Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 27 febbraio 2010

Intrecci del Logos: due passi nel labirinto



Note sui paradossi e sul rapporto limite-illimitato

I.
Paradosso del Sorite: quanti chicchi ci vogliono per fare un mucchio? Esiste un numero al di sotto del quale la forma ‘mucchio’ non appare? Se sì, la differenza tra mucchio e non-mucchio è di un’unità? Oppure di quante?
Il continuo scontro/armonia di intuizione e astrazione costituisce la totalità della nostra vita percettiva ordinaria. La forma-mucchio è intuitivamente indistinta, un apeiron, ma un concreto mucchio è comunque numerabile, è un insieme casuale, una totalità confusa, un uno-molti sui generis. Siamo soliti contare gli elementi che compongono piccoli insiemi, ma oltre una soglia difficilmente determinabile solo certi pazienti neurologici – del tipo di quelli studiati da O. Sacks – riuscirebbero a “vedere” il numero di un soros di oggetti senza contarli in successione. Il paradosso stoico si avvale evidentemente della nozione confusa, in un certo senso apeiron, di “mucchio”: si potrebbe anzi dire che chiamiamo “mucchio” un insieme intuitivamente grande e che non dobbiamo o vogliamo sottomettere all’arithmos; eppure l’osservazione non suona risolutiva. In fondo è quasi come chiedersi: qual è la statura minima di un uomo normale, quella sotto la quale si dev’essere considerati nani? Qui però, oltre alle limitate-limitanti condizioni e consuetudini di una data collettività, la forma-nano e la forma-uomo normale trovano un discrimine nelle implicazioni morfologiche generali (il nano non è solo un uomo in miniatura, è caratterizzato da acondroplasia o dal sottosviluppo del nanismo ipofisario etc.). La forma-mucchio è ben scelta proprio per la sua refrattarietà alla forma in senso forte: mucchio è un insieme indistintamente grande che percepiamo come informe; non c’è una ‘mucchità’ suggerita dalla natura, come invece in tutti i casi in cui la materia si accompagna ad una forma che le imprime un’organizzazione, una vita unitaria.

Qualche nota per dare uno sfondo meno logico e più ‘orientale’ al paradosso di Epimenide.
Epimenide di Cnosso era uno sciamano: la sua impresa più celebrata fu un lunghissimo sonno catalettico in una caverna, come quello dei sette dormienti di Efeso. A proposito di Efeso, escludo anzitutto che l’effato “Tutti i cretesi sono menzogneri” sia un’uscita eraclitea, da profeta sdegnato. ‘Mentire’ in greco è pseudesthai: ma al di là dell’accezione morale e logica, pseudos indica anche (nei Pitagorici e in Platone, ad esempio) la “finzione” quasi in senso borgesiano, qualcosa che non è né vero né non-vero ed è al contempo sia l’uno che l’altro, e può avere, se ‘abilmente’ orientata, una decisiva funzione psicagogica[1] (condurre l’anima, attraverso il pathos delle emozioni, ad un primo gusto della Verità). Insomma, un po’ come la ‘verità convenzionale’ nella Madhyamika: si ‘salvano le apparenze’, si dà per buono che lì esista un cane, qui un albero etc., per la loro ‘efficacia’, come quando si dice ad un bambino privo di madre la parola ‘madre’ (così in un testo della scuola). Ora, se le cose stanno così, che Epimenide abbia detto “Tutti i cretesi mentono” o “Io mento”, si tratta di due versioni dello stesso “paradosso”: io mento, ma nella misura in cui mento (nel senso pitagorico-platonico-madhyamika) dico anche la verità, eppure non la dico. Ricorda vagamente il paradosso stoico del Velato, che o è un sofisma piccolo piccolo, o un’allusione a questa più sottile nozione di verità: ‘Conosci questa persona velata?’ ‘No’ ‘Le ho tolto il velo: la conosci?’ ‘Sì’ ‘Dunque conosci e non conosci la stessa persona’. In fondo, tutto è già contenuto nella parola rivelare: tolgo il velo – velo di nuovo.
Ma torniamo all’Epimenide come paradosso logico, come paradosso della verità logica.[2] Merita di essere esaminato insieme all’altro capolavoro della Stoa, quello del Coccodrillo. Ovviamente un paradosso logico non è soltanto un paradosso logico, ma anche una kafkiana porta della Legge, un accesso negato e offerto ad un livello superiore di esistenza e conoscenza.
Epimenide è stato uno degli eroi della sophia arcaica in Grecia: in un certo senso, il paradosso a lui attribuito ci ri-vela il grado zero del logos, il suo stadio germinale, da cui si ramificano tutti i labirinti possibili-necessari. ‘Io dico di non dire il vero’ – ‘la proposizione A afferma che la proposizione A è non-vera’ – A=non-A. La verità, una volta detta, non c’è più, secondo la saggezza popolare: cioè si dice (!) che ogni dire la verità (ogni suo logos) è anche non-verità nella misura in cui pretende di porsi come verità – ed è verità nella misura in cui non si pone come tale, in cui si pone come non-verità. Non solo, come sostiene delicatamente-vertiginosamente Borges, l’infinito è un concetto che corrompe tutti gli altri, ma il concetto di Assoluto fa esplodere ogni discorso, perché già un ‘concetto di Assoluto’ è in sé aporetico. Si può dire (Florenskij suggerisce qualcosa di simile) che A è A solo in quanto è – consapevolmente – non-A, e cioè che Epimenide dice il vero solo nella misura in cui mente sapendo di mentire: un po’ come nel koan in cui A chiede a B: “Come ti chiami?” e B “Mi chiamo A”; A “Ma A sono io!”; B “Il mio nome è B” ed A scoppia in una risata/satori.
Nel caso del Coccodrillo, la bestiaccia, dopo aver rapito un bimbo, se lo porta nella tana, un canneto su un isolotto al centro di un lago. La madre l’ha inseguito trafelata, è sulla sponda, vicina al suo piccolo e insieme lontanissima. Il mostro è un impensato avatar di Apollo, a quanto pare, perché invece di sbranare la tenera preda in animalesca indifferenza per le grida della donna, le propone un enigma, con quel suo sorriso preistorico e raggelante: “Se indovinerai che cosa farò, ti restituirò il bimbo, altrimenti me lo mangerò qui davanti a te”. La donna, nonostante l’orrore, attinge dentro di sé ad un archetipo che non è nemmeno apollineo, l’archetipo di una dea maga che pietrifica il cosmo intero: “Tu non mi restituirai il bimbo!”. A questo punto, il rettile è en aporia: in una strada senza uscita; ma anche la madre lo è, perché ha come congelato la scena in un perpetuo anello insolubile. Se il coccodrillo non restuisce il bimbo, la madre ha detto il vero, quindi deve restituirglielo; ma se glielo restituisce, la madre ha detto il falso, quindi non deve restituirglielo.
Molto graziosa la versione da turista americano, escogitata dal matematico Rudy Rucker: in visita alla Bocca della Verità di S. Maria in Cosmedin, ha infilato la mano nella famigerata fessura e ha detto: “Io non ritirerò la mano”.
Un dio, o un mostruoso semidio, o una macchina che pretenda di verificare la verità di quanto dico – la mia veridicità – viene messo in scacco insieme a me (siamo messi in scacco in modo interdipendente, perché la vittima dell’aporia è, impersonalmente, la verità stessa di quello che stiamo facendo qui ed ora) se io arrischio me stesso, in una specie di aikido logico molto apollineo, enunciando ciò che mi nega, il contrario di ciò che ci si aspetta dovrebbe salvarmi. In realtà, così facendo, io (madre o turista) vinco sottilmente la sfida, perché mostro al guardiano della verità che non sa sciogliere questa crisi della verità: l’unica soluzione narrativa sarebbe o un’autodistruzione per collasso del coccodrillo, della Bocca e della macchina della verità, oppure, come in un ideale racconto zen su un dialogo tra un saggio e un demone, ricevuta la stoccata l’altro potrebbe salire ad un livello superiore di comprensione insieme a me, suo nemico.

[1] Un esempio tipico sono i cosiddetti “miti” nei dialoghi platonici.
[2] La Verità spirituale accetta ed anzi benedice gli Epimenidi. Una storia chassidica parla di un uomo che va dal Rebbe e gli confessa piangendo: “Io mento, mento in continuazione”; poi si copre il volto e dice: “Ah, neanche questa è la verità!”, e cade a terra. Il Rebbe esclama: “Come cerca la verità quest’uomo!”. Lo fa rialzare con dolcezza, e gli cita un versetto biblico, dai Salmi: “La Verità sorgerà dalla terra” (terra, humus, humilitas).


