riverso nella fogna. Era coperto di piaghe e di lordura dalla sommità del cranio fino alla punta dei piedi, e non aveva nemmeno più la forza per uscire dalla fossa in cui era, evidentemente, caduto durante la notte. D’un tratto venne fuori dal nulla, come un angelo, il giovanissimo figlio del ferraio, Pinchas Yanover, che molti chiamavano Colonna d’Israele per la sua grande pietà; alcuni sostenevano di aver visto il suo volto risplendere come quello di Mosè (se si esclude la barba), e di aver dovuto distogliere lo sguardo per non restare accecati. Sia come sia, questo è quel che si raccontava. Fatto sta che, proprio quel giorno, il ragazzo portava quasi di corsa un piccolo pane caldo involto in un fazzoletto; con grande delicatezza, sollevò il cristiano dalla sua bassura, iniziò a pulirlo con le falde del suo caffettano e gli porse, con la dolcezza di un figlio, il piccolo dono fumante. Non appena lo ebbe fatto, ecco spuntò dall’erba rada una serpe del color dello smeraldo, che lo morse al tallone e fuggì con la rapidità di uno spirito. Il giovane Pinchas impallidì, stramazzò come un vitello scannato e morì torcendosi nella polvere.
Reb Menachem, quando ebbe ritrovato un minimo di presenza a se stesso, disse con voce ferma e metallica: «Sta scritto: Al giusto non verrà alcun danno, gli empi si sazieranno di mali; ed anche: Camminerai su aspidi e vipere! Se un innocente e per di più un giusto è ricompensato con la morte, come può esistere Dio? Dunque, Dio non esiste».
Già si addensava una piccola folla di dolenti e curiosi. Reb Menachem, avvolto nel suo sdegno, tornò a casa con il passo di un leone, deciso a bruciare tutti i suoi libri e a ballare sulle loro ceneri. Ma appena ebbe estratto un tizzone dalla stufa, pensò: «Se un giusto è ricompensato con la morte, come può non esistere Dio? Il mondo è pieno di male e ha bisogno di Dio!». Ma si rimproverò immediatamente, prima col rigore di un maestro di yeshive, poi con un amaro sorriso: «Il fatto che il mondo ne abbia bisogno, non vuol dire che esista! Se alla realtà del bisogno corrispondesse necessariamente la realtà del suo oggetto, il male appunto non esisterebbe; mentre l’unica cosa di cui si può esser certi è l’esistenza del male!». E bruciò la sua biblioteca. Ma poiché era onesto, e non voleva la pace senza la luce dell’intelligenza, non ballò sulle ceneri; anzi, lasciò intatta dalle fiamme una pagina bianca, si sedette all’unico tavolo della casa, prese la penna e l’inchiostro e scrisse lentamente: «Il mondo ha bisogno di Dio, ma Dio non esiste!». Dopo di che, Reb Menachem continuò in qualche modo a vivere da ebreo; non studiava e non pregava, ma faceva sempre molte opere buone, come poteva. «La fede di Reb Menachem è incrollabile come il Sinai», diceva la gente dello shtetl.

Un giorno, mentre passeggiava poco fuori del villaggio, vide un povero straccione accattone – uno shnorrer, insomma – seduto su una larga pietra vulcanica. Era secco come uno scovolino da pipa, e quasi altrettanto nero; i cenci bisunti che gli stavano addosso avrebbero potuto avvolgere, insieme a lui, anche il suo gemello, ma era improbabile che avesse qualcuno a questo mondo. Non appena Reb Menachem gli passò a tiro, lo straccione gli disse: «Dammi del pane, che ho fame». Menachem rispose: «Non ne ho nemmeno una briciola, fratello mio. Devi sapere che quest’anno, come se non bastasse il resto, una grave carestia ci ha colpiti tutti, ebrei, gentili e bestie senza ragione, per non parlare delle povere piantine della terra». Lo shnorrer insistette, con voce più lamentosa: «Ma qualcuno deve pur averne! Ti prego di andarmene a cercare un pezzetto soltanto». Reb Menachem si afferrò la barba e disse: «Chi ti dice che qualcuno debba averne? Questa comunità è particolarmente povera». Il mendicante sospirò, gettò il capo all’indietro e disse con amarezza, forse solo a se stesso: «Gran brutto vizio il mangiare! Se non avessi mai assaggiato il pane, ora neanche avrei fame!».
Menachem sembrava un albero fulminato. Appena ebbe ripreso a respirare, si prostrò davanti allo straccione e gli disse: «Ti prego di aspettare un po’: devo tornare a casa a sbrigare una faccenda. Quando sarò tornato, ti servirò come discepolo». Il povero dotto riguadagnò la strada di casa a grandi passi; entrò, cercò e trovò la vecchia pagina di qualche anno prima, si sedette all’unico tavolo, prese la penna e l’inchiostro e scrisse in fondo al foglio, lentamente, ma con trepidazione: «Dio ha bisogno del mondo, per questo il mondo ha bisogno di Dio». Poi uscì senza prendere nulla con sé, e andò in giro per il mondo a mendicare col suo maestro, lo shnorrer.

Il tempo passò, e per Reb Menachem venne l’ora di morire. Stava sul ciglio di una strada di campagna, scosso dai tremiti della febbre, ma era ben altro a farlo fremere fin nelle ossa. Il vecchio vagabondo che aveva servito per tanti anni era chino su di lui e gli asciugava il sudore. Sentendosi prossimo alla partenza, Menachem trasse un lungo sospiro e disse: «Maestro, ho taciuto per tutto questo tempo, ma c’è un peso che non si sposta e non si allevia, ancora qui, sul cuore. Dimmi, Dio esiste?». Lo shnorrer, stupito, si grattò la testa ed osservò: «A questo pensi, sulla polvere della strada, mentre te ne vai?». Menachem si lamentò: «E a che devo pensare? Ti supplico di dirmi se Dio esiste, maestro mio, e me andrò in pace, buono buono, come un animale da soma». Il “maestro” aveva una strana espressione: «Ma chi è Dio? Vedi, io sono molto ignorante, e tu devi spiegarmi la domanda se pretendi una risposta». Menachem non era più molto lucido, sicché raccolse le forze residue in un respiro rauco e possente, e ribatté: «Non lo so, per questo lo cerco! Solo una cosa so: che il mondo ha bisogno di lui e lui ha bisogno del mondo. Se il mondo non fosse quello che è, che motivo avrei di domandare?». Lo shnorrer pensò un poco e disse: «Mah, senti – tu sai solo una cosa, e anch’io so solo una cosa: io ti feci una domanda, molto tempo fa, e tu mi rispondesti. Che altro c’è da chiedere?». Menachem disse, impaziente: «Vuoi dire che se qualcosa c’è stato, se qualcosa c’è, allora Dio c’è – o per lo meno è come se ci fosse?». E aspettò che il mendicante continuasse. Questi pareva sempre più interdetto, ma poi rispose, con fermezza e timidezza: «Che voglio dire? Voglio dire che tutte queste parole non te le porterai dietro. Non ti porterai dietro niente. Se fra poco non ci sarai più, è perché ci sei adesso. Cosa c’è adesso? C’è qualcosa, adesso?». «Sì» disse in un soffio Menachem, «c’è qualcosa». «Gli vuoi dare nome e patronimico, oppure vuoi startene fermo e zitto?». Menachem rispose come portato da una risacca: «Voglio starmene fermo e zitto». Allora lo straccione, accorgendosi che il suo discepolo non aveva più evidentemente la forza per muovere la lingua, disse piano piano: «Meglio così. Perché il nome di adesso siamo io e te, e solo io posso dirtelo: da solo come fai? Sii benedetto, Menachem figlio di Avraham Lifschitz, figlio mio, opera delle mie mani. La tua fede è incrollabile come il Sinai, e hai avuto il tuo pane». Il moribondo aveva già perso conoscenza. Lo shnorrer gli chiuse gli occhi dolcemente, mormorando una parola, poi si alzò in piedi, e fuggì rapido in cielo su una nube di fuoco.

giovedì 28 ottobre 2010

Fausto di Milevo nella periferia cartaginese


Jesus patibilis omni suspensus e ligno...


La forma di un albero
non è solo la forma in quell’albero:
è dolce, ed indecente.
Sospesa a ciò che non è,
fedele allo scempio che la modella
e la fa respirare, col suo lieve
e crudo fiato sospettoso, con la sua
ansia di cosa follemente
addormentata.
Ha un angelo vicino, confidente,
quel maestoso aggregato, quell’anelito
straccione – radici
di vecchiaia violenta, saggezza
pensosa, rugosa del tronco, preghiera
ferita e vaneggiante
per ogni dito di fuoco dei rami –
ha un angelo
forse troppo sereno (gli sussurra
che è lui stesso, che va così, che non deve
temere, piccolo giusto), forse troppo
gentile per un destino di martire,
di uno che grida anche meglio
del Precursore, che non fa fatica
a trapassare i cieli.
La forma di quell’albero abbastanza amato
dai bambini e dai vagabondi, e molto ignorato
se non come immagine o legna,
la forma che vuol fare di quell’albero
il padre e il fratello sconosciuti,
l’amico di sangue dalla barba felice,
qualcuno vivo alle tue ultime nozze,
mi scorre, mentre vado sulla polvere
della mia colpa, accanto, non osa
farmi segno altrimenti, ha pena
dell’orrore che è mio, che mi confonde
sempre accanto, in attesa di travolgermi,
e addentrarsi, e persuadermi – irato –
della sua potenza e tenerezza.

