Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 28 ottobre 2010

Fausto di Milevo nella periferia cartaginese


Jesus patibilis omni suspensus e ligno...


La forma di un albero
non è solo la forma in quell’albero:
è dolce, ed indecente.
Sospesa a ciò che non è,
fedele allo scempio che la modella
e la fa respirare, col suo lieve
e crudo fiato sospettoso, con la sua
ansia di cosa follemente
addormentata.
Ha un angelo vicino, confidente,
quel maestoso aggregato, quell’anelito
straccione – radici
di vecchiaia violenta, saggezza
pensosa, rugosa del tronco, preghiera
ferita e vaneggiante
per ogni dito di fuoco dei rami –
ha un angelo
forse troppo sereno (gli sussurra
che è lui stesso, che va così, che non deve
temere, piccolo giusto), forse troppo
gentile per un destino di martire,
di uno che grida anche meglio
del Precursore, che non fa fatica
a trapassare i cieli.
La forma di quell’albero abbastanza amato
dai bambini e dai vagabondi, e molto ignorato
se non come immagine o legna,
la forma che vuol fare di quell’albero
il padre e il fratello sconosciuti,
l’amico di sangue dalla barba felice,
qualcuno vivo alle tue ultime nozze,
mi scorre, mentre vado sulla polvere
della mia colpa, accanto, non osa
farmi segno altrimenti, ha pena
dell’orrore che è mio, che mi confonde
sempre accanto, in attesa di travolgermi,
e addentrarsi, e persuadermi – irato –
della sua potenza e tenerezza.

- 27 Giugno 2003 –

lunedì 18 ottobre 2010

Appunti dell’uomo di campagna davanti alla porta della Legge: Appendice II: Totus in suis, totus in nostris/ 8


Se Gesù-Testa ha preso su di sé le debolezze della Chiesa-Corpo, e la Chiesa-Corpo ha ricevuto i poteri di Gesù-Testa (Isaac de Stella), l’obbedienza al Cristo storico implica l’obbedienza al Corpo di Cristo per essere condivisione nel Cristo Totale. Ma come accettare la mescolanza di grano e loglio, l’incompiutezza del Corpo per cui la Chiesa è prostituta e madre, senza subirla?
Il fatto che Gesù abbia totalmente donato se stesso alla Sposa, Anima-Chiesa, potrebbe portare alla posizione ebraica: la Torah non è nei cieli, il commento è inesauribile, l’autorità della Testa è alfa-omega, nascosta-e-imminente, mentre la creazione, il creato è nella beth, nel tempo di mezzo, a casa nell’esilio. Così però l’autorità, deletteralizzata e disseminata, è anche disincarnata? La Sinagoga è tout-court l’esoterico della Chiesa, i margini del Testo cristiano (Péguy)?
L’incarnazione libera dal letteralismo acconsentendo che l’esoterico si faccia lettera (non letterale): euanghelion è awon ghilayon, vangelo è “trasgressione dei margini”. Il nascosto-imminente accetta di essere lettera: la lettera uccide; quindi l’Incarnato è il Crocifisso. Gesù denuda l’esoterico della berith: la fede può tutto, il Regno non svuota solo il profano ma anche e soprattutto il qadosh, il qodesh; il mondo è ʽolam, un muro di letture non rinnovate. Ma diffondere questo segreto equivale ad esserlo, è una tragica colpa, che Gesù appunto deve assumere: sa che il segreto denudato si fa ancora muro, ancora mondo, e che chi si lega al suo destino messianico è afferrato dalla stessa ananke. La fretta messianica del discepolo deve patire volontariamente la croce del maestro, la croce della Legge.
Il discepolo sta nella Chiesa come Gesù sta nella keneseth: sa di incarnare il segreto, e quindi sa di meritare il giogo, l’ananke della lettera, della carne. Come la Torah condanna il messia esoterico, così il Patto nuovo, fatto Legge, condanna il discepolo esoterico. E se il Patto nuovo è lo Spirito, il sod denudato di quello ebraico, la sua condanna è intima e spirituale: il cristiano, il cristificato sarà crocifisso dalla lettera dello spirito, cioè dall’Incarnazione stessa. Come nella Legge antica: ciò che salva è ciò che condanna. La carne di Gesù, irriducibile, carica il cristiano di una colpa-ananke spirituale che egli prende su di sé, e restituisce a chi l’ha coniata (il Gesù storico stesso) facendone un’offerta a-tea, da fratello a fratello come se Dio non ci fosse (cfr Simone Weil), e così restituendo a Dio ciò che è di Dio, il volto oltre l’idolo, il Cristo di ogni cosa, di ciascuna cosa, cioè ciascuna cosa non col nome di Cristo ma col suo nome di cosa trasparente al Nome innominabile (ciò avviene appunto nel Nome di Cristo).
Così la Chiesa è sposa di Cristo, suo corpo e sua incarnazione esoterica oltre il segno del Cristo storico: l’annullamento della Torah fa risorgere la Torah; chi uccide spiritualmente la carne spirituale di Cristo apre, di nuovo, la porta al Regno – apre la porta della Legge. Il Regno è il così-com’-è senza idoli mentali; la Chiesa custodisce la lettera, quindi va combattuta restandovi, va aggirata sottilmente, svuotata così come si svuotò Cristo.
In questa direzione Cristianesimo e Buddhismo mahayana potrebbero convergere, ma il Cristianesimo è ancora e sempre ebraismo, ancora e sempre Legge, ancora e sempre profezia, quindi il suo significato “politico” (messianico) lo espone a un tragico gioco che la Sapienza buddhista può gnosticamente assorbire senza mai conoscere lo scandalo, l’intima lacerazione di un Dio Persona, i meandri kafkiani del Libro e dell’interpretazione, il fratricidio perpetuo di una religione di redenzione che muove dalla lettera della totalità.