II.
Casi di illimitato: l’utile in economia e il gusto nell’estetica (J. Ruskin). L’utile è in se stesso incircoscrivibile, inconoscibile, implica la propria autoconfutazione: più si cerca l’utile in quanto tale, meno lo si trova (Leopardi: questa età è stolta, folle, perché chiedendo l’utile non vede diventare la vita sempre più inutile). Il peras che dà ordine e misura a questo apeiron è la giustizia, come nel saggio antiutilitarista del Manzoni. Non dissimile l’idea socialista di Polanyi: l’economia reale è sempre embedded (inserita, incorporata, radicata) in una data società. L’idea di ‘libero mercato’ è apeiron, e conduce a paradossi come: cresce la ricchezza del Paese, nonostante i lavoratori vivano sempre peggio. Ma poiché l’illimitato senza limite è naturalmente impossibile, il peras che informa un’economia utilitarista è o lo specifico interesse di una classe (diagnosi binaria, ‘marxiana’), ma ciò si autoconfuta a sua volta, perché il vero utile separato è una chimera, come si è visto; oppure, più profeticamente, è quello Streben distruttivo-autodistruttivo che regge in assurda esistenza l’apeiron eletto a legge universale (Kafka: De Sade è il patrono della nostra epoca). I paradossi del gusto rimandano a quelli pitagorici-platonici del piacere (Filebo, come il paradosso della potenza viene enunciato nel Gorgia), inseparabile dal bene ma ad esso ordinato. Chi può fare un calcolo del piacere, se non in ordine ad un’idea di bene a cui il piacere stesso può quindi essere sacrificato? Al tempo stesso, però, un bene privo di piacere è una sorta di dimostrazione per assurdo, una crux, che rimanda comunque alla piena attualità di un bene gustato con sensi perfetti (come la ‘volontà di Dio’ è in rapporto dialettico con la ‘volontà propria’: un uomo avvinto ai pathe non ‘sente’ la volontà divina se non nel cozzo con la propria o nel rapporto accettato – obbedienza – con un’altra persona che gliela media; ma man mano che si accosta all’apatheia, la visione interiore gli porge la volontà divina nella semplicità del suo stesso cuore – quindi, di chi è questa volontà liberata?). Filolao dice che l’armonia è dicha phronunton symphronesis, “il pensiero-percezione comune di enti che pensano-percepiscono separatamente”: piacere e bene, utile e giustizia si armonizzano (si realizzano, perché tutto è armonia) quando il limite, imponendosi all’illimitato, prende in questa congiunzione la vita e il ritmo del logos, che è duttile e ordinato come il numero. In fondo, ricorda Agostino, è sempre questione di ‘piacere’: “Gode il beone all’osteria, gode il martire fra le catene”; ma il piacere del martire, per non essere sterile voluttà di autoaffermazione, dev’essere sentito da sensi rinnovati, da un’interiorità che il limite ha purificato.
L’armonia, però, è anche – almeno per noi moderni – un problema: l’aggiogamento della polarità originaria genera l’equilibrio, ma anche la mixis, la mescolanza che angosciava i manichei. Stupendo aforisma di La Rochefoucauld: se l’uomo fosse del tutto cattivo, sarebbe meno pericoloso. Ancora più bella l’intuizione di Proust: i sadici veri, quelli che godono della sofferenza altrui in quanto tale, sono rarissimi; nella stragrande maggioranza degli uomini, il gusto di infliggere dolore deriva dall’idea di far soffrire un malvagio (da un’idea di giustizia, di bene!). Così il piacere puro, come insegna benissimo Epicuro, è indissociabile dalla quiete interiore di chi ha ridotto i desideri e le avversioni e gusta il momento presente in anima e corpo: dunque da un’ascesi che, in quanto tale, è orientata ad un limite, o meglio a un’armonia di limite e illimitato, un bene piacevole, un piacere buono, una symphronesis in cui la separazione tende allo zero. (Interessante: Epicuro parla di loghismos, “calcolo” dei piaceri, non certo nel senso settecentesco, ma forse con un consapevole riferimento alla logistica o arte del calcolo pitagorica, in cui le grandezze incommensurabili, e quindi i numeri irrazionali, vengono calcolate per approssimazione crescente).

giovedì 25 febbraio 2010

Foglietti di Quaresima


In molti occhi
sfavilla il mio digiuno
cantano le sere degli uomini
in poche strette di mano
solo sognate solo intraviste
nelle penombre sfinite
sorrisi appena umidi di messia

* * *

Concepisci il termine
e poi generalo
nessuno fende la folla
qualche passo accenna alle vite
che usciranno da noi


* * *


la canora invenzione della luce
è stata solo un intermezzo
tu attendi ancora con me
l’ingresso su un asino e una mensa

* * *

sono troppo niente
per esserti giusto nulla
ho ancora forza per moltiplicare
le note al margine
della ghianda di scrittura

ho ancora

Proverbi del Purgatorio



- Il senso di colpa, spartito, è la beatitudine.
- La solitudine, mangiata insieme o gettata sulle acque, è giustizia.
- La perversione, benedetta e confutata, diventa la pietra angolare della tua casa.
- Chi striscia sulla terra, si confonde con la polvere; chi guarda verso il cielo, s’incenerisce: e chi è polvere e cenere, cade nel grembo del Padre come un bambino che gioca.
- Chi va con lo zoppo, disimpara a credere di poter camminare.
- La speranza è la prima a morire, e quindi la prima a risorgere.
- Pentola intronata dura cent’anni; anima intronata dura in eterno.
- Meglio un giorno, che cento.
- Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli dell’educazione; ma le une e gli altri dovranno saltare nel fuoco con tutta la loro grazia.
- Meglio un peccato oggi, che una virtù domani.
- La spina nella carne resterà nella Rosa.

Ultrascandalo



Dopo aver letto La ginestra, ogni volta, sprofondo nel mistero come una pietra. Ci difendiamo dalla natura: ci difendiamo dall’angelo. Ci difendiamo da Dio, giacobbi senza fardello di storia profetica, ai tanti guadi di Yabboq che quasi ogni ora della vita ci fa trovare sui nostri passi. Sì, la natura è malata come l’uomo, e la presenza di Dio non vi è mai immediata. Nel midollo sofferente e tarato della natura, Dio è presente come la alef nella parola het, peccato: fra la prima e la terza, e ultima, lettera, mediano, quiescente, cioè muto. E, muto, sostiene, rende dicibile il verbo ambiguo, pagano della natura. Pagano, sì: la natura è sorella, ma la sua sororalità ci gioca, ci sfugge, ci delude, sempre demonica, sempre più leggera di noi – ogni suo enigma è l’impronta mitica, fantastica, di un mistero divino. Accettiamo le malattie e le curiamo, amiamo e uccidiamo l’uomo che ci viene incontro per ucciderci, pariamo il braccio al colpo del fratello, ci teniamo lontani dalle zanne di frate leone. Questo non mi scandalizza: Dio è fra me e il fratello, in me e nel fratello, piange forte nel torturato e piano nel torturatore; ride anche, nel torturatore – ma non del riso che crede di ridere lui. Non è indifferente alla qualità di quel riso, visto che ha deciso ab aeterno di patire nelle carni della sua vittima: ma è questo, questa misteriosa misericordia, che per così dire mi ultrascandalizza, mi lascia senza fiato, senza nemmeno il fiato per scandalizzarmi. E dove fiuto più intenso, più concentrato il mistero, è in quel corollario della Rottura originale, nel difenderci da ciò che è più noi di noi stessi, dallo straniero che viene ad insegnarci, a consegnarci il nostro vero nome.

mercoledì 24 febbraio 2010

Zenone e lo stupore radicale



Che vuol dire che i paradossi esprimono il buon senso, quel fondo comune della conoscenza-esperienza umana? Eppure tutti sappiamo che Achille piè veloce raggiunge la tartaruga in mezzo balzo: solvitur ambulando, l’enigma si risolve semplicemende camminando, agendo, come nelle barzellette antiche sul fisico che si mette a passeggiare davanti a Zenone finché questi non sbotta: “Ma sta’ un po’ fermo”, e l’altro, mitemente trionfante: “Dunque ammetti che mi muovo!”. Ma le cose stanno proprio così? Intanto, diciamo subito che chiunque comprende aporie come quelle zenoniane e al contempo ne sente il fascino arcano. Inoltre, se davanti ai movimenti particolari la maggioranza propende per la soluzione ad evidentiam (“Guarda un po’ se non l’ha raggiunta!”), di fronte ai movimenti generali e soprattutto più interessanti per l’ego la perplessità affiora: la vita è iniziata in un momento preciso e finirà nell’ora omega? Che vuol dire: sto per morire, o: quell’uomo è morto? Sono davvero passati degli anni da quando ci siamo lasciati? Si dice che una donna non possa essere ‘quasi incinta’; ma com’è possibile che nell’istante x la signora A non sia gravida (=la vita B non esiste ancora) e nell’istante y lo sia (=la vita B ‘è iniziata’)? Eppure, quando la mente si stacca, per lucidità e sofferenza, dalla passività in cui il più delle volte si avvolge, il ragionamento si fa stringente. Ai bambini diciamo “Il papà è partito per un viaggio”, invece che “È morto”, e sembra una misericordiosa bugia: ma cosa sappiamo della morte se non che, avendo visto e sentito Tizio per diverso tempo, ora dobbiamo probabilmente aspettarci di non vederlo e sentirlo come lo vedevamo e sentivamo prima? E cosa sappiamo della nascita, se non che la cicogna ha lasciato tra di noi un essere bello e pronto? Noi diciamo che Tizio è “arrivato al capolinea”, ma anche che “la morte l’ha raggiunto”: chi si è mosso verso cosa?

Qohelet


Disse il Raccoglitore
figlio di Davide –
Alito di aliti,
caligine di caligini,
fumo di fumi – tutto è fumo,
– ogni cosa
si riaccosta alla sua infondatezza,
al suo nudo additare,
al suo bene e al suo male,
che per noi carne d’uomo
è tormento e violenza.
Sorgono i soli e gli imperi
si lasciano bere
fiumi ed eroi
il saggio con gli occhi in testa
e la bestia con gli occhi
nelle zampe hanno un unico peso
un’unica levità.
Accumuli argento e pensieri
lotti con Dio e con la donna
la tara congenita del tribunale
complica il riflesso delle tempeste.
Se smetti di guardare
e mangi il tuo pane
e lo getti sulla faccia
delle acque obbedienti
se spartisci il tuo piatto di tenebra
col gatto e il topo
e persino col re
il fumo di fumi che sei
la cerca di vento che ti punge
tutto si riaccosta
tutto ritorna
ad additare
appeso al nulla – no, ma penetrato
dal suo mistero di debolezza
dalla sua inafferrabile
iniziazione al vento
dal suo inesorabile
apprendistato
alla fragilità. Soffio
di soffi, disse
il Raccoglitore,
tutto è soffio, disse
il Disseminatore,
figlio di Davide.

martedì 23 febbraio 2010

Fiabe per l'occhio strabico dell'anima



I racconti dei casi curati dal grande neurologo Oliver Sacks sono, grazie alla sua visione compassionevole, meticolosa e accogliente, delle fiabe in cui al posto dell’incantesimo, dell’orco, del castello e della zucca fatata incontro l’encefalite letargica, la sindrome di Tourette, l’autismo, l’acromatopsia e la perdita della propriocezione. Penso, tra le altre, alla legatura arcana, finissima, delicata e terribile che irretisce l’autistico: come Temple Grandin, la brusca e devota zootecnica la cui missione sin dall’infanzia è lenire le sofferenze degli animali nei mattatoi con macchinari ingegnosi. Temple sostiene l’intima parentela della mente autistica con quella animale: incapace di generalizzare, puntuale, humeana, ma anche nudamente poetica, tutta volta all’ostensione, all’obbediente misura. Perfetta la sua immagine di spaesamento radicale: “Molto spesso mi sento come un antropologo su Marte”. In altri tempi si sarebbe detto: è un’idiota, e sarebbe stato un riconoscimento spiritualmente decisivo; perché l’idiota è Cristo, e Cristo è l’icona del Padre. Ma per l’anima è forse più importante lo sguardo fenomenologico, limpidamente fantastico, che vede e nomina (superando con l’attenzione soccorrevole e la scepsi cordiale le disumane classificazioni cliniche) le sfumature, i rilievi, i cedimenti, la sensuosa e tenera e sacra molteplicità del paesaggio della malattia; o per meglio dire, questa è una preziosa opportunità, una vocazione altissima del nostro tempo di miseria ed evacuazione: congiungere spirito ed anima, l’occhio semplice del medievale che scorgeva infallibilmente il Messia nell’emarginato e l’occhio strabico di un neurologo che conserva l’antica sapienza umana, l’antica sapidità creaturale negli abissi del cuore.