- 27 Giugno 2003 –

lunedì 18 ottobre 2010

Appunti dell’uomo di campagna davanti alla porta della Legge: Appendice II: Totus in suis, totus in nostris/ 8


Se Gesù-Testa ha preso su di sé le debolezze della Chiesa-Corpo, e la Chiesa-Corpo ha ricevuto i poteri di Gesù-Testa (Isaac de Stella), l’obbedienza al Cristo storico implica l’obbedienza al Corpo di Cristo per essere condivisione nel Cristo Totale. Ma come accettare la mescolanza di grano e loglio, l’incompiutezza del Corpo per cui la Chiesa è prostituta e madre, senza subirla?
Il fatto che Gesù abbia totalmente donato se stesso alla Sposa, Anima-Chiesa, potrebbe portare alla posizione ebraica: la Torah non è nei cieli, il commento è inesauribile, l’autorità della Testa è alfa-omega, nascosta-e-imminente, mentre la creazione, il creato è nella beth, nel tempo di mezzo, a casa nell’esilio. Così però l’autorità, deletteralizzata e disseminata, è anche disincarnata? La Sinagoga è tout-court l’esoterico della Chiesa, i margini del Testo cristiano (Péguy)?
L’incarnazione libera dal letteralismo acconsentendo che l’esoterico si faccia lettera (non letterale): euanghelion è awon ghilayon, vangelo è “trasgressione dei margini”. Il nascosto-imminente accetta di essere lettera: la lettera uccide; quindi l’Incarnato è il Crocifisso. Gesù denuda l’esoterico della berith: la fede può tutto, il Regno non svuota solo il profano ma anche e soprattutto il qadosh, il qodesh; il mondo è ʽolam, un muro di letture non rinnovate. Ma diffondere questo segreto equivale ad esserlo, è una tragica colpa, che Gesù appunto deve assumere: sa che il segreto denudato si fa ancora muro, ancora mondo, e che chi si lega al suo destino messianico è afferrato dalla stessa ananke. La fretta messianica del discepolo deve patire volontariamente la croce del maestro, la croce della Legge.
Il discepolo sta nella Chiesa come Gesù sta nella keneseth: sa di incarnare il segreto, e quindi sa di meritare il giogo, l’ananke della lettera, della carne. Come la Torah condanna il messia esoterico, così il Patto nuovo, fatto Legge, condanna il discepolo esoterico. E se il Patto nuovo è lo Spirito, il sod denudato di quello ebraico, la sua condanna è intima e spirituale: il cristiano, il cristificato sarà crocifisso dalla lettera dello spirito, cioè dall’Incarnazione stessa. Come nella Legge antica: ciò che salva è ciò che condanna. La carne di Gesù, irriducibile, carica il cristiano di una colpa-ananke spirituale che egli prende su di sé, e restituisce a chi l’ha coniata (il Gesù storico stesso) facendone un’offerta a-tea, da fratello a fratello come se Dio non ci fosse (cfr Simone Weil), e così restituendo a Dio ciò che è di Dio, il volto oltre l’idolo, il Cristo di ogni cosa, di ciascuna cosa, cioè ciascuna cosa non col nome di Cristo ma col suo nome di cosa trasparente al Nome innominabile (ciò avviene appunto nel Nome di Cristo).
Così la Chiesa è sposa di Cristo, suo corpo e sua incarnazione esoterica oltre il segno del Cristo storico: l’annullamento della Torah fa risorgere la Torah; chi uccide spiritualmente la carne spirituale di Cristo apre, di nuovo, la porta al Regno – apre la porta della Legge. Il Regno è il così-com’-è senza idoli mentali; la Chiesa custodisce la lettera, quindi va combattuta restandovi, va aggirata sottilmente, svuotata così come si svuotò Cristo.
In questa direzione Cristianesimo e Buddhismo mahayana potrebbero convergere, ma il Cristianesimo è ancora e sempre ebraismo, ancora e sempre Legge, ancora e sempre profezia, quindi il suo significato “politico” (messianico) lo espone a un tragico gioco che la Sapienza buddhista può gnosticamente assorbire senza mai conoscere lo scandalo, l’intima lacerazione di un Dio Persona, i meandri kafkiani del Libro e dell’interpretazione, il fratricidio perpetuo di una religione di redenzione che muove dalla lettera della totalità.

Poiché la Parola si è fatta carne (luogo di manifestazione dello Spirito), l’idolatria specifica del cristiano (necessaria, quindi scandalosa) è la parola come mediazione al Cristo-Parola, il nome di Cristo come parola della Legge; il dogma dell’Incarnazione come risorsa per pensare, nell’attesa, il cristico farsi carne della Parola.

Lo Spirito è la pienezza di morte della lettera. Il Messia, il lettore che incarna la lettura, è l’unico in grado di redimere la lettera dal letteralismo. Egli stesso non è, non può mai essere, letteralmente se stesso.

domenica 17 ottobre 2010

A colei che è felicemente oscura


a Mariella

cotanto d’umiltà donna mi pare
ch’ogn’altra ver’di lei i’la chiam’ira.
GUIDO CAVALCANTI

Ci compitiamo (rumina nei gesti
della magia comune, nella tenue
sperdutezza dei nostri fuochi) il chiaro
ventre della bellezza – alberi, gatti
sere più miti del fiato terribile
del Dio di Elia – quasi che la pelle,
sfrenata, serpentina all’indecente
tatto del sole, quasi che gli odori
d’infinita suburra che si covano
nel suo ritegno, fossero la selva
mescolata dal tuono, che c’irride
la prima fuga, eterna...
Mai ci saziamo d’averlo imparato.

Ma tu sei calma come il toro e l’estasi,
hai l’umiltà fremente nell’azzardo
della muta sul polso della morte
e delle rare immani tenerezze
che in un bisbiglio soffocano il conto
della nascita; il suo canto spezzato...
Tu sei così.
Ci confuti. Ci salvi.
Non chiedi nulla al vago gesto magico
del giorno e della sera, all’elemosina
pungente delle veglie e dei ricordi,
– fuorché morire, al tremolio d’un lume,
schermato di penombra: irrefutabile.

- 29 Giugno 2002 –

IL CASTELLO IN FIAMME E L’UNGUENTO DELLA PAROLA



Il testo che segue è una testimonianza sulla grande scrittrice Elena Bono inclusa nell’omonima raccolta: Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono e la sua opera (progetto di Stefania Venturino, Edizioni Le Mani, Recco, 2007).


Una tradizione ebraica[1] narra che Abramo, lungo il suo cammino di cercatore, vide di lontano un castello splendente. Pieno di meraviglia, si chiese: “Chi sarà mai il signore di un simile castello?”. Si affacciò allora, ad un alta finestra, un re, che disse con serena forza: “Sono Io il Signore del castello”. Il senso del raccontino è chiaro: il pellegrino calca il sentiero dell’uscita da sé, dell’esodo, incontra il mondo, è travolto dall’umile bellezza, e s’interroga nel silenzio del cuore: Ma questa cosa qui, avrà un signore? La risposta erompe luminosa e sonora: il Creatore si sporge, annuncia: Io sono; Sì, sono io.
La storia può essere letta diversamente. L’espressione che abbiamo reso con “castello splendente”, può significare altresì: “castello in fiamme”.[2] Abramo scorge un castello in fiamme lungo la via. Pieno di sgomento, si chiede: “Ma un simile castello, avrà un signore, qualcuno che ne risponda, qualcuno che possa proteggerlo e salvarlo?”. Un re si affaccia fra le lingue di fuoco, dichiara con inconcepibile maestà: “Sono Io il signore del castello che brucia”. Il castello sta bruciando, ma ha un Signore. Il mondo è in pericolo: Chi l’ha voluto e plasmato lo difende, con inconcussa risolutezza feudale, con una fermezza che sembra arrestare, per un attimo eterno, le terribili fiamme. Ma che ne sarà del padrone del castello, del Signore del mondo? La sua presenza deve consolare Abramo, o non, piuttosto, spezzarlo? Col cuore spezzato, il nomade di Charran aggiogherà moltitudini, genererà una stirpe di fiammeggiante, luminosa miseria, sarà il re dei mendicanti di Dio.
Nell’oscillare di questa anfibolia – castello splendente, castello in fiamme – si dischiude, come un unico respiro, tutto il tempo fra l’Alfa e l’Omega, fra il Bereshìt e il Maranathà.[3]
Una ragazza, una ventenne, che immaginiamo leggera e tempestosa come certe mirabili creature del romanzo russo, di radici e di terra italiana, ma tutta percorsa dalle linfe della patria più vasta, l’Europa, camminava attenta e decisa sul sentiero della sua giovinezza, giusto all’inizio degli anni Quaranta del secolo appena passato; quando scorse un vecchio, nobilissimo castello, aggredito da un incendio che già ne sfigurava ogni splendore, e ne minacciava, con tutta evidenza, anche la non più robusta struttura. Qualcuno avrebbe potuto trovare sublime l’orrendo spettacolo: del resto, molto, nell’aspetto dell’edificio, lasciava credere che fosse abbandonato da secoli, e allora di cosa doveva rispondere lo spettatore, se non del proprio intimissimo disagio? Ma la ragazza, i cui occhi limpidi, prensili quasi, non sapevano trascurare alcun dettaglio di quello sfacelo, fu interpellata, raggiunta, ferita: e la ferita appena aperta nel cuore sembrava cercar di vedere, come un occhio velato, e ancor più esatto e doloroso degli altri due. L’occhio del cuore interrogò, ripetendo il padre Abramo: “Ci sarà un signore di questo castello? E vi abita ancora? E chi è?”. Si affacciò qualcosa, qualcuno: tutto sembrava, sulle prime, tranne che un re. Era uno, illeso dal fuoco, forse, ma più ferito del cuore della giovinetta, e di qualunque altro cuore. Pareva lo avessero ridotto così per qualche scherzo funesto, di quelli che sul momento si accettano, ma perché già si sente la muta fatica che costerà serbarne il ricordo. Nulla era maestà in lui, fuorché un certo lampo, indicibile, nello sguardo: dunque, in un certo senso, era tutto maestà, ma in che modo! “Io sono il signore del castello”. Elena, la ragazza, gli credette, e le sembrò di non poter fare altrimenti.
Da quel giorno Elena capì che, se il castello era il mondo, e più in particolare quella grande immagine del mondo che è l’Europa, il Signore piagato e imperioso non era solo fra le sue mura e le sue fiamme: tutti vi siamo con lui; come lui stesso aveva annunciato, e promesso, duemila anni fa, prima di sottrarsi agli occhi del corpo e al loro già forte dolore. La giovinetta dal passo tempestoso e alato iniziava così a cercare, con cuore spezzato e veggente, i lineamenti di quel Volto in tutti i volti, agl’incroci delle strade degli uomini, castellani che per lo più non avevano visto e continuavano a non vedere, figli di re il cui segreto dolore attendeva la benedizione di parole nuove, inflessibili, giuste e misericordiose.
La ragazza Elena avrebbe conservato la freschezza del sorriso e dell’incedere, perché nel digiuno e nell’attesa – è scritto – bisogna ungersi la testa e lavarsi la faccia,[4] come per una festa tra fratelli.