Poiché la Parola si è fatta carne (luogo di manifestazione dello Spirito), l’idolatria specifica del cristiano (necessaria, quindi scandalosa) è la parola come mediazione al Cristo-Parola, il nome di Cristo come parola della Legge; il dogma dell’Incarnazione come risorsa per pensare, nell’attesa, il cristico farsi carne della Parola.

Lo Spirito è la pienezza di morte della lettera. Il Messia, il lettore che incarna la lettura, è l’unico in grado di redimere la lettera dal letteralismo. Egli stesso non è, non può mai essere, letteralmente se stesso.

domenica 17 ottobre 2010

A colei che è felicemente oscura


a Mariella

cotanto d’umiltà donna mi pare
ch’ogn’altra ver’di lei i’la chiam’ira.
GUIDO CAVALCANTI

Ci compitiamo (rumina nei gesti
della magia comune, nella tenue
sperdutezza dei nostri fuochi) il chiaro
ventre della bellezza – alberi, gatti
sere più miti del fiato terribile
del Dio di Elia – quasi che la pelle,
sfrenata, serpentina all’indecente
tatto del sole, quasi che gli odori
d’infinita suburra che si covano
nel suo ritegno, fossero la selva
mescolata dal tuono, che c’irride
la prima fuga, eterna...
Mai ci saziamo d’averlo imparato.

Ma tu sei calma come il toro e l’estasi,
hai l’umiltà fremente nell’azzardo
della muta sul polso della morte
e delle rare immani tenerezze
che in un bisbiglio soffocano il conto
della nascita; il suo canto spezzato...
Tu sei così.
Ci confuti. Ci salvi.
Non chiedi nulla al vago gesto magico
del giorno e della sera, all’elemosina
pungente delle veglie e dei ricordi,
– fuorché morire, al tremolio d’un lume,
schermato di penombra: irrefutabile.

- 29 Giugno 2002 –

IL CASTELLO IN FIAMME E L’UNGUENTO DELLA PAROLA



Il testo che segue è una testimonianza sulla grande scrittrice Elena Bono inclusa nell’omonima raccolta: Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono e la sua opera (progetto di Stefania Venturino, Edizioni Le Mani, Recco, 2007).