Dall'archivio segreto della dinastia abbaside



Il funzionario Husayn ibn Shamsi ’l-dīn al-Isbahānī al Principe dei Credenti al-Ma’mūn.

Il tuo servo ha il dovere di informarti che tutto è pronto per l’esecuzione del piano. L’esecrabile setta dei Dualisti ha le ore contate. Quando si riuniranno nella casa di ***, alla periferia di Samarra, e il loro capo starà per prendere la parola, il nostro infiltrato, lo shaykh ***, che ha conquistato un credito notevole presso quegli scriteriati, chiederà il permesso di fare una rivelazione di gravità inaudita. Quindi accuserà davanti a tutti il luogotenente ***, contro il quale abbiamo costruito per mesi dei falsi documenti, visto che non siamo riusciti a trovare nessuna crepa nell’indegna lealtà di quel fanatico; in realtà il materiale raccolto fa riferimento alle azioni del giovane ***, il figlio primogenito del loro capo. Questi infatti, da almeno un anno, sta avendo abboccamenti segreti con quell’ufficiale della tua guardia che ben conosci, quel maledetto circasso che assaporerà insieme, molto presto, la tua giustizia e il proprio sangue velenoso. Quando l’assemblea udrà una simile denuncia, formulata da una persona tanto autorevole e solitamente così umile e taciturna, non tarderà a scagliarsi contro l’uomo che poco prima considerava padre e maestro; nel frattempo il giovane ***, ascoltato il resconto esatto e puntuale del proprio tradimento, cercherà una scusa per assentarsi e manderà in tutta fretta un messaggio al suo compagno di nequizie. Io stesso ho predisposto le cose in modo che possano finalmente incontrarsi sotto l’occhio sgomento del padre, il capo della loro setta, il cane immondo il cui nome fa fremere ogni buon musulmano. Il seguito del piano lo conosci già: mi limito ad aggiungere che, domani sera, i pochi eretici che saranno sfuggiti ai ferri del carnefice vagheranno nel deserto come sciacalli, ma affamati della propria morte e non dell’altrui.
Detto questo, poiché nel nostro ultimo incontro hai chiesto la mia umile opinione sullo stato generale delle cose, io credo che l’islam stia per tornare, secondo il detto del Profeta, com’era ai suoi inizi: esule. Non fraintendermi: i tuoi trionfi contro la miscredenza e lo scisma rafforzano l’unità, la spada nella tua sinistra pota l’albero e l’acqua della grazia nella tua destra lo nutre. Il mondo non è mai stato retto e felice come sotto il regno del califfo al-Ma’mūn. Pure, io devo dirti ciò che vedo, come faccio sempre: e ciò che vedo è appunto questo. Il destino di Ismaele ci chiama, con le sue seduzioni e le sue miserie. Non voglio dire che la comunità sarà di nuovo piccola e perseguitata, o che ridiverremo dei nomadi del deserto, in cerca di oasi e di giustizia. Le cose ultime sono come le prime, ma non gli assomigliano mai. La religione prenderà rifugio nel segreto, anche se la sua professione non lesinerà grandezze e splendori; l’obbedienza aggirerà la legge abbracciandola, perché la vedrà sempre più impaurita e gelosa: lo spirito si raffinerà nelle tombe degli umili, e l’arcangelo Gabriele metterà alla prova molte solitudini. L’unità si schianterà senza rumore, proprio perché è stata così ardentemente, così generosamente conservata e difesa. Di nuovo la fede frequenterà le stanze degli inquieti, le grotte degli sradicati, i polverosi sentieri dei viandanti angosciati. Il mio Signore voglia perdonarmi se ho osato parlare con troppa libertà. La mia tristezza non dev’essere una nota stonata nell’inno della tua vittoria, né lo potrebbe, del resto. Considerami sempre il tuo servo devoto, Husayn, il figlio del tuo servo devoto, Shamsu ’l-dīn, il convertito, l’ombroso purosangue di Isfahan.

Dialogo in un vicolo di periferia



- Amore mio, insegnami: di cosa parlano quegli uomini? Della vittoria della Lazio, del festival di Sanremo?
- Se quegli uomini sono, come per te è giusto credere, dei messia in incognito, stanno parlando della vita e della morte, del nostro Regno comune.
- Perdonami! Dunque non parlano della Lazio, non parlano del festival?
- Non fraintendermi! Parlano di quelle cose, e parlano della vita e della morte.
- Ma non sanno di farlo.
- Lo sanno e non lo sanno. Vedi, tutte queste dilazioni, tutto questo prendere tempo, non è altro che una rapida angoscia, una polvere impalpabile che ogni tramonto e ogni aurora portano via, che ogni piccola Armageddon dei giorni porta lontano.

lunedì 22 febbraio 2010

Scambio di impressioni tra burattinai sottili



Quando si sposarono, i loro rispettivi demoni congiunsero le destre con fare eccezionalmente cerimonioso. Ad un tratto il più vecchio e aggraziato dei due ruppe il silenzio: “Ma quanti umani sapranno la differenza tra lo scagliare una promessa al cielo in una squarciata eternità mattinale – e l’abbatterla sulla terra ad ogni grigio e solenne sorgere d’aurora?”. Alla fine anche il più giovane, sul cui volto gridava opaca una smorfia, si sciolse in un sorriso pungente: “Se non sbaglio, lui disse qualcosa di simile, su quel cocuzzolo palestinese”.

Da un quotidiano uscito alla vigilia del Giudizio Universale



All’assemblea internazionale per la restituzione delle opere d’arte rubate o razziate o trafugate, promossa dal Consiglio Mondiale per la Cortesia e la Correttezza, il delegato turco prese la parola per osservare umilmente che i famosi cavalli di S. Marco, universalmente noti come uno dei simboli di Venezia, erano parte del bottino della crociata “latina” del 1204 contro Costantinopoli, e come tali sarebbero dovuti tornare, con rispetto parlando, ad Istanbul, nella Turchia europea, donde erano stati ingiustamente prelevati. Il delegato greco, reprimendo con eleganza un moto di stizza, fece presente all’illustre consesso che nel 1204, come ognun sa, Costantinopoli era appunto Costantinopoli, capitale dell’impero bizantino, di lingua e cultura greca, e che quindi la destinazione riparatrice dei cavalli di S. Marco era semmai la Grecia, prima patria emancipatasi eroicamente dal giogo ottomano dopo secoli di dominio... e qui si rimangiò l’aggettivo, degno di una ballata epirota. Tossendo gentilmente, il delegato del Liechtenstein dichiarò di avere in mente una soluzione onorevole ed economica: si sarebbe potuta creare, con uno sforzo burocratico a dir poco contenuto, una enclave neutrale all’interno dell’area urbana stambuliota dove collocare il celeberrimo manufatto, la cui gestione sarebbe stata affidata, per esempio, ad una commissione internazionale, magari con una quota privilegiata per i turchi e i greci; ma i borborigmi provenienti dal seggio turco indussero la maggioranza a lasciar cadere rapidamente la proposta. Il delegato italiano, con un ampio sorriso, introdusse nel dibattito una breve e modesta chiosa che non mirava affatto, come tenne a dire più volte, a confondere le acque, ma al contrario a portare chiarezza nella difficile questione: come indica il nome islamico dell’impero bizantino, Rum, Costantinopoli era da sempre considerata la Seconda Roma, parte dell’Impero Romano ed anzi sua seconda capitale, in un certo senso, dopo esserne stata, per volere del primo Cesare cristiano o filocristiano, la prima. Non aggiunse la conclusione del ragionamento, ma ci arrivarono quasi tutti. A questo punto, prossima alla disperazione, l’assemblea optò per il ricorso ad uno sciamano buriate, quindi estraneo alla querelle, che avrebbe dovuto indurre i cavalli ad alzarsi in volo: sospesi tra il cielo e la terra, sarebbero stati finalmente di tutti e di nessuno, placando le angosce inesauste delle nazioni coinvolte nella loro storia complicata. Ma lo sciamano non riuscì nell’intento: pare che i cavalli si siano limitati a spiccicare medianicamente qualche parola, forse nel linguaggio spregiato degli Houyhnhnm, che il vecchio smilzo e ridente si rifiutò di tradurre in una delle molte lingue dell’illustre consesso.

