Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 30 giugno 2010

Chi è il custode di mio fratello?


L’inizio della storia: il fratricidio – di Caino, di Romolo, di Gengis. L’uccisore è poi costretto (ananke) a perpetuare illimitatamente il rito.
1. Caino, l’io, il ‘conquistato’, il ‘radicato’, uccide Abele, il ‘soffio’, l’anima errante in cui è latente-innocente l’essenza del sacrificio: e lo uccide per iniziarsi/essere iniziato al labirinto storico della psychè, alla sua plane lunghissima. Secondo il midrash al testo della Genesi, fra i due era sorto un conflitto di potere. La fraternità umana custodisce il segreto dell’iniziazione e del crimine.
2. Romolo, il solare, il limitante, uccide il gemello Remo, il notturno, l’ebbro prevaricatore. L’equilibrio della diade perturba, vieta l’organizzazione del potere. Il romano sarà per sempre un servo fuggitivo, che assassina/sacrifica fratelli perturbanti, fratelli che cercano continuamente di de-lirare, di passare il solco, il confine.
3. La storia di Temujin-Chinggis (Gengis) è la più epicamente esemplare. I suoi due antenati animali, il lupo celeste e la terrestre cerva, sono in lui in un equilibrio dionisiaco, che va spezzato per fondare il tempo, il ciclo storico di cui Gengis è il capo. Il fratello-amico Jamuqa lo combatte, è catturato, e all’offerta di recuperare il tempo sospeso dell’uni-dualità fraterna/amicale, il tempo della loro infanzia libera ed emarginata, obietta che non può esserci amicizia senza equilibrio di forze (Tucidide!): solo se Gengis assassina/sacrifica Jamuqa, questi potrà, da morto pacificato nella terra (la cerva totemica divorata), essergli di nuovo amico con le sue disincarnate benedizioni, giustificare dalle ombre il lupo insaziabile e scatenato. L’avventura sanguinosa di Gengis, sciamano estatico e legislatore lucidissimo, sarà la tragica, infera ripetizione di quello strazio intimo ed archetipico. Questo trauma è la mimesi umana, onirica, del trauma profetico (Lévinas) che dà inizio alla storia sacra, e fonda la pace-sapienza: l’impero che ne segue è quasi sempre, orribilmente e irresistibilmente, un miraggio di perfetta integrazione e tolleranza. Dà vertigini messianiche, anticristiche. La storia è questo sortilegio.

lunedì 28 giugno 2010

I paradossi delle élite/2


Mi servo di un esempio storico per illustrare un altro dei paradossi dell’élite. Nel duello ideale che opponeva Atene a Sparta, Platone non poteva che sentirsi più vicino alla seconda. Contro l’orgogliosa e ipocrita democrazia ateniese, geniale e spregiudicata, col suo imperialismo, il suo mercantilismo piratesco e la nascente lebbra delle speculazioni finanziarie e del grande commercio sradicatore, con la sua paideia alla continua ricerca di equilibri tra l’illusionismo delle arti figurative e lo splendore della manifestazione perfetta, mediatrice, tra lo scatenamento di passioni del teatro e la sua catarsi come surrogato delle iniziazioni, tra le favole irrazionali dei miti e il razionalismo spaesante della dialettica – stava l’aristocrazia spartana, fondata sulla custodia della tradizione, sulla coltivazione delle virtù militari e civiche, sul disprezzo per gli agi e per il veleno seducente dell’individualismo urbano, con la sua economia retta e frugale e la sua struttura sociale inesorabilmente castale. Ma Sparta – di cui i giudei, fieri, umili e militanti difensori della vita secondo la Torah, si sentivano parenti – è l’incarnazione di un paradosso davvero istruttivo: il paradosso di una società quasi immobile, quasi del tutto priva di ‘cultura’ nel senso a noi più comprensibile del termine (non a caso di derivazione ateniese), di una comunità che paga la sua rettitudine con una ferrea e sistematica oppressione della maggioranza del popolo; di una città che sacrifica alla giusta eguaglianza arcaica dei pochi le libertà autentiche dei molti. Di più: il paradosso dell’unica polis fondata sullo splendore dell’andreia, del coraggio; ma in cui questo splendore era a sua volta fondato sul tenebroso addestramento dei giovani al terrorismo, sull’onnipotenza di una polizia segreta, la krypteia, che garantiva la stabilità e l’ordine aristocratico formando squadre di agenti pronti a tutto. Non è una cosa nuova, mi si obietterà. Infatti no, e ho anche esagerato qualche tratto: ma è archetipicamente esemplare. Certo, Platone pensava piuttosto a un’aristocrazia della prima funzione, brahmanica, pitagorica, non militaresca, kshatriya, come nella roccaforte spartana: ma resta la grande burla di una trasparenza ideale le cui radici affondato nella scura terra delle assemblee segrete.