Non ricordo con precisione come arrivai ad incontrare, pellegrino infinitamente meno avventuroso, questa parola di benedizione. Forse è così di molti eventi destinati, segnati da un’unghia misteriosa e più intima di ciò che è familiare: nell’infittirsi della trama un dettaglio fa solo increspare le acque del cuore, ma sul fondo è stato deposto qualcosa, che ci ha già modificati, con un trasalimento segreto che solo il futuro sdipanarsi dei giorni vedrà albeggiare nella coscienza.
Era stata appena pubblicata l’antologia Novecento letterario italiano ed europeo (Città Nuova, 2002),[5] due volumi di cospicua mole e tuttavia di aspetto stranamente lieve, quasi avventato, in cui il critico e poeta Giovanni Casoli rileggeva e rinarrava la cultura del “secolo breve”, molto espungendo e molto interpolando rispetto alla vulgata accademica, fino a portarne alla luce il meraviglioso e drammatico disegno, la cifra di un aggrovigliato tappeto. Ero stato felice, fino allo spavento, di scrivere alcune pagine per quel lavoro: Casoli era stato mio insegnante al liceo – ma il verbo al passato serve solo per fare un po’di cronaca minima; egli è insegnante, in un incondizionato presente. Sfogliando i volumoni freschi di stampa, fra i molti giganti che non avevo mai incontrato (per non aver mai alzato lo sguardo), trovai il ritratto e il florilegio di Elena Bono. Morte di Adamo! Bastava per provare ad entrare. Una musica di pensiero, scura e vigorosa come certi paesaggi, molto ricchi, ai primi istanti dell’aurora, mi trascinò e guidò insieme, sebbene non vedessi dove. Casoli mi prestò la raccolta intera, che aveva il titolo di quell’immenso racconto; gli chiesi inoltre, fra le altre opere di lei che aveva in biblioteca, un breve atto unico su Giovanna d’Arco, La grande e la piccola morte. Difficile da spiegare: la Pulzella mi aveva sempre turbato, mai davvero conquistato; il film di Dreyer e il mistero di Péguy mi avevano sconvolto, non illuminato. Dopo mezz’ora di lettura (la pièce non esige, apparentemente, di più), mi resi conto d’aver sfiorato una delle più vive, lancinanti ed esatte esperienze del Male che avesse attraversato un cuore umano, in quel Novecento che, per averne troppo sorbito, così spesso se ne era ritratto, proteggendosi con parole smisurate. Qui invece un paio di dialoghi teatrali, in un italiano allo zenit della sua fecondità, ben coltivato e nutrito di studi e di silenzi, porgono l’insostenibile con lo stesso straziante equilibrio – così sentivo – della tragedia attica: ma nell’asse incrollabile di una spirale di luce più inquieta e più maestosa, come la proiezione infinita di uno scandalo che non può essere accettato, eppure è stato accettato nella Gloria. Percepivo tutto questo nel mio corpo: poi si mosse, beneficato, il pensiero. Non feci altro che buttare giù, per gratitudine, alcune annotazioni, che spedii a Casoli. La mezza paginetta fu girata poi ad Elena Bono, che mi rispose. Da allora, fui inondato, a mezzo posta, di tutti i suoi libri: un ciclone di grazia da cui ancora non mi sono riavuto.

Una grande novità, specialmente per l’Italia, è la peculiarità dello stile di Elena Bono, l’efficacia della sua parola. Mi capita spesso di fare il nome di Dioniso: accostamento che può suonare decadente, laddove la musica e le idee di Elena Bono sottopongono i pur ricorrenti temi da finis Europae ad una risoluta purgazione, da cui escono irreversibilmente mutati, piegati ad una mèta, piagati di verità umana. Parlo di Dioniso perché la parola della Bono coinvolge e provoca innanzitutto i sensi: la sua ricchezza dà gioia, senza dubbio, ma la gioia più difficile è quella che albeggia anzitutto dalla vocazione probatica, iniziatica della sua scrittura, teatrale, narrativa e lirica. I sensi si accendono, e accendono il pensiero, che si affaccia al mondo e alla storia più umile e quindi più audace: caldo e illuminato, cordiale. Il sorriso di una saggezza ferita, quasi il ritorno inatteso, in un mirabile italiano pluridialettale (scherzosamente e seriamente designato da qualcuno come “bonese”), di certi maestosi mužiki e stranniki tolstojani e dostoevskiani, spunta immancabile eppur miracoloso in tutte le sue opere: un resto d’Isaia che porta nel cuore lo stigma del Servo sofferente, e sul viso un barbaglio della sua ancor più segreta festa. I sensi si aprono uno dopo l’altro, come al tatto penetrante di un olio liturgico, e prendono un coraggio sottile, il coraggio di sentire il creato così com’è. La memoria torna al Sentire e meditar, il sobrio e indimenticato lascito dell’Imbonati al giovane Manzoni, raccolto da una manzoniana italiana di robusto respiro europeo (i migliori russi, tedeschi e francesi rivivono in lei); ma anche alla “grazia violenta” eschilea, all’apollineo riserbo con cui Sofocle spalancava abissi. Una parola integra, che dice tutto l’uomo – cioè l’uomo nella sua povertà sostanziata da Dio nel fratello; e che procede da un’integrità di vita e di relazioni che merita qualche, spero giusto e pudico, cenno.
Ciò che trovo nella pagina di Elena Bono è parte di ciò che mi viene donato dalla presenza stessa di Elena Bono: dalla sua conversazione, dalla sua ospitalità, dalla sua capacità, davvero irresistibile, di intrecciare amicizia. È raro, nel corso di un’intera esistenza, sentirsi pienamente liberi al cospetto di qualcuno, specialmente se la sua grandezza ci tenta a ripiegarci sui nostri limiti, a proteggerci per carpire: ebbene, parlare con questa donna così intimamente segnata dalla Parola è sprigionamento del respiro, è petto dilatato, il disegnarsi di uno spazio in cui è dato abitare. Si ha la sperimentale certezza che questa donna, avendo accettato e amato l’uomo totale, l’uomo nella sua tragica e promettente verità, ora accoglie te, con carità insieme delicata e inesorabile.
A questo punto non stupisce, ma accora, che un’opera così affabile e necessaria sia stata occultata, in questa lunga finis Italiae. La trilogia Uomo e Superuomo, ferma e quasi inchiodata, nonostante la sua vastità, ai pochi anni del Novecento in cui si levò all’orizzonte uno dei volti più orribilmente familiari del Male, il nazifascismo, impone al lettore un fardello profetico del quale potrebbe non sgravarsi mai più. Nell’oracolo del Silenzio di Isaia, la sentinella, interrogata sul punto della notte, risponde: “È venuto il mattino, ed anche la notte”.[6] Dopo Hiroshima, l’Occidente e, in esso, il mondo intero, si è avvolto in un mantello come Maometto dopo la visione: ma tremava così forte, che di lì a poco il sussulto gli sembrò un nuovo di tipo di quiete, non propriamente vivibile eppure, in certo modo, durabile. Non capì, come tutti i sopravvissuti impuri, che la magia del disastro avvince col suo stesso scandalo, facendo torcere lo sguardo. Il fardello che la trilogia impone è quello della semplice verità del Nazismo: apocalissi della storia europea e di tutti i suoi archetipi, il suo atroce tiaso di fantasmi portava, alto sulle teste, un nero sole di contagio insolito, un male del male, una ben distillata quintessenza che mirava, oltre ogni stentorea deplorazione, a farsi silenziosamente amare. Elena Bono ci racconta il Ventennio, la Resistenza, le SS Totenkopf, riconsegnandoli a una memoria più vera, alla crocifissa trama della storia profetica: questo siamo noi; oggi. “Se volete domandare, domandate: ritornate, venite”.[7] È proprio ciò di cui ha fame la nostra anima: e proprio per questo il simposio delle lettere, nell’Italia che si vuole repubblicana e antifascista, non ha scritto il nome di Elena Bono sull’invito.
Ma a un solido nutrimento è ancora invitato chi voglia digiunare dal lievito stanco del postmoderno, dagli amari o compiaciuti giochi sull’orlo dell’abisso: troverà un pane di luce, da spartire in fraterno dolore e in sostanziosa gratitudine. Chiunque intraveda, mettendosi sulla traccia di deserto del padre Abramo, il castello splendente che è anche il castello in fiamme, e provi un muto sgomento sulla soglia del domandare, sappia che una giovinetta ha visto, ha interrogato, e ha proseguito la strada con una nuda certezza in fondo all’occhio del cuore: il castello sta bruciando, ma ha un Signore.


Note:

[1] La storia è un midrash riportato nel Bereshìth Rabbah (XXXIX), grande raccolta di midrashìm al libro della Genesi.
[2] Biràh dolèketh, che in ebraico ha appunto entrambi i significati.
[3] Bereshìth, “In principio”, è l’inizio del libro della Genesi e il suo titolo ebraico: Maràna-thà (aramaico: “Signore nostro, vieni!”) è l’invocazione che, tradotta in greco, chiude l’Apocalisse di Giovanni (22,20).
[4] Cfr Mt 6,17.
[5] Le pagine su E.B. sono nel secondo vol., pagg. 67-87.
[6] Is 21,12.
[7] Ibid.

mercoledì 13 ottobre 2010

Appunti dell’uomo di campagna davanti alla porta della Legge: Appendice I (ermetica-psicologica)/7


La communicatio della Testa e del Corpo implica e genera un chiddush inesauribile, per cui negli otri vecchi il vino chiede sempre di rinnovarsi fremendo in pienezza di pace. Gesù prende su di sé da innocente i mali volontari delle Sue membra: ma Gesù assume anche, se è lecito dirlo, il male volontario redimendolo nell’abbraccio (Egli è anche adottato, è anche il Maestro della teshuvah, della metanoia: il Figlio Prodigo è ancora Lui). È imputato di tutto ciò che il Corpo, in quanto corpo, farà senza esserne accusato, perché lo avrà ricevuto: Egli ‘si divinizza’, si spoglia dell’umiltà dei commentatori-soferìm e anche dell’annichilimento mistico di al-Hallaj ed Eckhart, prende su di sé l’autorità divina come prende la corona di spine, l’autorità che ferisce solo la Testa. Perché?
Elia Benamozegh non è convincente quando accosta Gesù, hapax di luce e potenza, allo pseudomessia Shabbatai Tzevì, hapax di follia turlupinesca, di gnosi estremistica, antinomistica: e tuttavia l’accostamento può illuminare l’essenza della Rivelazione. Il Rosh (Testa), il Qutb (Polo, nel sufismo) è sollevato dalla legge essoterica, cemento comunitario, gestione umile (in profondità ipocrita ed idolatrica) del divenire, del tempo intermedio tra archè ed eschaton. Egli sconta in sé il tratto paterno, paranoide-folle, della trasmissione esoterica: lo accetta, ma accetta anche l’inizio dell’inganno, la misericordia-illusione (1) per cui l’archè profetica non può essere ulteriormente letta in trasparenza. Per superare l’incestuosità idolatrica-psichica (ed ecclesiastica), oportet che il mito originario non sia visto come mito: ciò è fondamentalismo dalla prospettiva di Psiche, ma dalla prospettiva del Rosh è verità-inganno, conoscenza-compassione; è il grido-lacerazione-errore dell’archè riorientato in direzione messianica, liberatrice (divenuto cioè beatrix culpa). Quindi, nonostante l’ingenuità “ipocrita” di Benamozegh, il nesso tra Rivelazione ed Incarnazione è originario, non è un’“eresia” cristiana: la follia di fronte alla Sapienza del mondo (delle genti), un mito che non è un mito, una “autoallucinazione” per disincantarsi dalla Caduta, il timore come preliminare accettazione dell’ignoranza, la lettera come corpo oscuro dell’Avversario-Dio di Giacobbe-Israele.
Nel Cristianesimo questo punto deve restare sempre esoterico non solo per la conservazione della Chiesa (che Cristo non considerò, e così scagionò il Corpo), ma anche perché il letteralismo-fondamentalismo preliminare è pietra di fondamento di una comunità credente. Non c’è Israele, Colui-che-lotta-con-Dio, non c’è fede, senza questo scoglio: e la fede è inizio di tutto perché la mèta è il Corpo Divino, la Resurrezione, lo Hen-kai-Pollà incarnato.
L’allucinazione dell’Evento è ciò che nello zen è il koan: ciò che pone sulla pelle una verità corporea, un corpo spirituale, che deve penetrare, internarsi, realizzare l’unione, la theosis.