Una tradizione ebraica[1] narra che Abramo, lungo il suo cammino di cercatore, vide di lontano un castello splendente. Pieno di meraviglia, si chiese: “Chi sarà mai il signore di un simile castello?”. Si affacciò allora, ad un alta finestra, un re, che disse con serena forza: “Sono Io il Signore del castello”. Il senso del raccontino è chiaro: il pellegrino calca il sentiero dell’uscita da sé, dell’esodo, incontra il mondo, è travolto dall’umile bellezza, e s’interroga nel silenzio del cuore: Ma questa cosa qui, avrà un signore? La risposta erompe luminosa e sonora: il Creatore si sporge, annuncia: Io sono; Sì, sono io.
La storia può essere letta diversamente. L’espressione che abbiamo reso con “castello splendente”, può significare altresì: “castello in fiamme”.[2] Abramo scorge un castello in fiamme lungo la via. Pieno di sgomento, si chiede: “Ma un simile castello, avrà un signore, qualcuno che ne risponda, qualcuno che possa proteggerlo e salvarlo?”. Un re si affaccia fra le lingue di fuoco, dichiara con inconcepibile maestà: “Sono Io il signore del castello che brucia”. Il castello sta bruciando, ma ha un Signore. Il mondo è in pericolo: Chi l’ha voluto e plasmato lo difende, con inconcussa risolutezza feudale, con una fermezza che sembra arrestare, per un attimo eterno, le terribili fiamme. Ma che ne sarà del padrone del castello, del Signore del mondo? La sua presenza deve consolare Abramo, o non, piuttosto, spezzarlo? Col cuore spezzato, il nomade di Charran aggiogherà moltitudini, genererà una stirpe di fiammeggiante, luminosa miseria, sarà il re dei mendicanti di Dio.
Nell’oscillare di questa anfibolia – castello splendente, castello in fiamme – si dischiude, come un unico respiro, tutto il tempo fra l’Alfa e l’Omega, fra il Bereshìt e il Maranathà.[3]
Una ragazza, una ventenne, che immaginiamo leggera e tempestosa come certe mirabili creature del romanzo russo, di radici e di terra italiana, ma tutta percorsa dalle linfe della patria più vasta, l’Europa, camminava attenta e decisa sul sentiero della sua giovinezza, giusto all’inizio degli anni Quaranta del secolo appena passato; quando scorse un vecchio, nobilissimo castello, aggredito da un incendio che già ne sfigurava ogni splendore, e ne minacciava, con tutta evidenza, anche la non più robusta struttura. Qualcuno avrebbe potuto trovare sublime l’orrendo spettacolo: del resto, molto, nell’aspetto dell’edificio, lasciava credere che fosse abbandonato da secoli, e allora di cosa doveva rispondere lo spettatore, se non del proprio intimissimo disagio? Ma la ragazza, i cui occhi limpidi, prensili quasi, non sapevano trascurare alcun dettaglio di quello sfacelo, fu interpellata, raggiunta, ferita: e la ferita appena aperta nel cuore sembrava cercar di vedere, come un occhio velato, e ancor più esatto e doloroso degli altri due. L’occhio del cuore interrogò, ripetendo il padre Abramo: “Ci sarà un signore di questo castello? E vi abita ancora? E chi è?”. Si affacciò qualcosa, qualcuno: tutto sembrava, sulle prime, tranne che un re. Era uno, illeso dal fuoco, forse, ma più ferito del cuore della giovinetta, e di qualunque altro cuore. Pareva lo avessero ridotto così per qualche scherzo funesto, di quelli che sul momento si accettano, ma perché già si sente la muta fatica che costerà serbarne il ricordo. Nulla era maestà in lui, fuorché un certo lampo, indicibile, nello sguardo: dunque, in un certo senso, era tutto maestà, ma in che modo! “Io sono il signore del castello”. Elena, la ragazza, gli credette, e le sembrò di non poter fare altrimenti.
Da quel giorno Elena capì che, se il castello era il mondo, e più in particolare quella grande immagine del mondo che è l’Europa, il Signore piagato e imperioso non era solo fra le sue mura e le sue fiamme: tutti vi siamo con lui; come lui stesso aveva annunciato, e promesso, duemila anni fa, prima di sottrarsi agli occhi del corpo e al loro già forte dolore. La giovinetta dal passo tempestoso e alato iniziava così a cercare, con cuore spezzato e veggente, i lineamenti di quel Volto in tutti i volti, agl’incroci delle strade degli uomini, castellani che per lo più non avevano visto e continuavano a non vedere, figli di re il cui segreto dolore attendeva la benedizione di parole nuove, inflessibili, giuste e misericordiose.
La ragazza Elena avrebbe conservato la freschezza del sorriso e dell’incedere, perché nel digiuno e nell’attesa – è scritto – bisogna ungersi la testa e lavarsi la faccia,[4] come per una festa tra fratelli.