Magnum miraculum est homo



L’antropocentrismo delle religioni abramiche è un crinale esaltante e difficile, sempre esposto a realissimi tralignamenti: noi occidentali, e con noi il mondo intero, psicologicamente-culturalmente colonizzato, stiamo trasferendo la schiavitù e la barbarie – sempre più – ai fondamenti dell’esistere e del manifestare; s’ispessiscono l’inconsapevolezza e l’insensibilità verso la creaturalità in quanto si estende la libertas romana, l’imperialismo dello jus, mentre gli schiavi sono res letterali, cartesiane, non borderline giuridici. È il culmine dell’illusione e del male oggettivo, che rende quasi superfluo il peccato. Per questo discettare su embrione, persona e inizio della vita, partendo da versetti sacri, da universali etici o da esecrande superstizioni scientistiche, non è liberatorio, non spezza il cerchio, semmai è un (altro) tentativo di ridisegnare il limes piuttosto che di proteggere il temenos, gesto che implica un senso della santità meno disumanamente umanistico. L’uomo è chiamato, non eletto: non c’è ‘l’uomo’, l’adamo è un mercurio, una terra-pianta-animale sradicata, la sua forza è sacrificale-sacerdotale, messianica; non deve affrettarsi a fare della sua debolezza suprema la suprema gloria, o l’ipocrisia religiosa “antica”, la confusione di sempre tra il già e il non ancora, tra milizia e trionfo, si moltiplica e “la nuova condizione è peggiore della prima”.
Il Cristo può esserci re, può esserci Cesare, imperatore.
L’embrione, il golem che solo gli occhi di Dio vedono nella tenda dell’utero, va apprezzato proprio in quanto mercuriale grumo: proprio perché è, per la nostra sensibilità e il nostro pensiero, possibilità di apertura all’animalità (sacrificio dei molti embrioni), al vegetale (radicamento nella madre, dipendenza, nondualità), al minerale (terra adamica in stato di caos). La sua non-dualità-eppure-dualità rispetto al ventre che lo porta (individuazione nascente, aurorale) è la delicatezza stessa del pensiero nascente, aurorale, poetico, che i codici e la logica non possono definire-concludere e la sensibilità religiosa accoglie con dolcezza, con la karuna, la misericordia che fa delle leggi ‘abili mezzi’ (upaya). Così, anche e soprattutto per gli abramici, per le ‘genti del Libro’, il cosmo torna ad essere libro sacro, frontiera tra il qui e l’oltre, presenza.

Nota sul tragico



Dove sento il tragico, to traghikòn, l’oscuro duende mediterraneo lucidato dall’angosciata misura attica, fatto poroso alle perplessità più-che-sacre del logos? Apro a caso l’Agamennone: “[Clitennestra:] Io non sono la sposa di Agamennone./ Sotto le sembianze della donna di questo/ morto, io sono l’antico atroce alastor (demone della vendetta)...”. Ecco: io non sono più io, sono svuotata, posseduta, non può dirlo davvero chi lo è; eppure proprio questo ripetono da sempre i vindici, gli afferrati negli ingranaggi più stringenti e laceranti della pesanteur. La bocca umana si fa corpo, profetizza oscuramente, dice il vero negandoselo: la cecità divina rende il patiens segno per la comunità che guarda – sgomenta e pietosa – ma lo configge, gelosa, in una passio che lo perde in quanto uomo.

sabato 20 febbraio 2010

Anima e corpo



Ciò che forse più mi scandalizzava da ragazzo era il nesso indiscernibile di anima e corpo: un polo senza l’altro sarebbe stato solo fantastico o bizzarro, non crocifisso. Tremavo fin nel midollo al pensiero che bastasse un cromosoma in più o in meno per dare un segno qualitativamente, radicalmente, inconfondibilmente diverso a un destino; che il transito della morte fosse rilevabile in fondo in modo soltanto convenzionale: che la forma splendente nella sua quieta bellezza fosse esposta, attraverso minime modificazioni della materia che la sosteneva, a sfigurarsi indefinitamente o a cancellarsi brutalmente, assorbita nell’invisibile; vedevo, per riecheggiare imperfettamente lo gnostico Valentino, il corpo appeso/crocifisso all’anima e l’anima appesa/crocifissa al corpo. Stupivo che il volto della carne umana, sollevata la pelle, si facesse ai nostri occhi un caos di smorfie, di contaminazione e bruttezza.
Lessi, a poca distanza l’una dall’altro, la grande intuizione di Simone Weil – la sventura della vita umana è che guardare e mangiare non possono mai essere la stessa cosa – e l’esoterico detto di Lao-tzu – il sapiente si prende cura del ventre e trascura l’occhio –. Fui colpito dal contrasto e dall’accordo tra le due prospettive: l’ebrea-cristiana voleva contemplare senza toccare e mangiare, il cinese lodava la fornace alchemica del ventre e svalutava il faro perennemente inquieto, l’occhio. Il mio scandalo adolescenziale sprofondò nella meditazione della dialettica occhio-ventre. L’occhio può vedere, contemplare le cose, la bellezza, solo se il ventre digiuna, si sacrifica; e il ventre mangia il sacrificio dell’occhio, rende invisibile, intima la bellezza. Ma i due movimenti sono, nella lacerazione, uno: come nell’immagine upanishadica da cui era partita Simone, quella dei due uccelli sul ramo, l’uno che mangia il frutto e l’altro che lo guarda mangiare – simbolo dell’anima-fruitrice e dell’anima-testimone, che sono l’unico sé. La concrocifissione di corpo e anima, di visibile e invisibile, quantità e qualità, mi parve allora mostrare velatamente il mistero del mondo, nulla e manifestazione, limitata pienezza di fragile verità in cui non è possibile, se non mutilandosi-mutilandolo, separare il confine delicato della pelle dalla numinosa e povera molteplicità del corpo profondo e spellato.

Davanti alla tomba di F. M. Santinelli (1627-1697), alchimista, in Trinità de' Monti



a Paolo Lucarelli, alchimista


La vittoriosa tenerezza
del succo luminoso, terrestre,
della luce che fa trasparente
alla gloria il suo corpo:
il cuore della cosa, questa qui,
amata con fedeltà mortale
di colomba, con serpentino incedere
temuta, sospettata, rispettata;
l’ebbra dolcezza di tutti, così bene,
così verginalmente in tutto riposta,
il sapore lento e trafiggente, lo spesso
pregnante colore, carnale veste
del monarca mitissimo: se solo
per un istante hai veduto e toccato,
se in una sera d’autunno le narici
allenate e la lingua onesta
di animale tremante hanno lambito
il frammento e la soglia, il lieve cardine
del corpo che saremo, che già ferve
in fuochi impazienti e terra avara,
allora la tua lapide romana,
come la varia e mutila esistenza
– secentesca piombaggine, decenza
di similoro, studi pazzi e ignoti –
è un’ironia tranquilla, che mi porgi
in questo pomeriggio di settembre.
Il corpo è stato, per un giorno, pietra:
ora un marmo qualunque
con la sua vanità vela il segreto,
finale lavoro, che hai intravisto
nello specchio delle mani.
Hai studiato per fare il giusto spazio,
operando e morendo, alla mia Patria,
alla Terra di ognuno. Non ti è lieve,
ma ferita di luce, la terra.
La gioia è peso.


NOTE:


La poesia è una sorta di meditazione sulla pietra filosofale. “Metafisica sperimentale”, l’Alchimia, lungi dall’essere un’utopia faustiana, è la devota ricerca della “corporificazione dello spirito (naturale)”, primizia tangibile e delicata del corpo di resurrezione.
Il marchese Francesco Maria Santinelli, spadaccino celebrato e poeta copioso, instancabile fondatore di accademie, aspirante crociato, entrò molto giovane nella cerchia di ermetisti benedetta da Cristina di Svezia, e con lo pseudonimo di Crassellame Chinese scrisse un’importante opera alchemica: la tripla canzone (in italiano) detta Lux obnubilata suapte natura refulgens, cui segue un commento in prosa latina.
Questi versi sono dedicati con nostalgia a Paolo Lucarelli, studioso di alchimia ed alchimista, morto nel 2005.

venerdì 19 febbraio 2010

Abrahamica



“Sag, daß Jerusalem i s t” (Celan): questo è l’ebraismo. Non: scommetti sull’esistenza di Gerusalemme, ma: dì che Gerusalemme è. Falla essere col tuo dire. “Se voi siete miei testimoni, io sono Dio” (Pesiqta de-Rav Kahana). Questo dire che fa essere ciò che è si carica dell’angoscia della profezia, della specifica angoscia ebraica, librata sul nulla come l’atto creatore di cui diventa specchio efficace.
L’islam non conosce il tragico, la distanza aperta dal logos – forse neanche, in profondo, la lotta con lo Sconosciuto allo Yabboq: ma vive, ad un’intensità di ordine e di follia ignota sia all’ebraismo che al cristianesimo, la dialettica permanente, l’equilibrio proclamato e invisibile, irreperibile, tra il consumante-infamante amore per Lui (Huwa), l’Assente (Ghā’ib), e l’obbedienza nuda al comando rivelato che nega e conferma quell’assenza, quella smisuratezza.

Allah è onnipotente in un senso molto più forte del Dio di Abramo e di Gesù: è il supremo detentore della force, la proiezione illimitata dell’arbitrio – ma è anche il Misericordiosissimo, la Luce, il Bello che ama la bellezza, Colui che ha stabilito la saggia misura, il bilanciamento esatto e oscillante... La sua deinotes, la sua sublimità tenera e sacrificale, assurda e confidente, violentissima anche e soprattutto nella dolcezza, credo si tradisca perfettamente in uno dei versetti coranici più amati: “Noi siamo più vicini a lui – all’uomo – della sua vena giugulare (nahnu aqrabu ilayhi min habli ’l-warīd)”.

Mysterium iniquitatis, mysterium iustitiae



Ogni grande tradizione spirituale deve tenere insieme le povere primizie terrestri e le lingue di fiamma del mistico, deve far inginocchiare il sovrano mentre lo inonda del suo crisma, deve assimilare le piccole e inattese verità degli eretici mentre li confuta come laceratori dell’unità, deve benedire tutto prendendo tutto con un grano di sale, deve avere la leggerezza del saltimbanco, la tristezza dello scriba, l’onesta dissimulazione della spia, deve consegnare la fiaccola dello spirito con lo stoppino sempre più consumato della lettera, consapevole o quasi che i molti scambieranno il fuoco per lo stoppino e lo stoppino per il fuoco, deve guardare e amare l’ultimo, l’invisibile, il tremulo, ma contenerne l’immane potenza nascente, deve truffare il bambino ed essere il bambino, deve sorridere come il forte alle critiche velenose dei deboli che sognano la forza, ma raggiare di collera quando l’avversario ha forza autentica e buona nel fodero o nella faretra, deve trovare i versetti giusti per giustificare il boia e abbracciare il condannato con più dolcezza di sua madre, deve essere nel mondo senza essere del mondo sapendo che è possibile solo a chi esce dalla casa del padre, deve ricordarsi ogni mattina di essere grano e loglio, deve dimenticare ogni sera il bene e il male che ha compiuto durando.