Note


1) Nel Buddhismo Mahayana c’è questa forte consapevolezza: il legame tra Compassione (karuna) ed illusione in senso metafisico. Anche un midrash sulla creazione dell’uomo sembra implicarlo: gli angeli Verità e Giustizia protestavano, perché l’Adamo sarebbe stato menzognero ed ingiusto. Allora Dio, cosa fece? Afferrò la Verità e la gettò in terra.

martedì 12 ottobre 2010

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/6


Chet

È intimo, e difficile da afferrare, il rapporto tra Spirito e disperazione, limite – l’estremo, l’eschaton. Lo Spirito è prossimo alla morte, ha a che fare con la morte.
L’uomo, lo sradicato fra i viventi, l’unico colpevole, fatto a immagine di Dio. L’uomo deinotaton (Sofocle), l’uomo zôon logon echon perché il logos stesso, portato dallo Spirito e da cui, in unione con l’Archè, lo Spirito procede, è diexodos, rottura, domanda. Il logos è il discorso intricato e unitario, il racconto, l’oracolo in quanto aperto al commento e alla realizzazione, l’enigma come segno del mistero, la tensione tra davar-annuncio e davar-cosa (nella lingua sacra, davar è la parola che pronuncia l’evento e l’evento stesso che avviene perché pronunciato): è la tragedia, è la Croce; è il presente storico. La tragedia è aperta nel logos, la Croce nello Spirito: la prima congiunge dionisiacamente, e dionisiacamente strazia, attraverso il semainein (Eraclito), la parola apollinea dell’oracolo; la seconda dona la primizia dell’unione, del Pneuma, attraverso la coesistenza lacerata, in Gesù, di segno e realtà, di fede e scienza, di annuncio e compimento (di uomo e Dio). Sulla scena tragica l’esibizione prolunga nel popolo “spettatore” il pathos oscuro, oracolare-e-mimetico, dell’eroe straziato; sul Golgotha, la scena dello strazio offre lo Spirito perché il logos è incarnato nel patiens, che sa e soffre, che è divinamente attivo e creaturalmente smarrito. La tragedia, logofora (come la profezia, cristofora), si fa dionisiacamente intima nel Crocifisso, si interna esplodendo in segno supremo e scandalo perfetto, e aprendosi al segno ultimo della Resurrezione è pneumatofora. La Croce, estremizzando la tensione tra mythos e logos, è un nec ulterius, un trauma dell’essere, un giudizio, dopo non si può che attendere e basta, dopo è lo ʽeth mashiach, il tempo del Messia, cioè, secondo un rabbino contemporaneo, il tempo in cui è dato attendere il Messia, anzi, in cui non resta altro.
Lo Spirito è prossimo alla morte, ha a che fare con la morte.

venerdì 10 settembre 2010

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/5


Waw


Abramo riceve Isacco, il Sorriso di gioia incredula, Gesù riceve, nascendo, il frutto della sua promessa, della Promessa-Logos che egli è: l'inizio del Regno, del Cristo mistico, totale. Eppure per questo oportet il dono radicale di sé, la morte; non il farsi da parte, ma - scandalo - la croce degli uomini di Dio, sempre la stessa: il rifiuto del mondo, l'odio. Questo scandalo ha un culmine, imprevisto: l'abbandono da parte dei fratelli-figli-amici, e infine l'esperienza del non-senso, il grido: lemah, a che scopo? La fede di Gesù, tesa nella speranza e consumata nell'amore (che è anche e soprattutto fedeltà alla Promessa, a se stesso come Parola di redenzione), prospetta al suo Isacco, al suo corpo-comunità, la verità impossibile: "Dio stesso provvederà l'agnello" - "Il Figlio dell'Uomo risorgerà". Il sapere che è vero aumenta lo strazio che era tutto racchiuso nella fede nuda di Abramo: chi risorge è lo stesso-non lo stesso (secondo una formula comune a Eraclito e al Buddha), io in quanto io vado distrutto - Gesù è trasformato, diviene (Fl 2,8). Qui si innesta il tratto giuridico-giudiziario: Gesù, nella Promessa-Patto-Torah nuova, risponde per tutti, inizia per tutti; la responsabilità del membro-figlio legalmente si fonda sulla responsabilità del Figlio Unico (implicita nell'ebraismo), e insieme, attraverso l'imitazione di Lui e la partecipazione a Lui, è comunicata ai fratelli, è comune in virtù del rinnovamento in ciascuno del Patto di sangue (come la circoncisione). L'effusione dell'acqua di misericordia o spirito passa attraverso la ferita (il vulnus al Corpus giuridico) ed è mista al sangue del giudizio: Gesù viene per divinizzare tutti-tutto attraverso la sua immedesimazione col Patto, che legalmente lo carica di tutto il suo peso.

Zayin


La Croce non può darsi né senza la fede né senza la scienza. Di qui il ditelismo teologico: rapporto crocifisso tra gli schopenhaueriani "carattere intelligibile" (daimon) e "carattere empirico" (ethos), tra i vedantici atman (o Isha, o Cuore) e jivatman etc. L'uomo-uomo (irreale, caduto) sperimenta, conosce-vuole il dolore-dolore, la chiusura, lo iato tra il sé-persona-imago Dei-filialità e l'io-individuo-peccatore-servo ribelle; l'uomo-Dio, il mediatore, colui che porta l'asintoto biblico a negarsi-compiersi nell'infinito, conosce-vuole il dolore-libertà, il dolore che essendo puro è più di se stesso, è transito-mediazione, apertura-ferita che spezzando il cuore lo rende infinito, a misura divina.
La Croce è, ancora, all'incrocio tra tragedia e contemplazione: l'individuo non è né incluso nella teofania-mito, né lasciato cadere nell'epistrofè (la prima esperienza è immagine della seconda), ma patisce tutto ciò che lo limita-giudica in quanto io (il calice dell'ira), trovandosi, per la verità del suo conoscere-volere, là dove coincidono dolore e libertà, samsara e nirvana, limite e infinito.

martedì 7 settembre 2010

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/4


Dalet

Biblicamente, la realizzazione interiore, spirituale della promessa-davar-Logos è pegno e anticipo, arra; e (come nel buddhismo Mahayana) il mistero opera in mezzo agli uomini, cioè, secondo la rivelazione neotestamentaria, trinitariamente, in un movimento/spessore interiore-comunitario. Ma il pegno è sempre croce e attesa: la stessa resurrezione è pegno, perché tutta la Storia lo è. La mediazione di Gesù è pegno di primo grado, e Storia tutta assunta dal Futuro, dal Regno, teofania massima (come il dono della Torah secondo la tradizione ebraica), e insieme punto più basso dell'esilio o galut (Dio si manifesta attraverso un unico uomo del popolo, e questi viene orrendamente/banalmente ucciso): è l'evento più dinamico, trasformante possibile (perché apre ad altri eventi, maggiori, Gv 14,12).

He

Senza lettera (peshat) niente fede; senza fede niente Croce; senza Croce niente resurrezione della carne.
L'alchimia cristiana tratta il piombo della lettera col mercurio della fede, che veicola l'opus contra naturam, il lavacro-baptismos mortale da cui esce l'oro, il seme perfetto e fruttificante, l'inizio, il presente in cui si specchia il Presente Eterno o Eterno Futuro.
Lo stesso in Abramo: lettera del comandamento (scandalosa in quanto saturnina: "Offrimi il tuo unico figlio", come i re dalle cui terre sei uscito, perché tutto è mio, Io solo sono); fede in tutta la promessa (Isacco è il primo sigillo del Patto eterno, irrevocabile, "senza pentimento"); lacerazione perfetta nel rapporto col figlio (la magnifica sinfonia di silenzio e dialogo nell'ascesa del monte: Kierkegaard è riduttivo quando parla della solitudine del padre, legge il testo con la monoculare prospettiva protestante); resurrezione del rapporto, conferma della prima promessa, più paradossale dello scandalo stesso.
Dio ha promesso: Gesù dice: Io vengo a realizzare questa promessa, in me la promessa di Dio prende esistenza di carne; e tuttavia il Figlio sarà ucciso, come i profeti prima di lui (saturnino, qoheletico). La fede (in Gesù congiunta alla scienza) dice: risorgerà; Dio stesso provvederà. Ciò crocifigge: io lo so e lo credo, ma patire la morte oltraggiosa mi scandalizza. Così la Croce intima-visibile, l'evento agito-creduto, veicola il mantenimento della promessa. Il davar-parola della promessa si fa davar-cosa, basar (carne, esistenza).