I paradossi delle élite/1


Come tutti i "miti" di questo tipo, il mito dell’élite ha un lato misterico (aurorale, nutriente, necessario) e un lato mistificante (tralignante, ideologico, solidificato). Analogamente, la maya è il potere creativo mediante il quale il divino si manifesta, ma anche il potere offuscante, illusionistico, ingannevole delle identificazioni alienanti (ri-velazione!). Ogni mediazione, in quanto tale, è ambigua, tragicomica: il racconto mitico dell’arché ci accosta all’arché allontanandoci da essa; il rituale in cui il racconto si incarna è presenza, intersezione fra tempo ed eternità, ma anche routine ottundente, distraente, maledetta (pensa al sacrificio nella Bibbia!).
Veniamo all’élite dei sapienti. Nessuna cultura, nessuna comunità può coltivare la propria libertà spirituale senza una fitta rete di iniziazioni, senza proteggere una fluida ma radicata struttura di corporazioni, di confraternite, di spazi in cui la tradizione vivente possa conservarsi assimilando alterità. È questa la vera "società civile", che il pensiero politico moderno ha esaltato proprio quando, nella realtà esperienziale dei "delicati rapporti" reciproci (Hoelderlin), non si poteva non constatarne la morte e/o la mefitica putrefazione. Il fatto è che l’homo hierarchicus, per preservare la libertà, deve continuamente criticarne le parziali manifestazioni storiche: la conservazione della tradizione, cioè della forma, implica l’incessante revisione delle forme. Per adorare Dio bisogna spezzare gli idoli, mettere insieme Saturno ed Hermes, commento e critica.
Una società gerarchica tradizionale dev’essere in realtà profondamente anarchica. Anzi, è proprio la struttura iniziatica, corporativa, consuetudinaria a proteggere il popolo, nella sua complessità non egualitaria ma intimamente paritaria, dal controllo dello Stato, dalla manipolazione di poteri alieni. Questo è l’ideale, che andrebbe coltivato taoisticamente, cioè con un senso del radicamento privo dell’ossessione per le forme istituzionali: ma è un altro mito, un altro ideale irraggiungibile se non per asintoto. Un ideale fecondo, però. Non appena le gerarchie si istituzionalizzano, si solidificano, non appena le élites si difendono come fa l’io nei confronti del non-io, sorge il "Noialtri", il Grosso Animale di cui parlano Platone e Simone Weil. È uno degli apparenti paradossi dell’esoterismo, della tradizione, e in realtà una semplice considerazione dettata dal buon senso: per conservare la libertà dei padri, bisogna guardarsi dal costruirle intorno un recinto troppo robusto, un vaso ermetico che rischia di restare chiuso oltre i giusti tempi dell’operazione alchemica. Così i free masons medievali diventano massoni più o meno deviati, i Templari (così pare) un impero finanziario fondato sull’intelligence e, quando il mito di fondazione si perde nei meandri dell’oblio storico, le turuq sufi della Sicilia fatimida possono addirittura diventare le famiglie feudali che daranno vita alla mafia (intuizione geniale di Zolla, indimostrabile ma accattivante).
C’è una celebre battuta biliosa di Giovenale, nella satira sulle donne: i mariti gelosi si illudono di reprimere le fami erotiche e le micidiali astuzie delle loro mogli affidandole a sorveglianti occhiuti: ma "chi li custodirà, i custodi?" (quis custodiet ipsos custodes?). Giustamente queste parole sono state applicate alla famosa politeia platonica: chi custodirà i custodi, i phylakes sapienti che vivono come asceti pitagorici nascondendo al popolino lavoratore e ai rudi militari gli arcana imperii e gli arcana sacrorum? Certo, è una questione politica antica come la politica, e non bisogna sofisticamente trarne la conclusione che "è meglio la confusione un po’ più trasparente della democrazia", perché il pensiero deve sempre confrontarsi col meno peggio, ma non può proibirsi di volare verso l’archetipo, verso l’ottimo. E l’archetipo è ironico, sfuggente. I