Voce dalla battaglia della Somme



Avvolto in un bozzolo di passato, muoio – ma che vuol dire? – in questa fossa oscura. Scusatemi se ora m’interrompo: devo andare a sdipanare e riannodare il mio e il vostro destino.

Sulla bestemmia



Ogni buona bestemmia è un tentativo di superare la manichea separazione delle archai; ma è anche una testimonianza della loro mescolanza nel tempo intermedio. L’angoscia peculiare della bestemmia è tutta visceralmente dentro l’angoscia dell’Incarnazione.

giovedì 18 febbraio 2010

Midrash al finale del Libro di Giobbe



E Giobbe morì vecchio e sazio d’anni. Ma il Satana della sua vecchiaia rifiorita, risorta, era più sottile dell’accusatore che, loquace, aveva tentato Dio nell’assise celeste. Giaceva, languiva nelle cose restituite, nei figli ultimi che si confondevano coi primi alla memoria sazia d’anni, nei nomi deliziosi delle figlie che compensavano montagne di dolore gridato, nella pace carnale, ferita, domestica del suo sapersi vittorioso e umiliato. Stava lì, riluceva di debolezza, occhieggiava di abitudine, non parlava, o quasi, si limitava a sussurrare, di quando in quando, nell’erba delle oasi che non sapeva di rispondere al vento: nella santa ignoranza delle cose, aveva deposto se stesso come un uovo di distruzione inaudita, una promessa inerme di rinuncia, di saggia rinuncia alla speranza e all’attesa. E la sazietà d’anni del vecchio gentile si salvò, ma come passando attraverso il fuoco. L’angelo della morte gli sorrise, gli tirò le orecchie come ad un bambino, e dopo avergli additato il turbine, di nuovo il turbine, che l’avrebbe portato nella terra del suo amore, gli disse, insinuando col suo tono che il morto aveva ancora molto da imparare: “Ma quando il Giudice ritornerà, troverà ancora dolore sulla terra?”.

Ceci tuera cela



Chi avrebbe mai pensato di scrivere queste cose al computer! Non ho ancora imparato la ritualità del computer, non so quali dei – se di dei si tratta – presiedano a questi luoghi. Conosco un po’ il rito della scrittura con penna e carta: la vecchia angoscia, titanica o creaturale, della pagina bianca in attesa sulla scrivania, la sottilissima comunicazione tra anima e mano nello scaturire e nel dispiegarsi della grafia, il contrappunto tra memoria, visione, pensiero, muscoli e penna nello spazio musicale disegnato dalla scrittura, la stratificazione talmudica delle cancellature, delle varianti o delle annotazioni a margine, gli scarabocchi in cui trovano sfogo le inquietudini di psiche gravida e operosa... e tutta la costellazione immaginale dell’inchiostro, simbolo di densa informità genesiaca, della carta, dono di orienti innamorati della raffinatezza e della fluidità, fragile figlia del legno, esposta al fuoco apocalittico del barbaro illetterato, o del letterato stesso! In Notre-Dame de Paris l’arcidiacono Frollo dice: “Il piccolo uccide il grande. Il libro ucciderà l’edificio”. L’avvento del libro stampato, non il libro-rotolo, non il libro-codice tardoantico e monastico, avrebbe ucciso la cattedrale come libro di pietra, come “canto di pietra”: la lettura ad alta voce del libro-supporto, la ruminatio della Scrittura, la sensuosa e accurata manducazione era parte dell’itinerarium verso la sapienza-assaporamento, e lo spazio leggibile della cattedrale romanica e gotica era il culmine umile e geniale di quel paziente lavoro applicato simultaneamente al libro della rivelazione profetica e al libro della rivelazione naturale, la creatura. Ceronetti aggiunge: anche oggi il piccolo uccide il grande; il microchip ucciderà il libro stampato, ambiguo dominatore della cultura dopo la dissoluzione dell’integrità medievale. Quale Gregorio Magno, Alcuino di York e Ugo da San Vittore mi insegnerà ad accostare i miei sensi alla strana macchina su cui sto scrivendo in questo momento? – Su cui? – Già fraintendo, già mi sbaglio. Se gli strumenti della techne umana sono la proiezione degli organi del corpo umano (Florenskij) – e al tempo stesso tendono ad alienarne a sé la funzione, antico risvolto magico – quale mio ‘organo’ proietta e prolunga questo mostriciattolo che simula intelligenza, se non il nous? E la nootecnica contemporanea, con le sue reti (webs, networks), la sua ermetica e distruttiva fluidità anticarnale, anticorporea, il suo illusionismo ancora quasi del tutto volto all’ipertrofia e al totalitarismo dell’occhio passivo, dell’occhio ricettore puro e quindi nullo – non tenderà per caso a rendere disponibile, e quindi a mortificare, la concretissima noosfera come ambiente vivo e collettivo del pensiero e dell’anima umani? La rete intersoggettiva degli scambi sottili e visibili, fatta idolo in internet, non rischia il puro disumano, cioè il disumano nella sua purezza disincarnata? Il computer, calcolatore promosso a prestigiatore, non renderà l’uomo antiquato, secondo la terribile intuizione di Günther Anders – l’uomo sensuale, l’uomo animale simbolico, l’homo ludens che ancora riusciamo a ricordare? La mia timidezza di fronte a questo specialissimo novum è in buona parte il terrore del custode dei libri di fronte all’avanzare del turco con la torcia: qualche senatore kavafiano dallo sguardo lungo potrebbe dirmi che i barbari sono una risorsa, perché gettano tra le rovine lasciate dal loro passaggio i semi di un futuro per noi incomprensibile. Ma quel poco di profetico che dolora e vede in noi, in me, non dovrebbe salvare i piccoli Penati dall’incendio, anche se i numina magna deum avessero per ipotesi già mostrato il loro volto gravido di promesse ancora indecifrabili?

Corrispondenza sul limitare del tramonto



Io sono Filosseno di Cirene, il più povero dei professori di retorica dell’Impero. Ho sentito parlare per la prima volta di Gesù il Nazareno dal mio diletto maestro, Calonimo il Mite. Il dio venerato da un uomo come questo, mi sono sempre detto, non può che essere un dio vero e degno di onori: mentre tutti i nostri dei, dal primo all’ultimo, sono stanchi e ci mandano pallide visioni, o pensieri intrecciati come tele di ragno. Perché dunque non li abbandono al loro destino e non corro verso la mia vita? Ricordo che una volta Calonimo ad una mia obiezione rispose: “Gesù non hai mai gridato sui tetti di essere Dio, né hai mai presunto di esserlo o di diventarlo: come ha detto un grand’uomo, egli, pur essendo essenzialmente, morfologicamente Dio, non ha ritenuto la sua eguaglianza con Dio una cosa da afferrare, ma se ne è privato”. Un’altra volta gli dissi: “Ho letto in Empedocle che gli dei sono makraiones, ‘dalla lunga vita’, non immortali; ma tu dici che il tuo dio è eterno”. Mi obiettò sorridendo: “Eterno non vuol dire immortale. Eterno è piuttosto uno sguardo che una conquista: piuttosto un paesaggio che un’ascesa”. “Se è uno sguardo e un paesaggio – ribattei – noi due saremo lì comunque; con vesti d’anima diverse, apparterremo l’uno all’altro come, ne sono certo, ci apparteniamo adesso”. Più volte gli scrissi, nelle alte notti in cui si distillava la rugiada dell’amicizia: “Penso di dover tramontare con gli dei dei miei padri e della mia infanzia: non ho un posto nel mondo nuovo, se non come ombra benedicente da lontano”. Io sono qui, ancora, e attendo sulla frontiera senza inquietudine, anche se con timore.

mercoledì 17 febbraio 2010

Doglie



Guardo questo giardino suburbano: è “in istato di souffrance”? Penso di sì: ma non in francese – la souffrance/douleur sensistica – né in tedesco – lo Schmerz schopenhaueriano, che si pretendeva pre-moderno ed era post-illuministico –; forse ogni suo minimo abitante sta ruminando il versetto ebraico di “Salomone” (Qohelet): ki-berov hokhmah rov ka‘aswe-yosif da‘at yosif mak’ov. Il primo emistichio sembrerebbe applicabile solo all’uomo: “in molta sapienza, molto tormento (disgusto, indignazione)”; la sapienza-sofia arcaica, il saper-fare/saper-vivere, si impregna lentamente di sazietà, di un non-poterne-più che è una sorta di stampo vuoto e aperto dell’angoscia profetica. Il secondo dice: “aumentando la conoscenza, aumenta il dolore”. Conoscenza è da‘at, la penetrazione nelle cose, delle cose, l’unione dei contrari, il coito dell’uomo e della donna: e il crescere, l’accumularsi di da‘at, di conoscenza feconda, che ingravida il conoscente e il conosciuto, l’uomo e il mondo, è crescere di doglie, le vecchie e sacre doglie di Eva, le incerte e nauseanti e barcollanti doglie messianiche – moto spiraliforme e non circolare dell’essere, perché, osserva il Talmud, ad ogni parto la donna maledice la notte in cui ha fatto l’amore col suo sposo, ma poi, alla vista del nuovo nato, la sua ira si placa e dopo una finissima e tagliente purificazione interiore si accosta nuovamente all’uomo. – Forse sì, forse questo giardino è “in istato di souffrance” biblica: la sofferenza del Giardino; la sofferenza dell’Adamo-Eva originario, smarrito in se stesso e in tutte le creature. Dio risponde al ka‘as, alla straziata indignazione di Giobbe, mostrandogli la dolorosa e miracolosa fecondità del creato: cura la sua nausea di uomo solo additandogli le nausee della donna gravida, della natura gravida di senso. Se la vita è dolore, il morto che parla sulla sua cenere vede nella vita, nella dolorosa vita e nel vitale dolore, come le mummie di Federico Ruysch, la “cosa arcana e stupenda” che confuta e soddisfa le domande capovolgendole sulla loro scaturigine divina.