Non ricordo con precisione come arrivai ad incontrare, pellegrino infinitamente meno avventuroso, questa parola di benedizione. Forse è così di molti eventi destinati, segnati da un’unghia misteriosa e più intima di ciò che è familiare: nell’infittirsi della trama un dettaglio fa solo increspare le acque del cuore, ma sul fondo è stato deposto qualcosa, che ci ha già modificati, con un trasalimento segreto che solo il futuro sdipanarsi dei giorni vedrà albeggiare nella coscienza.
Era stata appena pubblicata l’antologia Novecento letterario italiano ed europeo (Città Nuova, 2002),[5] due volumi di cospicua mole e tuttavia di aspetto stranamente lieve, quasi avventato, in cui il critico e poeta Giovanni Casoli rileggeva e rinarrava la cultura del “secolo breve”, molto espungendo e molto interpolando rispetto alla vulgata accademica, fino a portarne alla luce il meraviglioso e drammatico disegno, la cifra di un aggrovigliato tappeto. Ero stato felice, fino allo spavento, di scrivere alcune pagine per quel lavoro: Casoli era stato mio insegnante al liceo – ma il verbo al passato serve solo per fare un po’di cronaca minima; egli è insegnante, in un incondizionato presente. Sfogliando i volumoni freschi di stampa, fra i molti giganti che non avevo mai incontrato (per non aver mai alzato lo sguardo), trovai il ritratto e il florilegio di Elena Bono. Morte di Adamo! Bastava per provare ad entrare. Una musica di pensiero, scura e vigorosa come certi paesaggi, molto ricchi, ai primi istanti dell’aurora, mi trascinò e guidò insieme, sebbene non vedessi dove. Casoli mi prestò la raccolta intera, che aveva il titolo di quell’immenso racconto; gli chiesi inoltre, fra le altre opere di lei che aveva in biblioteca, un breve atto unico su Giovanna d’Arco, La grande e la piccola morte. Difficile da spiegare: la Pulzella mi aveva sempre turbato, mai davvero conquistato; il film di Dreyer e il mistero di Péguy mi avevano sconvolto, non illuminato. Dopo mezz’ora di lettura (la pièce non esige, apparentemente, di più), mi resi conto d’aver sfiorato una delle più vive, lancinanti ed esatte esperienze del Male che avesse attraversato un cuore umano, in quel Novecento che, per averne troppo sorbito, così spesso se ne era ritratto, proteggendosi con parole smisurate. Qui invece un paio di dialoghi teatrali, in un italiano allo zenit della sua fecondità, ben coltivato e nutrito di studi e di silenzi, porgono l’insostenibile con lo stesso straziante equilibrio – così sentivo – della tragedia attica: ma nell’asse incrollabile di una spirale di luce più inquieta e più maestosa, come la proiezione infinita di uno scandalo che non può essere accettato, eppure è stato accettato nella Gloria. Percepivo tutto questo nel mio corpo: poi si mosse, beneficato, il pensiero. Non feci altro che buttare giù, per gratitudine, alcune annotazioni, che spedii a Casoli. La mezza paginetta fu girata poi ad Elena Bono, che mi rispose. Da allora, fui inondato, a mezzo posta, di tutti i suoi libri: un ciclone di grazia da cui ancora non mi sono riavuto.