domenica 5 settembre 2010

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/3


Ghimel

E ancora: la Croce è moria per i gentili, skandalon per i giudei. Moria è stoltezza nel senso di empietà, irreligiosità: come adorare un dio letteralmente finito sul patibolo dei sudditi come un delinquente esaltato? I gentili, i goyim ammettono gl'idoli, non ammettono, se non solo metaforicamente (metaforicamente in senso letterale), la rottura degl'idoli (biblicamente, spezzato in cielo l'angelo-dio, sar, di un popolo, è ipso facto spezzato il popolo). Gli ebrei, o meglio i giudei, ammettono la rottura degl'idoli (anzi, da ciò nasce l'ebraismo), ma non ammettono la rottura della rottura (la deletteralizzazione della rottura), non ammettono che, bevuti/mangiati i frantumi dell'idolo (cfr il vitello d'oro, strana figura dell'Eucarestia), si mostri il Dio intero, spirituale; e quindi la Croce innalzata è pietra d'inciampo, perché li imprigiona nell'alternativa YHWH unico-idoli. Tolta la tensione messianica costante (potremmo dire l'attaccamento alla libertà), è così "tolto" l'ebraismo (ma sappiamo che il suo inconcepibile destino profetico ha preservato inconcepibilmente la luce della berit nella disseminazione dell'Esilio).
L'ordine fluido, e politico, della religione mitica, del sacro mitico, giudica la Croce folle-empia, atea, senza un dio-archetipo di riferimento, o meglio con un non-dio asinino (cfr il graffito irrisorio del Palatino), ilico. La Croce fa inceppare la macchina del sacrificio naturale-politico, fonte del diritto naturale.
L'ordine sacerdotale, della religione rivelata (alleata-avversaria di quella statale), giudica la Croce scandalosa, una tentazione-aporia, una prova-limite, che coinvolge l'intero edificio tradizionale. La Croce fa inceppare la macchina del messianismo letterale e allegorico, organizzato, contratto, dilatorio, la sua perpetuità che finisce per ostacolare l'infinità-eternità (portato del diritto religioso applicato all'insolubilità della Scrittura).
I due ordini si alleano casualmente-necessariamente, quindi misteriosamente, per ricondurre entrambe le tensioni al loro limite, al loro eschaton: la Croce è un centro perché tira altrove, non servirà mai a ri-fondare l'edificio sacrale (con la prospettiva piatta, psichica, mayica dei goyim o l'astuzia alla fine logorata, consumata, degli yehudim), ma solo a svuotarlo - col rischio continuo di ripetere l'ipocrisia-duplicità giudaica (sacerdotale-messianica) e l'idolatria imperiale pagana (non incarnazione ma gestione del sacrum presente, disponibile).

sabato 4 settembre 2010

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/2


Bet

I due bracci della Croce additano, e sono, la perfezione della conoscenza, sono il genjo koan, la "contraddizione realizzata", del buddhismo zen (1). Ad esempio: il mistico vive/conosce l'unicità dell'Essenza divina (al-Hallaj dice: "Io sono la Realtà-Verità"), ma la sua vicenda umana è velata dai doni divini comuni, e comunque non si consuma nella tensione verso la manifestazione (il mistico è l'esoterico rispetto al letterale, ma poiché è interno a una tradizione, che riconduce alla sua origine-novità, è anche il letterale dell'esoterico); il sacerdote e il re sacro mimano l'evento umano-divino attraverso la mediazione del rito, sono anch'essi interni a una rivelazione in qualche modo già data: il profeta lascia che Dio faccia della sua umanità un segno, irripetibile e fuori della mediazione tradizionale, ma proprio per questo egli è sempre ancora la Voce (come l'ultimo, il Battezzatore) e non il Verbo, è cristoforo e non cristo. In cima al Golgota la mistica diventa l'alto braccio verticale su cui il corpo sta eretto, eppure inclinato dalla misericordia e dal dolore: la profezia diventa l'ampio braccio orizzontale su cui si dischiude l'amplesso e inchioda l'abbandono (allargo le braccia nella perplessità, nell'adorazione, nella caduta); e su questo perfetto incontro di vie opposte del pensiero e dell'esistenza, muore la perfezione della tradizione, muore la regalità sacra, muore il sacerdozio, perché oportet che muoiano, per risorgere (se pure muoiono gridando, se pure muoiono sussurrando tetèlestai, cioè sia "è compiuto" sia "è finita").
Un altro koan, un'altra contraddizione che lacera e illumina: la Legge, data per questo mondo, ha ragione di condannare chi in questo mondo riveli ciò che è perfettamente vero solo nel mondo-che-viene (2); e tuttavia (waw copulativo-avversativo, ambiguità tipica della lingua ebraica) la Legge, provando e condannando il caso-limite, il Messia-Dio, prova e condanna se stessa, costituendosi come ostacolo alla rivelazione finale che dovrebbe preparare e mediare. Il punto d'intersezione, impossibile e più vero dei due termini in contrasto, sta in ciò, che l'imputato non è peccatore e maledetto, ma è fatto peccato (2Co 5,21) e maledizione (Ga 3,13); poiché accetta sia la sentenza sia la sospensione scandalosa della Legge, egli prova se stesso provando la Legge, quindi non ricade nelle sue definizioni di colpabilità (peccatore) e passività sacrale (maledetto): identificandosi con la totalità del processo, dell'iter, egli non è più vittima del processo ma di Dio.
Non patendo la Legge, e non sfuggendola, Gesù ha restituito la moneta a chi l'ha coniata.

Note

1) Cfr Eihei Dogen Zenji, maestro della scuola zen Soto. Simone Weil ha sentito fortemente il nesso tra koan e Croce.

2) Cfr la bella discussione giuridico-mistica del grande sufi algerino Abd el-Kader, nel Kitab al-Mawaqif.

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/1


alla cornacchia (kavka) che fu più gentile della colomba del diluvio; ed alla vergine che scontò in se stessa ogni perché (weil), scoprendo che tutto passa, in filologia come nello spirito, per una crux interpretum


Alef

Qohelet: sotto il sole niente è nuovo, chadash, cioè niente è evento compiuto, definitivo, presenza piena: tutto è già passato, già scritto nella Scrittura.
Eppure lo scritto (1), la Scrittura non raccoglie che degli eventi, quindi dei presenti: ma incompiuti, cifrati, intersezioni tra il passato, il vecchio, il non-nuovo (fisso) e il "futuro", l'imminente, il nuovo, il perfetto (fissazione finale, che passa attraverso la volatilizzazione, la distruzione, la morte: il presente) (2). Il presente della fondazione ha il suo fondamento fondante nel "futuro", ha-ba', ciò-che-viene: Gesù messia stesso diventa obbediente (Fl 2,8) tramite la Croce, e Dio tramite la resurrezione, e Christus totalis (Agostino, Isacco della Stella) nella consumazione dei tempi. L'Unigenito diventa (egheneto, Gv 1,14) l'uomo Gesù, che diventa Primogenito, primo dei fratelli, figlio naturale (e virtualmente adottivo, perché la natura, anche in Dio, va riscattata, donata, annientata) cioè non per partecipazione-adozione (nel mistero della Chiesa, come i discepoli) ma per autorità-missione, con la garanzia della sua parola che viene provata dai suoi atti e dalla fede stessa dei membri (Dio ha bisogno dell'uomo, dice il Talmud). Così la Parola di Dio Padre (parola che è il Figlio) nel patto ebraico era provata dalla storia "futura", affidata ad essa, figura sempre di nuovo del Futuro-Ha-Ba'. Gesù stesso è origine-e-figura, Deus-et-homo: col suo gesto autorevole e rischioso (anche in lui, soprattutto in lui, è la fede) ricapitola (cfr Ef 1,10) tutta la Torah e la sua storia; se la Legge non penetra più nei cuori, sii tu stesso la Legge (sbilanciamento che riequilibra: questo dal punto di vista psicologico). Gesù vede che un ciclo è al suo punto di svolta, e ciò esige, perché la Legge esista, che si sospenda, tornando all'origine (all'archè, al reshit), la sua continuità di trasmissione, e si mostri la discontinuità, essendola (una sentenza talmudica, che Gesù forse conobbe e applicò, dice: "L'annullamento della Torah è la sua perpetuazione-risurrezione"): ciò che soferim ("scribi" e "farisei") e mequbbalim (cabbalisti) fanno e faranno velatamente, Gesù lo fa messianicamente, incarna una parola (la Parola), e quindi concentra su di sé, persona duplice e unica, la fede altrimenti dovuta al solo Nome immanifesto e rivolto, perché Reale, al Possibile (=al Regno).
Ciò sarebbe idolatria se Gesù non morisse volontariamente (oportet enim...), cioè spiritualmente e carnalmente, come nella pratica buddhista il Buddha ("Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo", ordina l'esoterico precetto zen): così la Chiesa è crocifissa tra la possibilità dell'idolatria e la povertà estrema di Gesù-fratello, il cui volto è nei minimi. La Verità della Chiesa è dunque nella Croce stessa, serpe di bronzo, che esibendo l'Uomo lo uccide: Egli diventa Dio svuotandosi; se non l'avesse fatto, sarebbe stato ipso facto l'Anticristo, il Satana, che può essere solo il mezzo-incarnato, il Mostro (Kafka dice: il male può sedurre l'uomo, non farsi uomo). La totalità dell'Incarnazione è connessa, in Gesù, proprio a ciò che è impossibile a Satana: la kenosis, l'incompiutezza (Cristo è "solo" il caput, la testa del corpo). Egli è l'Incarnazione del Verbo proprio perché non ha dissolto il mondo, e non si è appropriato di se stesso, non è stato se stesso trionfalmente, harpagmos (Fl 2,6). Satana potrebbe essere l'Imperatore del mondo, risolvendolo in sé; il Messia divino doveva esserne il Re, cioè il servo e il vincitore.

Note

1) Il messaggio dell'Imperatore è scritto, ma deve arrivare. Il presente è il crepuscolo della sera alla finestra: il sogno, nell'ebraismo, è metafora dell'Esilio.

2) Così la Torah orale (lett. "nella bocca"), il commento, avanza di rinnovamento (chiddush) in rinnovamento, attraverso i vuoti pregnanti della Scrittura; così le Tavole dovettero essere spezzate, come l'uomo-Dio Gesù sui due bracci della Croce, per essere consegnate agli uomini.

martedì 3 agosto 2010

Ultimi pensieri di uno dei terroristi musulmani che si sono scagliati con un aereo di linea su Manhattan



Kullu sha’in hālikun illā wajhahu
(Tutte le cose periscono tranne il Suo Volto.)
SURA DEL RACCONTO, 88

La vittoria è la fine. La salvezza
è distruzione. Lo sappiamo, in fede,
noi che imitiamo Allāh, se dirlo è dato,
nel suo perenne aspetto manifesto
quale perfetto ardore di sterminio,
giudizio divorante, ordine nudo
di verità che rade la menzogna
– cioè l’essere, e i suoi servi, gl’infedeli.
Egli è certo anche l’Intimo, l’Occulto:
e questo volto (ammettiamolo pure)
del Misericordioso, inattingibile,
veglia persino nel buio dei cuori
che adesso spegneremo, in quelle carni
brulicanti alla luce inferma e cruda
dei traffici, premute senza scopo
sul suolo – sarà facile squassarlo –
di quella sola fede abominevole:
una pace terrestre; stare bene.
Come oblazione che tracimi il rito
li bruceremo noi, e noi con loro;
su un altare di crolli, senza calcolo,
innalzeremo tutti, che ritorni
tutto a Colui che un giorno l’ha evocato
– quelli che puri furono per grazia
anche fra gl’infedeli, abbiano requie,
e i più, gl’impuri, affoghino per sempre
in un sonno confuso e insopportabile.
Ho scannato il pilota. Ha dirottato,
dopo diranno i ciechi. In fede mia,
a quest’ali ho insegnato con violenza
l’unica rotta che porti alla mèta,
la corsa necessaria, l’implacabile
perdizione, la sola ebbrezza lecita,
quella del lutto e del sangue versato.
È il momento. Babele è così stupida
e sazia e dritta che nemmeno trema.
Non c’è altro dio fuori da Allāh, Muhammad
è il Suo inviato, e io il Suo testimone,
di cui Egli ha bisogno (non è empio
dirlo, oramai) per prendere possesso
del Suo regno, per schiudersi una via
fra il fumo, gli urli, la carne umiliata
alla Sua spoglia e immane solitudine.