martedì 16 febbraio 2010

Primo giorno di apprendistato



Antonio Fiore rifletteva sulla povertà della sua lingua. Alcune cose dure, sostanziose e potenti sfuggivano alla sua presa. Come poteva dire, ad esempio, che la metropolitana di Roma e quella di Pyongyang erano identiche, salvo il fatto che in una si era costretti ad ascoltare Vasco Rossi e nell’altra i discorsi di Kim Jong-il?
Roma non era né buona né cattiva, e nemmeno triste o addolorata. Era stanca e mitemente stregata, e la primavera imminente ne dignificava solo i lineamenti di cui restava inconsapevole: quell’angolo umido, ad esempio, quello stormo di gabbiani coprofaghi, quella prospettiva soffocata ma a suo modo parlante. Antonio la attraversava con attenzione e allegria, ma anche con quel tanto di languidezza tardoinvernale che lo faceva sentire estraneo agli uomini, ma non – non del tutto, almeno – al paesaggio.
Alle otto del mattino la grande via era già la solita Roma immutabile: l’alba l’aveva sfiorata con la sua promessa, l’aveva tinta con delicata rassegnazione, lasciandovi per un paio d’ore circa qualche bisbiglio di pace, qualche ricordo di colori e feste. Era il primo giorno di lavoro per Antonio, e tutto gli diceva qualcosa, sebbene lui non sapesse rispondere a tono.
Cercava di caricarsi di presenti, di immediatezze: questa cosa, questa faccia, questa cara vecchia via Cavour oggi così refrattaria alle sue richieste; ma Roma era Roma, gli uomini erano gli uomini, il cielo il cielo. Della terra non c’era traccia – eppure ne aveva un gran bisogno. Le città sono sempre sospese, qualcuno deve aver tagliato loro le radici.
La piccola strada laterale vibrava di attività, ma anche di sonno. I negozietti erano ancora chiusi, i bar si riempivano e svuotavano con una velocità quasi offensiva per Antonio, che voleva lentezza, solennità, aperture. Certi uffici dietro alle vetrine offrivano miniature insignificanti, sbadigli, metafore di efficienza, bagliori uniformi e compiutamente spettrali: non c’era vita, lì, o almeno si impediva al passante di pensarlo. Bisognava consolarsi con le saracinesche abbassate, coi loro suggerimenti d’anima riposta.
Il suo posto di lavoro era pochi passi più in là. Sapeva che avrebbe dovuto esercitarvi la mansione di amministratore, cioè, supponeva, di factotum; sapeva che il suo capo aveva una voce brusca ma educata, e che si era lasciato convincere dal suo curriculum ma ancor più dalla lettera di presentazione. Antonio era compiaciuto di aver indovinato le parole, di aver dosato fioritura e asciuttezza etc. Era pronto a lavorare bene, duramente e con dignità. Non l’aveva mai fatto in vita sua: una vita breve, d’accordo, ma tutt’altro che facile da raccontare. Non oziosa in un certo senso, anzi, ma in un altro senso fin troppo oziosa, quasi una spaventosa vacanza. Era dunque disposto a rimediare con molti anni di intensa attività dipendente, di giusti salari, di tutelato ma onesto servizio. E servizio non vuol dire servitù – semmai è il suo contrario, o per dir meglio la sua redenzione.
Il capo lo aspettava dietro la porta. Era un ometto tarchiato, ma ad un primo sguardo non sembrava né troppo basso né particolarmente robusto: colpivano i capelli rossi, il colore indeciso della pelle, l’espressione straordinaria del volto. Straordinaria non era forse la parola giusta, ma quella mattina Antonio non era in grado di trovare parole giuste. La faccia del signor Bonetti era ordinaria, eppure costellata di strani dettagli che rifiutavano di risplendere e provocavano lo spettatore ad ansiose considerazioni. Il giovane apprendista le differì, e squadernò un sorriso che sentì cortese e virile. Il signor Bonetti rispose con un sorriso molto simile, che tuttavia strappò Antonio dall’aria familiare di Roma e lo proiettò per un istante nella piatta e solida verità della campagna laziale. Solo allora si accorse che la mano destra dell’omino teneva un libro molto vissuto, e che il forte dito medio era infilato tra le pagine a mo’ di segnalibro. “Sono le prediche di Giovanni Taulero. Lo conosci?”, disse con disumana prontezza. Furono le prime parole dell’incontro. Ad Antonio non parve vero: “Altro che! Taulero è il più grande discepolo di Meister Eckhart, il domenicano medievale che seppe parlare del Divino senza far torto al suo segreto”. Gli piacque l’aforisma. Bonetti storse la bocca, e si limitò ad osservare: “Quel che conta è l’esperienza. La mente porta solo complicazioni e inganni”. E con un buffo gesto di tutto il corpo invitò il suo dipendente ad entrare.

Due motivetti per voce fuori allenamento


1. Appunti di un ergastolano

Inizia da qui, da questa fogna
della tua prostrazione. Nella cella
c’è tutto, persino le sue mura.
Se stai sognando, sogna. Cosa credi
che faccia il disperato del suo ozio,
della follia che il tempo non consuma
naturalmente, come un rancio, che
il tempo modella mentre ne prende
la lenta indomabile faccia? Cosa
credi. Inizia dalla cella. Forse
ne crederai l’illimitata immagine,
forse il tuo volo di mosca ingannata
palperà il duro disegno, le grate possibili
del cielo. Lavora, apprendi, prigioniero.


2. Appunti di un matto

Ci si stanca, prima o poi, della pazzia.
È troppo normale. La musa ritorta
e vizza, bronco nero, con le gambette
di malnutrita e il petto scancellato,
con la faccia di carta appena appena
schizzata, appunti di mummia, l’ospite
deludente e presaga dei sogni,
continua la carriera nelle stanze
ammucchiate di veglia, come sorella
nubile del solitario, un matto di più
nell’appartamento. Cosa vuoi farle?
Non accetta stipendio, e parla poco,
soprattutto d’estate. Sta lì, ramazza
male come te, ma con rigore
più spinto, più applicato, l’intenzione
che non cogli, della pazzia usuale.
Ma è dunque davvero tanto normale
l’invadente zitella, e la stanchezza
è proprio un peso muto sul destino
del tuo appartamento? Non sarà
che la casa del matto può sfuggirgli
e lievitare a casa di matti,
a barca incoronata di verdure
e canzoni precise ed inquietanti?
E se la muta e grigia governante
ne sapesse qualcuna, appena appena,
nei cantucci del sogno goffamente
da te sospettata, e mai percossa,
mai nell’ombra che trema gorgogliata?

giovedì 11 febbraio 2010

Dealbate Latonam et rumpite libros


Lettera ad un amico impiegato sull’uso dei mali burocratici nel cammino spirituale



Caro * * *,

come sempre, posso dirti solo ciò che imparo, a Dio piacendo, di giorno in giorno – niente di definitivo, né di acquisito, a causa della mia instabilità essenziale di moderno che, come il Cacciatore Gracco del sublime-atroce racconto kafkiano, non riesce a morire (=ad essere iniziato) per oscura inavvertenza, per un errore che è di nessuno e di tutti (la nostra esistenza è tragica, non è una prestazione: lo spirito dell’epoca è qui, ne partecipiamo soprattutto nella misura in cui non lo riconosciamo). Cosa farebbe Fénelon di fronte al mostro moderno? Di sicuro userebbe un altro linguaggio, un altro stile ascetico (psicologico-spirituale), visto che il suo è stato foggiato per rispondere ad altre fami e seti di un’altra anima collettiva: eppure, se possiamo, se posso leggerlo anche oggi, tornata alla polvere ormai la Francia assolutistica di Luigi XIV, migrato nel cielo del passato anche l’io e l’amour propre di quelle fragili nobiltà superstiti, e leggerlo con qualche profitto, una continuità c’è, non può non esserci. Fénelon mi dice, al di sopra e al di là del libro, che il mondo e l’io saranno sempre, in qualche modo, una cosa sola: inutile snudare le armi al primo assalto, la fodera è l’io, il ferro è fatto d’io e forgiato dall’io, non puoi spezzare lo specchio restando dentro lo specchio. Ma quella verità così umiliante resta vera: sono prove prima che ingiustizie; o meglio, sono ingiustizie, ma puoi capirlo solo se le saluti come prove (mirabile esattezza geometrica dei paradossi spirituali!). Se tutti siamo incastrati, non ha senso prendersela con qualcuno: prenditela con te stesso, dice Epitteto. Aggiungendo, con un sorriso promettente di sfinge post-socratica: alla fine del cammino filosofico, non te la prenderai né con gli altri, né con te stesso. Non desiderare (gli oggetti) e non rifiutare (gli oggetti): cerca di andare d’accordo con la volontà che regge e plasma la tua vita, a poco a poco scoprirai che non è separata dalla tua volontà profonda, originaria, perché tu e l’angelo, tu e Dio siete una cosa sola. Solo così il tuo desiderio, il tuo thymos, liberato per eccesso e non per difetto di forza dai suoi ideali, dai suoi attaccamenti, dai suoi specchi, sarà l’eros della tua anima, quell’anima che, Heraclitus dixit, è ottima quando è aue – cioè asciutta, arida, assetata. Quando il suo desiderio è libero dal questo e dal quello, perché coglie il questo e il quello nella luce della loro origine: è il desiderio a vuoto di cui parla, platonica, Simone Weil. Allora il mostro burocratico diventa mostro iniziatico, non perché lo accetto in quanto tale, ma perché non acconsento che sia ciò che pretende di essere. Del resto, questo hanno sempre fatto le rivoluzioni: non eliminare gli effetti, ma svuotare di senso le cause, renderle prive di interesse, togliere insomma i fili dalle mani dei burattinai (che non sono poveruomini visibili e tangibili...).
Insomma, si tratta di mettersi in pellegrinaggio, di fare il primo passo del pellegrinaggio: è tutto qui. Una volta che si sa di essere in itinere, ogni uomo, animale o cosa che incontriamo fa parte del pellegrinaggio, è il pellegrinaggio: sembra niente, ed è tutto, lo ripeto. E in questo sapersi in movimento, con una partenza e una meta, l’io che è specchio del mondo diventa l’io di una narrazione, un io che incontra appunto prove, avventure, non mere offese personali: e così sapendo e facendo, non lascia il mondo com’è, quel mondo che è il Grosso Animale di Platone, proiezione dei desideri mimetici di tutti e di ognuno, intreccio di passioni di cui nessuno ha il bandolo, perché il bandolo è nella mia mano adesso (non in senso eroico, né tantomeno individualistico: l’io non è mai ciò che crede di essere). “Facile dirlo!”: hai ragione. Ma dirselo tutti i giorni lascia un segno, anche in uno come me. Se non si ha un maestro dietro qualche tendina logora e fatata del suq, si ha però, sempre e ovunque, l’angelo: all’inizio ogni volta misconosciuto (“ma tutte a me, tutte a me devono capitare... che mondo!”), poi sempre più scrutato, spiato, sospettato, presentito (“eppure, eppure questo mi riguarda, le umiliazioni della burocrazia, the insolence of office nel senso tuo, mio, di ufficio – c’è un messaggio dell’imperatore per me anche in questo...”), e con fiducia sempre crescente man mano che ci si disincanta dalla fiducia passionale negli uomini (“la tua volontà verso di me, Angelo, Dio, è una volontà di bene, corrisponde alla mia ragione profonda, al mio desiderio essenziale, alla fame e alla sete che oggi mi fanno recalcitrare...”).
Eccoci qua! Ogni giorno il sole è nuovo, diceva il nostro Efesino. Fénelon era squisito e malinconico, ma sapeva, come Silvano dell’Athos, che il tesoro è inseparabile dalle rovine: che solo disperando di noi stessi senza disperare iniziamo a consegnarci attivamente a ciò che ci appartiene più di noi stessi – al destino.
Spesso rimastico queste grandi parole di Guglielmo di Saint-Thierry, spero facciano bene anche a te: Ad te igitur, ad te sunt, et sint oculi mei ad te; in te, de te proficiant omnes animae meae profectus; et cum defecerit virtus mea, quae nulla est, post te anhelent omnes ejus defectus. “Verso di te dunque, verso di te sono e siano rivolti i miei occhi; in te, da te partano tutti i progressi della mia anima; e quando verrà meno la mia virtù, che è nulla, anelino a te tutti i suoi mancamenti”.
A presto – a presto comunque.