Una grande novità, specialmente per l’Italia, è la peculiarità dello stile di Elena Bono, l’efficacia della sua parola. Mi capita spesso di fare il nome di Dioniso: accostamento che può suonare decadente, laddove la musica e le idee di Elena Bono sottopongono i pur ricorrenti temi da finis Europae ad una risoluta purgazione, da cui escono irreversibilmente mutati, piegati ad una mèta, piagati di verità umana. Parlo di Dioniso perché la parola della Bono coinvolge e provoca innanzitutto i sensi: la sua ricchezza dà gioia, senza dubbio, ma la gioia più difficile è quella che albeggia anzitutto dalla vocazione probatica, iniziatica della sua scrittura, teatrale, narrativa e lirica. I sensi si accendono, e accendono il pensiero, che si affaccia al mondo e alla storia più umile e quindi più audace: caldo e illuminato, cordiale. Il sorriso di una saggezza ferita, quasi il ritorno inatteso, in un mirabile italiano pluridialettale (scherzosamente e seriamente designato da qualcuno come “bonese”), di certi maestosi mužiki e stranniki tolstojani e dostoevskiani, spunta immancabile eppur miracoloso in tutte le sue opere: un resto d’Isaia che porta nel cuore lo stigma del Servo sofferente, e sul viso un barbaglio della sua ancor più segreta festa. I sensi si aprono uno dopo l’altro, come al tatto penetrante di un olio liturgico, e prendono un coraggio sottile, il coraggio di sentire il creato così com’è. La memoria torna al Sentire e meditar, il sobrio e indimenticato lascito dell’Imbonati al giovane Manzoni, raccolto da una manzoniana italiana di robusto respiro europeo (i migliori russi, tedeschi e francesi rivivono in lei); ma anche alla “grazia violenta” eschilea, all’apollineo riserbo con cui Sofocle spalancava abissi. Una parola integra, che dice tutto l’uomo – cioè l’uomo nella sua povertà sostanziata da Dio nel fratello; e che procede da un’integrità di vita e di relazioni che merita qualche, spero giusto e pudico, cenno.
Ciò che trovo nella pagina di Elena Bono è parte di ciò che mi viene donato dalla presenza stessa di Elena Bono: dalla sua conversazione, dalla sua ospitalità, dalla sua capacità, davvero irresistibile, di intrecciare amicizia. È raro, nel corso di un’intera esistenza, sentirsi pienamente liberi al cospetto di qualcuno, specialmente se la sua grandezza ci tenta a ripiegarci sui nostri limiti, a proteggerci per carpire: ebbene, parlare con questa donna così intimamente segnata dalla Parola è sprigionamento del respiro, è petto dilatato, il disegnarsi di uno spazio in cui è dato abitare. Si ha la sperimentale certezza che questa donna, avendo accettato e amato l’uomo totale, l’uomo nella sua tragica e promettente verità, ora accoglie te, con carità insieme delicata e inesorabile.
A questo punto non stupisce, ma accora, che un’opera così affabile e necessaria sia stata occultata, in questa lunga finis Italiae. La trilogia Uomo e Superuomo, ferma e quasi inchiodata, nonostante la sua vastità, ai pochi anni del Novecento in cui si levò all’orizzonte uno dei volti più orribilmente familiari del Male, il nazifascismo, impone al lettore un fardello profetico del quale potrebbe non sgravarsi mai più. Nell’oracolo del Silenzio di Isaia, la sentinella, interrogata sul punto della notte, risponde: “È venuto il mattino, ed anche la notte”.[6] Dopo Hiroshima, l’Occidente e, in esso, il mondo intero, si è avvolto in un mantello come Maometto dopo la visione: ma tremava così forte, che di lì a poco il sussulto gli sembrò un nuovo di tipo di quiete, non propriamente vivibile eppure, in certo modo, durabile. Non capì, come tutti i sopravvissuti impuri, che la magia del disastro avvince col suo stesso scandalo, facendo torcere lo sguardo. Il fardello che la trilogia impone è quello della semplice verità del Nazismo: apocalissi della storia europea e di tutti i suoi archetipi, il suo atroce tiaso di fantasmi portava, alto sulle teste, un nero sole di contagio insolito, un male del male, una ben distillata quintessenza che mirava, oltre ogni stentorea deplorazione, a farsi silenziosamente amare. Elena Bono ci racconta il Ventennio, la Resistenza, le SS Totenkopf, riconsegnandoli a una memoria più vera, alla crocifissa trama della storia profetica: questo siamo noi; oggi. “Se volete domandare, domandate: ritornate, venite”.[7] È proprio ciò di cui ha fame la nostra anima: e proprio per questo il simposio delle lettere, nell’Italia che si vuole repubblicana e antifascista, non ha scritto il nome di Elena Bono sull’invito.
Ma a un solido nutrimento è ancora invitato chi voglia digiunare dal lievito stanco del postmoderno, dagli amari o compiaciuti giochi sull’orlo dell’abisso: troverà un pane di luce, da spartire in fraterno dolore e in sostanziosa gratitudine. Chiunque intraveda, mettendosi sulla traccia di deserto del padre Abramo, il castello splendente che è anche il castello in fiamme, e provi un muto sgomento sulla soglia del domandare, sappia che una giovinetta ha visto, ha interrogato, e ha proseguito la strada con una nuda certezza in fondo all’occhio del cuore: il castello sta bruciando, ma ha un Signore.