sufi dicono che esiste l’élite spirituale (khassa), ma al di sopra c’è l’élite dell’élite (khassatu l-khassa) che guarda dall’alto le strutture iniziatiche che a loro volta guardano dall’alto il basso mondo: ma l’unico modo di guardare dall’alto chi guarda dall’alto (l’unico modo di custodire i custodi?) è quello di coniugare appunto la chiusura a doppia mandata saturnina con l’inafferrabilità e l’ironia ermetica. La storia non si fa con i "se", ma la storia immaginaria (immaginale, forse) sì: se Platone avesse preso il potere in una qualche Siracusa e avesse attuato alla lettera il programma della Repubblica e delle Leggi (ma il cuore del mio pensiero non è stato messo per iscritto, precisa la Grande Volpe post-socratica!), il risultato non sarebbe stato molto diverso, temo, da una sorta di Iran khomeynista – o dall’Egitto fatimida (in cui però, grazie a Dio, l’arte profana non venne bandita).
Ma questa è ancora la scorza del problema: il nocciolo è ancora più duro – e più nutriente. Il mito del Sapiente o dei Sapienti non può essere letteralizzato. La sapienza è umile, è saper fare le sedie, è tirar su un muro – ovviamente con attenzione, con una certa percezione dei significati, delle forme, del contesto più ampio in cui la mia azione si inscrive. Guénon e Zolla lo sapevano – soprattutto lo Zolla liberatosi dal guenonismo –, ma rimane anche nella loro meditazione più matura una certa mitizzazione intellettuale di un mondo scomparso, un approccio da occidentale che cerca di rifarsi le radici. Nel cuore misterico del loro mito, permane un grumo – potenzialmente mortale – di mistificazione. Come dice un rabbino chassidico contemporaneo, l’esoterismo di testi come lo Zohar, il grande commento mistico alla Torah, racchiude il sod (il segreto, il livello profondo) della Torah: ma in quanto testo e libro, è la lettera del sod, l’aspetto letterale dell’esoterico! L’esoterico dell’esoterico è... Che cos’è? Se qualcuno potesse dirlo, sarebbe più tale? Ma certamente ha a che fare col saper fare le sedie – e le cattedrali. Se nessuno sa far più sedie e cattedrali, se la struttura iniziatica del vecchio mondo è stata divorata dal Leviatano degli Stati nazionali e poi della burocrazia napoleonica e poi parlamentare e poi ancora dalla capillare propaganda della società di massa (dove, dice magnificamente Foucault, il potere è più positivo e creativo che mai, altro che negativo e repressivo come nell’Antico Regime: oggi il potere entra nei corpi, li modella, è multicentrico, senza volto, sottile, magico): se le cose stanno così, il mito dell’élite-di-sapienti dev’essere sottoposto a un incessante ta’wil, che lo deletteralizzi senza pietà. Altrimenti non preserva antiche libertà: insinua nuove truffe.

martedì 1 giugno 2010

Davanti al cancello del giardino delle Esperidi


Sotto molti aspetti percepisco e vivo una calda vicinanza, una reale intimità nei confronti del dharma buddhista. Amo e venero la centralità che accorda alla meditazione-contemplazione, lo sguardo fenomenologico cui addestra il cuore, il suo spirito insieme agnostico e devozionale, nominalista e realista, sublime-paradossale e ordinario-popolare. Il suo pragmatismo, tutto soteriologico e concretamente mistico, consente anche di vedere in trasparenza certe parole del Risvegliato che, riformulate in chiave dottrinale o dogmatica (nonostante il suo divieto espresso ed insistito, ma è fatale quando sorge una comunità umana), possono finire in mitologie pseudofilosofiche.
C’è solo una cosa che mi tiene distante, irrimediabilmente e decisivamente, dal buddhismo: una cosa di cui non ha nessuna colpa – ma è proprio questo il punto; ed è la sua incapacità radicale di intervenire profeticamente nella dissoluzione del mio mondo. Solo la mano che ci ha colpiti può guarirci: e se la salvezza ci raggiungerà di nuovo ex Oriente, dovrà rispondere alla nostra angoscia senza confutarla con la possente mitezza di Shakyamuni.