Daniele

mercoledì 10 febbraio 2010

Tantus labor non sit cassus



Tu scrivi: “Se tornasse oggi, non troverebbe grandi inquisitori, umanitarismi anticristici, ribellioni di torturato amore; se tornasse qui, oggi, non troverebbe nessuno. Si siederebbe, stanco, accanto a un albero violato dalle radiazioni, a un pollo seviziato dagli allevatori, a un minerale vergognoso d’essersi fatto brutto in mani d’uomo; e canterebbe un salmo nel suo dolce e impuro aramaico della Galilea, che non parla dal giorno dell’ascensione a suo Padre”.
Io rispondo: “No, non c’è epoca in cui non viva almeno un miserabile giusto, altrimenti lo scheletro del mondo si affloscerebbe sulla sua nichilità originaria. È una verità indimostrabile, puoi annuire senza per questo essere platonico. Certo, avrebbe potuto dirlo anche un abitante di Sodoma, che il fuoco ha consumato: ma perché Dio si degni di mandare il fuoco come suo corriere, non dev’esserci nella città almeno una briciola di carne umana assetata?”.

Silvano dell'Athos



Si ascendero in coelum, tu illic es;
si descendero in infernum, ades.
Ps 139,8

a Silvano, e alla Russia sofferente


Quando il profilo di Satana, goffo
e paziente in quel suo modo indicibile,
adombrò, per gradi, in un’ascesa,
la Ghènnisis e, a lato, la Glykophilùsa,
mi parve di capire: questo il mondo,
questa l’arena, e la bilancia è pavida,
trema, come una bestia. Lui, tua madre,
l’amore di lei e l’amore di Sodoma,
com’è che diceva quel figlio opportuno
della Russia? La mia orazione
restò così, impiccata al komboskìni,
un Giobbe sui rifiuti, che io sono.

Tu mi parlasti – non esattamente
dal turbine, da un cantuccio direi
di quell’oscenità, dove il Nemico
sembrava nel suo amnio, a petto pieno –
e la spada a due tagli mi premeva
al muro del mio orgoglio: Capita questo, Silvano,
ai superbi
.

Non ignora, Silvano, la sua cella
di tutti i giorni, in cui s’è murato
per l’amore inflessibile di Adamo:
un fiato dopo l’altro, faccia a faccia.
Silvano sa, per tua grazia, per le lunghe
sozze fatiche del cuore e del corpo,
le ginocchia del tuo servo, gli occhi,
sanno. E tu parla ancora, dimmi questo,
versami in bocca, da te masticata
prima, per farla discendere, la parola
dell’umiltà, alla cui porta invano
hanno bussato le ginocchia, atteso
arrossandosi gli occhi nel buio,
non di felino, gli occhi, ma di strigide
immondo... Mantieni il tuo spirito
nell’inferno, e
non disperare.

Così tu dici. E sei. Ora. Ricordo
poco.
Sì. Ecco. L’icona venerata
della Katàbasis. Il passo che fende
l’umido della tomba obliquamente
per passeggiare con gli stanchi, fuso,
non mescolato, ai sogni, agli squittii,
alle interrotte reprimende dei morti,
ai ricordi che battono ancora
il loro chiodo, sempre lì. Lo vedo.
E tu lo vedi, come fedelmente
ti attendevamo, come i nostri giri
e rigiri nel fango sono simili
allo sgranarsi che fa il komboskìni?
Neanche una parola ti era prossimo
sull’altro monte, un poco dopo il Tabor,
perché sei la Parola. Neanche una.
E allora, vedi. Adesso la tua grazia
mi ha: non la tengo. Te la rendo.
Ti rendo grazie, fratello dei morti.
Hai voluto discendere per sempre
nell’icona del corpo, nelle spire
dei sogni, inestricabili. Nessuno
può separare ciò che il buio ha unito.


NOTE:
La Ghènnisis è l’icona della Natività: la Glykophilùsa (“Colei che ama, che bacia dolcemente”) è l’icona di Maria che tiene in braccio Gesù reclinando teneramente il capo verso di lui; la Katabasis (o Kathodos) è l’icona della discesa agli inferi di Gesù fra la morte e la resurrezione.

Il komboskìni è una sorta di corona del Rosario in uso sul Monte Athos.

Ad un amico, sulla rivoluzione



C’è un paradosso nel cuore dell’idea di rivoluzione, della forma-rivoluzione: ne ha ben visto il tragico nodo, con il portato di pensiero di un’esperienza squisitamente moderna, Büchner nella sua Morte di Danton. Di per sé la rivoluzione è una violazione del wu-wei, un’espressione di hybris, il tentativo di imporre un’idea limitata, un’idea col suo logos astratto (un’ideo-logia), al tessuto vivo dell’universo e dell’umana vicenda nel tempo. La rivoluzione paradigmatica, che forse è l’unica davvero riuscita della storia, quella cristiana, ci insegna che il principio della rivoluzione è la revolutio, il ruotare intorno a se stessi, la reformatio come mutamento radicale di forma (dall’uomo vecchio all’uomo nuovo). Ricordava opportunamente Zolla che il segreto di ogni rivolgimento culturale-sociale è nel Magnificat, col suo exaltavit humiles: non sono le armi, la rivolta, l’azione-intervento a cambiare il mondo, ma i poveri, gli emarginati di una specifica società, di uno specifico assetto di potere, che (e se) con la loro stessa vita testimoniano il novum, la differenza fondatrice di un nuovo ciclo storico, di una nuova cultura. Cultura è cultus, la paziente coltivazione in accordo col tempo: e Dio esalta gli humiles, quelli che stanno a terra, rasoterra, quelli che partono dall’humus, dalla terra fertile, che sono come terra. Eppure, non possiamo fermarci qui – ecco il colpo di gong del tragico, che rende impossibile ogni ottimismo, come del resto ogni pessimismo: a un certo punto i poveri, gli umili devono prendere il potere, il potere deve farsi cristiano, bisogna non solo aspettare un Costantino coi suoi sogni e la sua spregiudicatezza, ma anche che la rete amministrativa delle diocesi, protetta dalle armi, dalla politica, eserciti finalmente la plenitudo potestatis cui si è preparata per secoli; e tutto si fa nascondimento ancora più fitto, apocalittico, il Cristo trionfa, il Cristo si rinasconde nei tuguri, nei sotterranei, nell’humus.
Insomma, non c’è rivoluzione che non sia anzitutto e soprattutto una profonda riforma culturale, che parte dal basso, dal piccolo, da piccoli gruppi, da piccole testimonianze: ma la riforma, quando inizia a crescere (sul piano materiale-sociale), a intridere la pasta del popolo, a plasmare un’epoca, inizia a corrompersi, a decadere (sul piano spirituale-ideale), deve venire a patti, rendere i propri esperimenti istituzionali adatti ai grandi numeri, o almeno limitarsi a una data comunità, a un popolo di individui che si conoscono, diviso in stirpi, con memorie condivise, autonomie concrete, miti non troppo remoti. Una parabola che conoscono tutti, ma che tutti dimenticano: primo perché la rivoluzione, col suo afflato di eresia cristiana, col suo fuoco apocalittico, cancella il radicamento riverente, la circospezione saturnina, il sale della saggezza popolare; ma anche e soprattutto perché questi aspetti di croce, di tragica necessità, sono tutto sommato secondari di fronte alle novità autentiche (e raramente presenti alla coscienza quando il processo è in fieri) che la rivoluzione cerca di tradurre in istituzioni, in politica. (Péguy diceva: “Tutto comincia in mistica e tutto finisce in politica”. È una frase che va letta nel modo giusto, ma è così).
Anche oggi è così. Lascio stare, per il momento, ogni riflessione sul marxismo, una filosofia rivoluzionaria europea (sostanzialmente sorella gemella-antagonista del liberalismo) che aveva forse grandi possibilità di trascendersi in un esercizio di critica permanente, e invece per impazienza (il grande morbo rivoluzionario) la si è vista incarnata in grandiose apocalissi asiatiche che preludevano a dispotismi vecchio stile retti da fantastiche elefantiasi di burocrazia totalitaria – oppure in rivolte sudamericane mezze jacqueries e mezze lotte di decolonizzazione che preludevano a satrapie ancor più vecchio stile... Credo che oggi si debba prescindere per lo più dai dogmi marxisti – e rileggersi al contempo le pagine migliori di Karl Marx – e che ci si possa accordare su un pugno di eretici per ripensare il mondo dal basso, dall’humus: io propongo la Scuola di Francoforte, Benjamin, Schumacher, Polanyi, Ivan Illich, Castoriadis – e Pasolini, ovviamente... Ce ne sono altri – non moltissimi: li riconosci dalla solida carità che hanno per l’uomo insensibilmente torturato dalle idolatrie del Brave New World neocapitalistico, l’idolatria del consumo, l’idolatria del lavoro; una solida carità che brucia quasi tutte le loro inevitabili, a volte, astrattezze di professori, di ideologi, di ribelli, di eretici, appunto.