13 Settembre 2001 –



NOTE:

Allāh è al-bātin, il Nascosto, e az-zāhir, il Manifesto; il primo aspetto è connesso alla grazia e allo spirito, il secondo al rigore e alla lettera o legge. Talvolta, negli ultimi tempi, si è azzardato l’accostamento fra gl’islamisti suicidi di Hamas e al-Qā‛ida e gli Hashishin (Fumatori d’Hashish, secondo la torva leggenda, da cui Assassini) di Alamūt, roccaforte della resistenza ismailita (messianismo mistico e azioni di guerriglia e terrorismo antiselgiuchide); comunque sia, non è incredibile che nell’anima e nella memoria del contemporaneo terrorista nichilista si agitino filamenti spettrali di idee mistiche.

lunedì 2 agosto 2010

Barukh Habba (per il natale di Giovanni il Precursore, 24 giugno)


per Antonio Allegrini, poeta ed iconografo
 
Che cosa
dal deserto del verbo
come da un cuore asciutto
si leva all’aguzza duna della mente
e biascica la luce
con dolore d’insetto nascituro
e respira con vaste membrane
tirate su architravi di sozzura
la morte pastosa, il piccolo
criminale passo fra due angoli
del cortile di sasso accecato
dal biancore che cerchi di vedere?
Mi ride obliquo un nome:
è una tempesta del mio cuore asciutto,
è la peste del campo e il miele scarso
che spacca il sasso cresciuto nel respiro,
umiliato dalla preghiera,
stagionato d’infanzia come i solchi
preziosi che penetra il Giordano,
ma più incerto e più saggio, col sorriso
delle stimmate della sua giovinezza,
dono degli angeli e del demone meridiano.
Sono Giovanni il Giudeo. Ho visto poco,
docilmente, un filo d’estasi, poco
e male, ma il male che ho mirato
lungamente nel mio lungo amore
mi fa gustoso attendere, e tirare
l’attesa nel lampo, e ruminare
il liscio versetto che porto
nelle mie ossa lette crudelmente
dal sole del Veniente, intrappolate
nel suo passo lentissimo, nei suoi
fulminanti disegni di rettile
sul corpo del deserto.

- 4 Luglio 2002 –

venerdì 30 luglio 2010

Corsivo impubblicabile sul referendum del giugno 2005


L’embrione è più forte di me
(la parola con cui lo parlo
è schermo alla luce,
moggio sulla lampada), forse perché
l’essere è, il non essere non è.
Come avrebbe votato Parmenide? Come Lao-tse?
La vita è piccola, minimo il creato,
per questo sorridono, soffrono e ci travolgono
come l’alito nudo
che orripilò il profeta
forzandolo a velarsi.
Vedo facce
di carne tranquilla, di tranquillo sdegno,
corpi senza memoria dell’antico
disastro, senza naso per la gloria,
corpi listati a lutto di parole
senza brace di lutto per il verbo,
corpi senza pudenda, senza rughe
di essere – forse perché
l’essere è, ma io posso non essere.
Batti un colpo, Lao-tse. Parla, Parmenide.

martedì 27 luglio 2010

Appunti su Parmenide


Provo a rileggere Parmenide attraverso Florenskij e Wittgenstein (che strana coppia! E che ancor più strana triade!).
Il reale è l’esistenza, l’Uno-Tutto. Le idee-archetipi sono i possibili (universali e necessari), che la mente umana astrae dal continuo dell’esistenza. Dalla prospettiva umana, i possibili (idee) sono più reali del continuum materiale e della percezione particolare, che pure sono simboli della concretezza ultra-noetica e ultra-possibile (il plotiniano Uno). L’atomismo delle forme si è imposto come soluzione filosofica delle aporie zenoniane (-parmenidee) sull’Uno-Molti, il vuoto fisico come risposta all’enigma del non-essere e del continuo. Ma perché l’Essente parmenideo è stato presentato come un’astrazione, come una sorta di gioco di prestigio mistico-filosofico? (È una questione affine a quella del Vedanta). La sfera-uovo è piena di contenuto, non è un grande guscio formale! (O meglio, c’è anche una parte formale, logico-categoriale, dell’insegnamento parmenideo, ma la pessima tradizione del testo, e la non migliore ricezione, ha forse spinto alla confusione tra i diversi piani). Per scoprirne il contenuto, credo sia opportuno ricorrere allo sguardo fenomenologico – un po’ come fa il buddhismo Mahayana, che però ha un logos troppo culturalmente-spiritualmente distante. Del resto, le “due vie della dizesis (della ricerca razionale, del logos-discursio)” non possono essere applicate ad ogni noema, ad ogni conoscenza intenzionale (diciamo così)? “Tutto è in tutto (in tutte le cose)”, l’intuizione anassagorea-ermetica non può essere una chiave dell’essere parmenideo? Ogni eon come manifestarsi concreto di tutto l’eon: la sfaira di Aletheia (la Manifesta) come quarta dimensione realizzata in ogni nostro atto di vita-conoscenza (la sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte – una sorta di coincidentia tra gli opposti dell’infinito e del finito, un infinito attuale?). Ma è davvero possibile leggere in questo modo i frammenti parmenidei? La comprensione del nous fa già problema: credo che per superare il ‘mentalismo’ post-rinascimentale il ricorso a Wittgenstein sia indispensabile, o quasi.
Il noein come il ‘pensare’ di Wittgenstein, l’uso normativo di simboli? In effetti il nous è sim-bolico, rende (riconosce come) reciprocamente presenti (pareonta) i lontani (apeonta), realizza (il pensare come fare!) la continuità dell’Uno-Tutto come Uno-Molti (eon tou eontos echestai). L’eon è dunque il simboleggiato (ouneken esti noema) all’interno del quale accade il nous-noein che lo realizza riempiendolo di contenuto (ou gar aneu tou eontos... eureseis to noeinto gar pleon esti noema). Ma cosa può garantire l’identità di noein ed einai se non la giustizia, dike-ananke-aletheia, la stipulazione universale (la berith ebraica, il mithāq coranico) in sé vuota, nel senso che è manifesta solo nelle particolari espressioni culturali umane (il noema riempie l’einai)? Si obietta: ma allora come fondare questa idea di un tutto limitato, di un insieme di tutti gli insiemi, di un universo che è immanente a tutti gli universi e tutti li trascende? Qui il finitismo di Wittgenstein avrebbe di che demolire: si tratterà di un’intuizione mistica che non può entrare nel logos se non nel modo normativo-legislativo, profetico, dell’annuncio parmenideo?
Il nous si rende presente (paristatai) all’uomo come la crasi simbolica delle sue membra molteplici: è un vedere come, uno sguardo simbolico-organico. La meleon physis è ciò che rende l’uomo-microcosmo connesso al macrocosmo (vedi Florenskij sul corpo)?
Importante: il nous, interno all’eon, in quanto attività, noein, lo realizza-riempie. La dea incontrata da Parmenide giovinetto (kouros) è forse Afrodite, che congiunge simbolicamente i sensi al simboleggiato, alla platonica idea?
L’eon come “il mistico” di Wittgenstein? Non può essere detto, ma mostrato – eppure chren to legein eon emmenai... Forse il pensare e il dire appunto mostrano (rivelano) il Tutto-Essente, e il non-senso della filosofia (e della poesia) è l’esperienza-limite, il gioco-limite segnato dalla mania. Il pensare e il dire non comprendono-oggettivano il Tutto-Essente, ma lo rivelano – e il pensare-dire della poesia e della filosofia possono rivelarlo caricandosi della paradossalità del limite-confine. La filosofia, per non farsi ‘metafisica’ (nel senso heideggeriano-wittgensteiniano di super-fisica), può entrare nello spazio aperto dalla (della) poesia, farsi esegetica-dialettica alla luce della poesia – e del linguaggio comune.
Poiché il “mistico” di Wittgenstein è così affine al timore-stupore che riconosce la creazione (e che secondo la Bibbia è il principio della sapienza, reshit chokhmah), l’essere di Parmenide può essere forse riletto alla stessa luce: non la luce della creazione, però, ma quella che illumina la Manifestazione orfica librata sulla Notte principiale.

domenica 25 luglio 2010

In margine al commento di Nachman di Breslaw sull'ordalia delle acque amare


Come l'ordalia delle acque amare prova la fedeltà o l'infedeltà della sposa, così l'umanità sposata dal/al Verbo in Gesù beve l'amarezza della Croce, in cui è cancellata non solo la formula di maledizione, ma il Nome stesso di Dio che vi è contenuto e la sostanzia. Nella notte della prova di Gesù non è cancellato Dio ma il suo Nome, che tuttavia con Dio coincide in quanto è il suo vivente manifestarsi: il Nome scritto è cancellato per la prova che riconcilia gli sposi, la Torah scritta è sospesa, annientata nella morte del Verbo incarnato per l'effusione della Torah di grazia, dello Spirito di concordia, l'amore del mondo redento, del Regno. Secondo la qabbalah, nella colpa (chet, lettere chet-alef-tet) la Alef, il Nome di Dio che è Dio, è presente - ma muta, quiescente, esiste e fa esistere la colpa (la colpa-espiazione) nello stato di non-manifestazione. Così è un unico mistero, e la Croce (mette alla) prova realmente l'umanità di Gesù, l'uomo Gesù, in cui Dio è velato proprio per esservi intimamente e compiutamente presente - cancellato per essere bevuto, bevuto per provare, per mettere alla prova, la sposa, la carne umana e terrestre.

Contemplando la Conversazione platonica di Casorati



Vestito ammodo, quasi catafratto
della mia esoterica miseria
ruminando la tua nudità
più velata del mio capo mortale
mi schermisco dalla tua acqua
raggiante, prendo rifugio
da te in te.