Note:

[1] La storia è un midrash riportato nel Bereshìth Rabbah (XXXIX), grande raccolta di midrashìm al libro della Genesi.
[2] Biràh dolèketh, che in ebraico ha appunto entrambi i significati.
[3] Bereshìth, “In principio”, è l’inizio del libro della Genesi e il suo titolo ebraico: Maràna-thà (aramaico: “Signore nostro, vieni!”) è l’invocazione che, tradotta in greco, chiude l’Apocalisse di Giovanni (22,20).
[4] Cfr Mt 6,17.
[5] Le pagine su E.B. sono nel secondo vol., pagg. 67-87.
[6] Is 21,12.
[7] Ibid.

mercoledì 13 ottobre 2010

Appunti dell’uomo di campagna davanti alla porta della Legge: Appendice I (ermetica-psicologica)/7


La communicatio della Testa e del Corpo implica e genera un chiddush inesauribile, per cui negli otri vecchi il vino chiede sempre di rinnovarsi fremendo in pienezza di pace. Gesù prende su di sé da innocente i mali volontari delle Sue membra: ma Gesù assume anche, se è lecito dirlo, il male volontario redimendolo nell’abbraccio (Egli è anche adottato, è anche il Maestro della teshuvah, della metanoia: il Figlio Prodigo è ancora Lui). È imputato di tutto ciò che il Corpo, in quanto corpo, farà senza esserne accusato, perché lo avrà ricevuto: Egli ‘si divinizza’, si spoglia dell’umiltà dei commentatori-soferìm e anche dell’annichilimento mistico di al-Hallaj ed Eckhart, prende su di sé l’autorità divina come prende la corona di spine, l’autorità che ferisce solo la Testa. Perché?
Elia Benamozegh non è convincente quando accosta Gesù, hapax di luce e potenza, allo pseudomessia Shabbatai Tzevì, hapax di follia turlupinesca, di gnosi estremistica, antinomistica: e tuttavia l’accostamento può illuminare l’essenza della Rivelazione. Il Rosh (Testa), il Qutb (Polo, nel sufismo) è sollevato dalla legge essoterica, cemento comunitario, gestione umile (in profondità ipocrita ed idolatrica) del divenire, del tempo intermedio tra archè ed eschaton. Egli sconta in sé il tratto paterno, paranoide-folle, della trasmissione esoterica: lo accetta, ma accetta anche l’inizio dell’inganno, la misericordia-illusione (1) per cui l’archè profetica non può essere ulteriormente letta in trasparenza. Per superare l’incestuosità idolatrica-psichica (ed ecclesiastica), oportet che il mito originario non sia visto come mito: ciò è fondamentalismo dalla prospettiva di Psiche, ma dalla prospettiva del Rosh è verità-inganno, conoscenza-compassione; è il grido-lacerazione-errore dell’archè riorientato in direzione messianica, liberatrice (divenuto cioè beatrix culpa). Quindi, nonostante l’ingenuità “ipocrita” di Benamozegh, il nesso tra Rivelazione ed Incarnazione è originario, non è un’“eresia” cristiana: la follia di fronte alla Sapienza del mondo (delle genti), un mito che non è un mito, una “autoallucinazione” per disincantarsi dalla Caduta, il timore come preliminare accettazione dell’ignoranza, la lettera come corpo oscuro dell’Avversario-Dio di Giacobbe-Israele.
Nel Cristianesimo questo punto deve restare sempre esoterico non solo per la conservazione della Chiesa (che Cristo non considerò, e così scagionò il Corpo), ma anche perché il letteralismo-fondamentalismo preliminare è pietra di fondamento di una comunità credente. Non c’è Israele, Colui-che-lotta-con-Dio, non c’è fede, senza questo scoglio: e la fede è inizio di tutto perché la mèta è il Corpo Divino, la Resurrezione, lo Hen-kai-Pollà incarnato.
L’allucinazione dell’Evento è ciò che nello zen è il koan: ciò che pone sulla pelle una verità corporea, un corpo spirituale, che deve penetrare, internarsi, realizzare l’unione, la theosis.