Un saluto.

martedì 9 febbraio 2010

Disimpegno di un burocrate di Ch'u


I documenti che ho controfirmato
per la Sovrintendenza alle Acque
saranno ormai dispersi in archivi
differenti dello Stato.
Amavo le sale e la musica, ora mi piace
prendere le medicine, starmene qui,
annuire alla confusione, esaltarmi
scioccamente ai miei ricordi erotici.
So per esperienza che quanto ho gustato
è il bozzolo tenue di quello che ignoro.

Riflessioni sull'Annunciazione e la Natività



Dicono bene i popoli arcaici: l’unione fisica tra i genitori è causa occasionale della nascita del terzo, del figlio. Il terzo precede sempre la coppia – anche se non nel senso, pressappoco schopenhaueriano, che un uomo e una donna si incontrano ed innamorano affinché la Natura generi un dato individuo. Almeno, non è ben detto. Anche con i platonici – l’anima sceglie il padre e la madre che concorreranno a farla discendere in un corpo e in un’esistenza terrestri – sono d’accordo solo a patto che condividano la mia perplessità. Oggi mi viene da ripetere la sentenza mistico-dialettica di Ibn ‛Arabī: “la causa è causata da ciò di cui è causa”. Qui tutto è reversibile, perché non c’è altro sentiero da seguire che l’ignoranza, lo stupore, il riconoscimento dell’inspiegabilità.
Allora, in che senso il terzo precede sempre la coppia? Non c’è due senza tre: il tre, che si manifesta dopo il due, è già implicito nell’uno, come armonia. Questo è vero anche se non ci sono figli carnali. Ma il figlio carnale, come il figlio psichico, spirituale etc., avviene, viene, si rende presente, ci cerca: e al tempo stesso noi lo chiamiamo, lo invochiamo, gli prepariamo la strada, lo stampo cavo in cui verserà la sua libera, ideale colata. Stampo che, da un’altra prospettiva, sembra pieno: l’intreccio dei condizionamenti che costituiscono l’individuo, in cui l’individuo, tolto l’alone della soggettività, si risolve. Ma è impossibile e ingiusto fare, di chi appare, un oggetto, una collezione di oggetti: anche e soprattutto con la più sottile violenza di considerarlo un’essenza data e incarnata. Perché l’intreccio sia intreccio, perché il samsara sia samsara, occorre ricordare che tutte le relazioni sono reciproche, reversibili, molteplici, che in ogni parte c’è il tutto, che il tutto è connesso al tutto – mistero di giudizio e di misericordia, di samsara come caduta e di communio sanctorum come redenzione, come samsara intimamente redento.
Insomma, tu ci precedi, figlio – non in un tempo immaginario, e nemmeno per via di una priorità logica od ontologica: ci precedi perché è in te e grazie a te che siamo. Non possiamo sfuggire alla nostra destinazione non-duale, più-che-duale: tu ce la manifesti. E, manifestandola a noi, all’universo, sei ciò che sei, sei chi sei.
Nel plasmarsi dell’embrione si addensa e affina tutta l’opera della natura. La debolezza formante del seme, distillato dalle asperità del suo lungo viaggio tenebroso, la ricca e creativa ricettività dell’uovo, in cui il seme sembra negarsi, perdersi, e in un certo senso è così: perché in un certo senso tutto è madre – di nuovo, l’intreccio riempie l’orizzonte, nello spazio non ci sono vuoti. Ma il seme negato, offerto, trova risposta, corrispondenza nella ferita, nell’apertura ancora solo intima dell’uovo: la cui pienezza originaria pare frangersi da un invisibile, ulteriore centro, esplodere a partire da una dimensione superiore, altra. E la duplice negazione, la duplice offerta fa spazio a lineamenti inizialmente caotici, quasi impossibili cioè da isolare, individuare, seguire. Com’è dolcemente e terribilmente tracciata, in questi abissi marini, terrestri, noumenali, l’interrelazione che sempre ci rende perplessi sulla superficie dell’essere, sulla faccia simbolica e rituale dell’essere – quell’interrelazione che porge e confonde l’individualità, che ostende e vela la forma! Così siamo giudicati, così siamo salvati.
Figlio mio, figlio nostro, figlio di Dio, ti penso pensando ad Anassimandro, al suo oracolo di arcaica nettezza: “Le cose da cui gli enti traggono il nascere sono quelle in cui si consuma la loro corruzione, secondo il decreto necessario; essi infatti si rendono giustizia gli uni gli altri per l’ingiustizia, secondo l’ordinamento del tempo”. L’ente nasce alla morte, entra nell’orizzonte mortale: ma se il suo sorgere, il suo apparire, è distacco dalla radice, dalla patria, è per ciò stesso vero che la caduta, l’esodo originario è manifestazione, accesso al gioco della vita, al sogno tramato di simboli. E il suo nascere è solo simbolicamente e ritualmente un inizio, in profondità è un volgersi, un convertirsi – attraverso la corruzione, il pellegrinaggio mortale – al principio da cui si è principialmente staccato. Questa è necessità: filo che lega i mondi, nodo tragico e vitale, collare del giudizio e ampio respiro della misericordia. Questo è il decreto: perché chi nasce ritorna, appare per farsi più intimo, più vero. E il ritorno è giustizia che ci si rende reciprocamente, in quel samsara che è comunione purgatoriale ed embrionalmente paradisiaca, pena del dolore condiviso, della colpa spartita, gioia perplessa della non-dualità, dell’impossibilità della solitudine. Giustizia che rimette in sesto un dissesto originario, profondo, connesso al segreto esultante della manifestazione, quell’uscire che è un grido di spaventosa gioia: giustizia che si esegue e realizza secondo l’ordinamento del tempo, il suo spessore d’anima e di memoria, perché come il decreto di Necessità traccia la linea del diexodos e la curva al contempo nell’epistrofè, così l’ordinamento, la struttura del Tempo è allontanamento dall’aion e suo recupero nei simboli della memoria (Florenskij). (Il diken kai tisin didonai – “rendere giustizia, espiare” – di Anassimandro è l’epistrofè colta nella sua tragicità).

Non devo credere di vedere più di quel che vedo – questa è la suggestione lanciata dai test, dalle ecografie, ma anche, più umanamente e tortuosamente, dalle fantasie, dalle aspettative... – ma far fiorire la visione dal mio non vedere. Come con i morti. L’utero come il mondo, il mondo come l’utero, l’utero come la tomba, la tomba come l’utero, il mondo come la tomba, la tomba come il mondo – non mera fluttuazione, ma migrazione, viaggio. Senti tutte le risonanze della parola trasmigrazione.

Non c’è unione se non attraverso l’immaginazione. Quindi il seme e l’uovo come precipitati dell’immaginazione profonda, della memoria del corpo e del ghenos: il corpo come immaginazione materiata, e il seme e l’uovo come sua distillazione. Ma l’immaginazione lucida, conscia, che parte ha nel concepimento? Forse, nella misura in cui è resa propriamente attiva dalla volontà, dall’intenzione, entra come componente formante, fecondante della fecondazione stessa: ma non bisogna letteralizzare. Nel rito, il corpo prima di tutto: il pensiero deve riappropriarsene, scioglierlo pazientemente e timorosamente negli strati di immaginazione che lo hanno portato alla manifestazione.

lunedì 8 febbraio 2010

Pensieri di un cantore di Isfahan


a Mariella


Ieri al-Mo‘tasim il marocchino ha detto ai suoi amici
reclinati sotto il portico come fra due cacce i gatti
che qualcosa di bello dura nel perdersi di tutto
perché la bellezza è un attributo di Allāh, sta scritto,
ed uno dei Suoi Nomi è il Bello, e Amante del Bello.
Ma a me, che gli ero da presso e m’accordavo il liuto,
aguzza l’attenzione eppure smarrito
come uno stelo quando il tramonto si stempra,
ciò non bastava, forse perché avevo velato
già da tempo il cuore nel ricordo di te:
di te che, pur essendo qualcosa di bello
con precisione che umilia il senso del mio liuto,
hai sortito dal cielo un compito notturno,
di volgere le cose alla loro tempestosa frontiera
come le banderuole della periferia, e in ciò tu mostri
piuttosto l’altro attributo divino, il Rigore.
E allora ho sentito dove andava a parare
l’astuto marocchino coi suoi gattacci indolenti:
qualcosa di bello è prezioso come il respiro e i ciottoli,
prega dietro il velo del mio cuore e del tuo
in accordo col muezzin e la meditazione delle rane,
col ventre saggio dello scorpione, con l’occhio della leonessa,
con il bambino pigro e il suo compagno furioso.
Qualcosa di bello – questo al-Mo‘tasim non l’ha detto,
il tuo ricordo ha ingravidato di sé, nel buio, la lacuna –
ciò che è bello e prezioso non può mai dimorare
nella cosa preziosa che sollevi al tuo cospetto,
e dura veramente nel perdersi di tutto, si perde
con tutto volentieri e non è quindi perduto:
la cosa bella che abbiamo ascoltato
reclinati sotto il portico, è la bella notizia
della bellezza che non ha da perdere
nulla, nemmeno il sentore e la frontiera del nulla
frastornata dal vento, nemmeno la distanza fra me e te
che il velo del cuore, logorato, custodiva.