Donna di splendori
e di dolori, questa presenza
basta a dirmi la pace del mostrare
più densa d'ogni angoscia lunare -
basta a darmi a me stesso, come la mirra
sulla mia mano e il mio mento
come la cenere e il sale
sulla mia fronte mortale.

mercoledì 21 luglio 2010

Such stuff as nightmares are made on


Ogni evento storico è speculum di tutta la storia (intuizione antica e medievale oggi allegramente schernita o vigorosamente dimenticata): ma se c’è uno specchio particolarmente e orribilmente nitido, è la crociata albigese. Per impedire che i catari del Midi si ammazzassero con la sacrilega oscurità dell’endura, Simon de Montfort li prevenne ammazzandoli con il trionfale splendore della spada.

martedì 13 luglio 2010

Piccola musica di resurrezione notturna


Per Mariella e Giovanni
Quando sono morto
nel punto inafferrabile
che costruisce i mondi –
quando ho perduto
l’ansia di conoscermi
nel tessuto dell’oblio –
e consegnato al sonno
ho accarezzato un’acqua
che sapevo remota
e mia – quando ho veduto
velarsi lo specchio
e udito esattamente
il fiorire del suono
che sarò eternamente –
tu sei apparsa finalmente
non come il primo giorno
giocando a moscacieca –
ma come il primo grido
che ho compitato accolto
nel silenzio del ventre

giovedì 8 luglio 2010

Conversazione nella periferia romana (redazione definitiva)


I.

Ma dimmi, amico, quando
la giovinezza è caduta
dal dolore veggente del poeta,
dai suoi solchi di luce notturna,
quando ne è stato fatto
un ceto, un universale
post rem
, una classe
di uomini incerti e vigorosi
per succhiargli il vigore e manovrarne
– ipnotizzata bene – l’incertezza?

Questo pensavo tra una tappa
di deserto e l’altra
della via Casilina,
periferia d’un centro mai stato
perché la città – ricordi, amico? –
è l’invenzione con cui Caino
cercò di mitigare l’espiazione, di differire l’incontro
maledetti dell’Eden, unitevi
e in uno stridore concorde
di manette mentali ben oliate,
o male, dove lo punto
il compasso, e quale raggio dovrei mai
determinare, se il cerchio
è figura di quiete fremente, di ricolma esattezza?

Li vedo, come li vedi tu, i giovani
che forse fummo, e che morendo
saremo, forse, li vedi come cercano
di consistere con quello che hanno
– gadgets, smorfie, eroi sempre più irridenti
la loro fame non più puerile (non c’è
età più violentemente, ingordamente ascetica
della giovinezza) la loro fame
giovanile ed eterna
di bellezza, la mortale, la giusta
bellezza di un destino comune,
il mio, il tuo, il destino
solitario e comune cui ci chiama
anche e soprattutto questo cielo?

Le tue torri, Roma
mia, Roma tua, non difendono
con le loro ossa tutte uguali
ma stigmatizzate da arcana,
secca, inaudita scrittura
là dov’era il midollo, non possono
difendere nemmeno una pecorella, un’anima
variamente smarrite, un filo
d’erba, un gatto, dalla smorfia
di Medusa del nostro evo: non fanno
che cingere un bivacco di immagini
sempre più pallide, un bivacco
di giovinezza sempre più orba.

Neanch’io ti vedo, luna, sebbene
al limitare estremo della mia giovinezza
e con un occhio tagliato nel cuore
dal sapermi nomade: eppure ti penso,
non indifferente né salvifica,
non onnisciente, non
galileiana né armstronghiana, ti penso
come un animale o un sasso, luna,
come farebbe una strada qualunque
della Roma mia e tua
che non vuol sopravvivere davvero
ma stare e consumarsi alla tua luce
e alla tua ombra dolci sul massacro.

II.

Una cosa bella è una gioia per sempre,
una cosa brutta tortura il cuore
e la carne fino al corno
di Elia, fino all’occhio del Giudice.
Ciò che mi tiene avvinto in aeternum
a questa città, è la sua vocazione
all’apocalisse: tutto in lei, ogni cosa
– il bello che fu promessa di bello
ed ora, morto, manda vaticini,
il fu-bello non morto, vampiresco,
e il troppe volte morto, e la piena tranquilla
del brutto d’ogni età – in lei tutto
mi costringe all’estremo orizzonte
come una pistola puntata
a un orizzonte contratto. La città
(la mia) è una pistola
apocalittica, un teatro
di falsa morte, inquieta,
alla meglio sedata,
dove il bene, il bello, sono dettagli
catastrofici, colpi di scena
subito esatti dal buio, incidenti
di percorso, stradali. Qui l’abisso
della noia chiama l’abisso
delle cose ultime, le cose di Dio
aperte in una luce di disastro.

III.

Ma i giovani, amico, i giovani
che non siamo mai stati, che forse
ci è dato essere tra una parola
e l’altra, tra due pensieri già vecchi,
come attenderanno le cose ultime
se non gli fioriscono dal sangue,
se non gli accestiscono dal seme,
come fanno a gonfiarsi, a partorire,
come gli riesce di morire
se non hanno più un corpo?
Per questo la bellezza nemmeno li offende
o trafigge: soltanto al principio
li infastidisce, poi li attraversa
lasciando al massimo l’uovo e lo sperma
– disgiunti – di un rimorso. Talvolta
quando li sento bestemmiare
così compiti e tetri, a bocca larga
di sonno, quando li vedo
arrancare sui binari indegni
di indegni padri, col passo
di un vecchio vagone
avviato al deposito, se non fossi vile
più di loro, li prenderei per il collo
in pace, ardentemente,
senza il levame di un sogno
da gettargli in gola, se potessi,
asciutto e consumato, gli urlerei:
Spogliatevi di sky, della vostra banca
che è differente, toglietevi il breil
intoccabile, strappatevi di dosso
l’ipod, i jeans, il tatuaggio, la
maglietta marchiata dal negriero
fatuo delle sfilate, sfilatevi i boxer
fosforescenti, i bra televisivi,
il tedio della scuola e del weekend,
il ghigno dell’autobus, la smorfia
dell’happy hour, lasciate cadere
abbronzature e debiti pallori,
rinunciate alla timidezza arrogante
dello sguardo, scrostatevi i sensi
dalla città, dal ghetto, dalle morbide
astrazioni del secolo: vi prego,
abbiate il corpo che vi è stato dato
quando non eravate, e tutto intero
datelo al tutto, e a niente e nessun altro,
gettate il vostro pane sulla faccia
delle acque, nei flutti lebbrosi
del Tevere, buttatevi a fiume,
e dopo molti giorni, molto a breve,
praticamente subito, troverete sul fondo
l’albero e il gatto, la morte e le stelle,
le cose prime, per la prima volta
aperte nella tenebra lucente
della vostra difficile aurora.

domenica 4 luglio 2010

Madrid 11 marzo 2004 - a un mese dalla Pasqua


Dov’è il fiato che ama
nel bozzolo del fiato che s’incrina?
Lo sapevo, ma l’ho dimenticato,
non mi sono concesso di morire.
Facile
entrare nella vacanza di ciò che sorge e svanisce,
facile il chiaro ossequio, prima o dopo.
Eccomi qui, dove resto, silenzioso
nella fibra più aguzza e tenera del grido,
nel sangue più limpido dentro all’acqua del grido.
Lascio gridare, sui miei resti, il grido.
Capisco perché ci danno questa morte, capisco
che il sogno di sangue vuole portarci
un brandello di veglia senza fiato
un resto di visione senza faccia
in cui la nostra faccia colossale
si dischiuda dal guscio della luce
dalla placenta torbida dell’aria
dalla colla amorevole del fiato.
Capisco che la bomba voleva qualcosa
come la grazia e la tortura, qualcosa
come sgravarci di noi stessi, ora,
tutti insieme e del tutto, come assisterci
di colpo nella cecità necessaria
del parto che ci era destinato.
Veniamo al buio mentre aleggia stanco
ad una luce troppo quieta e ovvia
l’angelo decisivo che avevamo augurato.
 
+ + +
 
Dov’eri tu quando mettevo
nei suoi ranghi Orione?
Quando intrecciavo le Pleiadi
e distillavo la pioggia?
C’eri tu quando disegnavo le zampe
e il cuore dell’ibis e tentavo il suo canto?
Ora m’avvedo, ho sentito abbastanza,
le orecchie sono pregne, hanno rotto le acque,
adesso è tempo di vedere un poco,
tornino su dalle rotaie gli occhi
salgano su dalle reni stuprate
è ora che vedano, perché giusto ora m’avvedo
che non c’è da rispondere al Tremendo
quando sciorina il circo tumultuoso
della Sua tracotanza, non c’è
risposta alla nostra bassezza,
alla Sua altezza solo questo silenzio
comprende tutto in basso come in alto,
questo silenzio infilato nel grido
inchiodato nel muscolo che trema
del mio fiato.
Non c’è risposta, che non sia la bassezza
del silenzio e l’augurio della bomba,
la disfatta ridente e madornale
di Chi inquisiva, no, patrocinava,
anzi teneva in grembo l’imputato,
anzi lo era, e il turgore agghiacciato,
nel trionfo, del Pubblico Ministero,
(una presentazione del circo, una mirabile
intimazione d’ordine assoluto),
di chi si fece avanti tra i figli di Dio
con l’aria del più geloso, del più iniziato.
 
+ + +
 
Dove sei, mio respiro?
Che hai fatto? Mio guardiano,
guardiano e custode di tuo fratello,
chi t’ha detto ch’eri nudo?
Chi t’ha permesso di crederlo?
Chi t’ha insegnato a sfuggire l’ira,
a gridare su dalla terra,
a non parlare davanti al tosatore?
Dove sei? Dov’è finito
l’amore del tuo pellegrinaggio
il tuo accogliere spazio
la tua umiltà furente di crisalide?
Dov’è iniziato ciò che non inizia,
il nostro cuore, il fiato del fiato,
lo spirare a vuoto,
la pienezza più tenera e feroce
nel mio niente e nel tuo, lo Spirito Santo?
Per che, per chi mi hai abbandonato?
 
+ + +
 
È un tappeto di lamenti
perché le anime non hanno la forza
di lamentarsi per bene senza un appoggio,
un interprete, uno che sappia le lingue,
è un roveto di trilli su dal fondo
della bassura più libera e strana,
un salterio di telefonini
irraggiungibili al momento, o quasi,
se non che, in un modo o nell’altro, va aiutato
il grido nel suo viaggio, e vada pure,
vada dove deve, non dove può,
vada finché la terra e chi la abita
ha ancora in vista dei buchi di cielo,
finché la vacca Europa sempre profuga
conosce ancora un’aria di muggito,
uno spazio canoro devastato,
finché basta lo strazio fondo e lieve
dei suoi telefonini a sostenere
il volo dell’interrogazione,
l’unica grazia, il resto, l’esplosione
dei cuori e dei respiri che ritornano
sul colle che ha esibito ogni bassura.
 