Note


1) Nel Buddhismo Mahayana c’è questa forte consapevolezza: il legame tra Compassione (karuna) ed illusione in senso metafisico. Anche un midrash sulla creazione dell’uomo sembra implicarlo: gli angeli Verità e Giustizia protestavano, perché l’Adamo sarebbe stato menzognero ed ingiusto. Allora Dio, cosa fece? Afferrò la Verità e la gettò in terra.

martedì 12 ottobre 2010

Appunti dell'uomo di campagna davanti alla porta della Legge/6


Chet

È intimo, e difficile da afferrare, il rapporto tra Spirito e disperazione, limite – l’estremo, l’eschaton. Lo Spirito è prossimo alla morte, ha a che fare con la morte.
L’uomo, lo sradicato fra i viventi, l’unico colpevole, fatto a immagine di Dio. L’uomo deinotaton (Sofocle), l’uomo zôon logon echon perché il logos stesso, portato dallo Spirito e da cui, in unione con l’Archè, lo Spirito procede, è diexodos, rottura, domanda. Il logos è il discorso intricato e unitario, il racconto, l’oracolo in quanto aperto al commento e alla realizzazione, l’enigma come segno del mistero, la tensione tra davar-annuncio e davar-cosa (nella lingua sacra, davar è la parola che pronuncia l’evento e l’evento stesso che avviene perché pronunciato): è la tragedia, è la Croce; è il presente storico. La tragedia è aperta nel logos, la Croce nello Spirito: la prima congiunge dionisiacamente, e dionisiacamente strazia, attraverso il semainein (Eraclito), la parola apollinea dell’oracolo; la seconda dona la primizia dell’unione, del Pneuma, attraverso la coesistenza lacerata, in Gesù, di segno e realtà, di fede e scienza, di annuncio e compimento (di uomo e Dio). Sulla scena tragica l’esibizione prolunga nel popolo “spettatore” il pathos oscuro, oracolare-e-mimetico, dell’eroe straziato; sul Golgotha, la scena dello strazio offre lo Spirito perché il logos è incarnato nel patiens, che sa e soffre, che è divinamente attivo e creaturalmente smarrito. La tragedia, logofora (come la profezia, cristofora), si fa dionisiacamente intima nel Crocifisso, si interna esplodendo in segno supremo e scandalo perfetto, e aprendosi al segno ultimo della Resurrezione è pneumatofora. La Croce, estremizzando la tensione tra mythos e logos, è un nec ulterius, un trauma dell’essere, un giudizio, dopo non si può che attendere e basta, dopo è lo ʽeth mashiach, il tempo del Messia, cioè, secondo un rabbino contemporaneo, il tempo in cui è dato attendere il Messia, anzi, in cui non resta altro.
Lo Spirito è prossimo alla morte, ha a che fare con la morte.