+ + +
 
Dove sei fiato? Fratello, Signore,
dove vai?
Adamo, vai a farti confutare
contro il legno dell’albero ancora?
Dio mio Dio mio perché
non mi hai abbandonato
alla facile morte
di ciò che, forse, non era chiamato
ad essere Figlio,
ad essere in Te stesso consumato?


- Domenica delle Palme 2004 –

giovedì 1 luglio 2010

Elia Benamozegh e la nascita del cristianesimo dall'ebraismo


Ovviamente, le apologie sono... indifendibili. Eppure sono preziose, necessarie, perché costringono a pensare – e spesso lo fanno magnificamente. Uno dei libri più stimolanti che io abbia mai letto è Ortodossia di Chesterton, una buona metà del quale mi pare ancora del tutto ingiusta e francamente irritante.
Insomma, le apologie, il logos usato per mettersi sulla difensiva e respingere... Tanto più quando vantano la superiorità di una morale (la propria!) su un’altra. Ma per Benamozegh (per ogni spirituale) la morale è fondata sulla teologia, e infatti la sua brillante e ‘perfida’ (vecchio aggettivo liturgico cristiano!) polemica sulle ‘morali’ è quasi incomprensibile senza il suo arduo ma necessario studio sulle (indimostrabili) origini cabbalistiche del cristianesimo.
La controversia giudaico-cristiana è tutta presente, folgorata in una scena eterna, nell’interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio. "Sei tu il Messia, il figlio del Benedetto?". "Voi lo dite!". Benamozegh è finissimo nell’esegesi: il Messia, cioè il Figlio, sei tu – coincide con la tua persona? Risposta: voi lo dite; lo dite voi. Né sì, né no, o l’uno e l’altro, come spesso accade nei Vangeli. Gesù si proclama, ora con veli e reticenze, ora tuonando, il Messia, ed anzi, stando alla maggior parte della tradizione ebraica (quella non-apocalittica, non gnostico-apocalittica), più-che-Messia. Il suo annuncio del Regno imminente spezza – ma non annienta – la disciplina dell’arcano che in ogni tradizione separa e congiunge l’essoterico e l’esoterico; lacera il velo del Tempio, simbolo della mediazione che il Testo scritto, offrendosi alla lettura, opera tra nascosto e manifesto, tra acque superiori e acque inferiori. Da un certo punto di vista Gesù, mostrando l’eschaton, riporta la tradizione alla sua arché, ma non c’è dubbio che il suo insegnamento e i suoi gesti, i suoi segni, la spingano anche alla rottura e all’autocontraddizione – origine di tutte le tragiche antinomie paoline. Certo Gesù resta all’interno dell’orizzonte ebraico e Paolo invece è già il profeta di un esodo drammatico e ambiguo, paradossale, la cui carica dirompente si rivolgerà, sebbene in modo del tutto diverso, anche contro la tradizione ‘pagana’, cioè ellenico-romana. Ma Paolo, nonostante Nietzsche, Tolstoj e talvolta Benamozegh stesso, non è l’artefice di uno strappo di cui Gesù non è affatto responsabile: è il traduttore di una visione e, come i primi califfi, interpreta per filo e per segno il mandato del Profeta, pur facendo cose che il Profeta non avrebbe riconosciuto come proprie.
Ma veniamo alla tua destructio destructionis. Sicuramente l’apologeta è un retore, e spesso utilizza gli strumenti di una dialettica interessata, proiezione di quel grande io che è il noi della comunità religiosa: e quindi è quasi inevitabile l’effetto pagliuzza-trave, che spinge magari anche un non cristiano, quando legge Benamozegh, a simpatizzare coi cristiani e un non ebreo, quando legge diecimila pagine di teologia cristiana, a simpatizzare con gli ebrei. Alcuni anni fa ho studiato il Radd al-jamil, un trattatello in cui un teologo musulmano medievale legge il Vangelo di Giovanni e vi trova tutti gli elementi per confutare la divinità di Gesù e la Trinità di Dio. Il punto di partenza della sua esegesi è questo: parola di Dio è Gesù (in senso islamico, ovviamente), non il Vangelo, che quindi (a differenza del Corano) abbonda di versetti che vanno letti in modo ‘allegorico-figurato’, non letterale. Dice poi una cosa interessantissima sulla divinità di Gesù, ma ora andrei fuori tema. Comunque, ci siamo capiti: io posso deletteralizzare la tua tradizione, tu non puoi farlo con la mia. O meglio: esiste un nucleo che non è ulteriormente interpretabile, e quel nucleo c’è anche nella tua tradizione, ma io posso vederlo in trasparenza, tu no, perché la mia tradizione è più vicina all’arché, o all’eschaton, della tua. Insomma, tutto dipende da dove finisce il liquido dell’interpretazione e dove inizia il solido, il ‘limite’, il non-plus-ultra della fede centrale, indiscutibile. Personalmente credo che questo teatro dell’assurdo delle controversie tra le religioni abramiche sia nato dal gesto fondatore dell’ebraismo stesso, la sua ‘uscita’ dalla tradizione mesopotamica e poi egizia, sentite come idolatriche: ma il vero arciproblema è che l’ebraismo non è morto, a differenza di Babilonia e di Tebe, e nonostante la sua infinita complessità non ci si può discutere con la svagata libertà con cui un esoterista del Rinascimento discuteva con i geroglifici. La lettura allegorica segnala sempre una morte: Paolo uccide in sé l’appartenenza ebraica, l’Israele spirituale che la Chiesa dice di essere è un Israele ucciso. Ma Israele non può morire, è questo il mistero del suo destino così ambiguo.
Quindi, è tutto vero quello che dici su Benamozegh, ma ho qualche osservazione da farti. Prima: il nostro rabbino non identifica ortodossia cristiana e gruppi gnostici, anzi dice che l’ortodossia cristiana si è definita separandosi dagli gnosticismi, che erano forme di qabbalah eterodossa (secondo lui, ovviamente). Non dà nemmeno una ‘lettura unica’ dell’ebraismo, anche se effettivamente ha una sua grandiosa e un po’ tranquillizzante idea sull’unità metastorica dell’ebraismo, Torah scritta-Torah orale. Seconda: dice che Gesù striglia i perushim (farisei) proprio perché si sentiva parte di quel mondo religioso, anche se portava un messaggio che quel mondo non poteva accettare totalmente. Non dice mai che Gesù era folle e male informato, dice l’esatto contrario: che tutto il dialogo di cui abbiamo tracce spesso confuse nei Vangeli era un botta-e-risposta a base di koan, provocazioni e colpi bassi (o di fioretto) dialettici su un terreno spirituale comune. Terzo: è vero che sono troppe le semplificazioni sull’anticosmismo cristiano contrapposto all’equilibrio giudaico, ma non si può negare che il cristianesimo (è la sua ricchezza e la sua miseria, come sempre accade alle cose grandi e tragiche) sia culturalmente sradicato, ed abbia cercato un difficile radicamento nel mondo greco-romano, diventandone (parafrasando l’Epistola a Diogneto) l’anima. Ma un’anima orfica, platonica, aristotelica? La cultura dell’ecumene è stata salvata, ma anche svuotata: Diana è stata assimilata a Maria, ma la Diana del popolo ‘pagano’ è rimasta come signora delle streghe. Noi possiamo mangiare di tutto, senza catene di kasherut, ma non abbiamo nulla per pensare il nostro rapporto col cibo in senso spirituale, se non il pragmatismo paolino. Paolo ripete il gesto di Gesù e lo rende ancor più tragico: svela il fondo esoterico (tutto è puro per chi è puro), ma questo fondo, se portato alla superficie, se diventa l’ispirazione di una società, di una cultura, toglie profondità religiosa invece di rendere presente il Regno in cui la Legge è ormai abrogata perché giunta a pienezza. L’‘ambiguità’ di Benamozegh ruota intorno a questi pochi e immensi temi: la polemica sulla ‘morale’ è parte di un disegno che si può intuire pienamente solo leggendo le quasi mille pagine di Israel et l’humanité – impresa da me compiuta circa tredici anni fa, e nonostante le sue diecimila ingenuità credo ne sia valsa la pena.

In effetti il discorso di Paolo sulla legge è un ginepraio di intuizioni mistiche, tensioni apocalittiche e antinomie ermeneutiche. Non voglio ritornare sulla vecchia questione del suo riduzionismo: il nomos delle Epistole non esaurisce certo la totalità della Torah nel senso della tradizione ebraica. Penso che si possa essere d’accordo su una cosa: Paolo porta all’estremo, al limite, una delle idee del messianismo ebraico: "L’annullamento della Torah è la sua conferma (o: la sua resurrezione)". Idea sommamente dialettica ed esposta ad amplificazioni esoteriche (gnostiche) e forzature apocalittiche. Riflettiamo: la fede nell’avvenuto avvento del Messia sostituisce alla Torah del Giudizio (limitante e coattiva) la Torah della Grazia, che è in un rapporto non lineare con la prima. Nel Regno, l’albero della conoscenza si assimila all’albero della vita: ma il Regno portato da Gesù è un Regno incipiente, un’attesa, un tempo intermedio, in cui "tutto è lecito, ma non tutto mi giova", e gli unici precetti che non vengono abrogati sono quelli comuni a tutta l’umanità, i cosiddetti precetti noachidi (quelli comandati a Noè dopo il diluvio). Inoltre al rituale ebraico subentra un rituale di memoria-annuncio fondato sulla vicenda umana del Messia: soprattutto l’Eucarestia, la cui mistica è il centro della vita cristiana. Inoltre, la "legge" ebraica viene dichiarata ormai inefficace, superata dall’Evento messianico, ma il cristiano, nell’attesa del Secondo Avvento, assimila la cultura giuridica dell’ecumene romana – e nonostante la sua vita nel mondo sia un perpetuo esodo, come per l’ebreo, sicché le forme storiche assunte dal Messaggio-Kerygma sono sempre provvisorie e imperfette, non si può negare che il problema esista: allontanandosi dalla tradizione dei Padri, dalle radici ebraiche, l’attesa cristiana ha dovuto trovarsi altre radici, quelle del mondo in cui si è inculturata, l’Impero romano. Certo, per cristianesimo e islam questa dialettica è stata resa inevitabile dal trionfo mondano, mentre paradossalmente l’"identitario" ebraismo, reso marginale dal destino della diaspora, è stato al tempo stesso più legato alle proprie fonti e più aperto alle continue assimilazioni – è stato più esoterico, più ermetico (non per scelta, ripeto, ma per destino). L’ebraismo è diventato l’esoterico del mondo cristiano-islamico, il margine del Testo: e la teologia del deicidio e della sostituzione ha fatto dell’Ebreo il Cristo sempre di nuovo ucciso perché lo Spirito potesse essere effuso sulla cristianità intera.