Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 12 dicembre 2011

Alcune e-mail politiche inviate ad un caro amico


Hai mai letto Lao-tzu (oggi si traslittera Lao-zi)? I suoi enigmatici aforismi sono stati utilizzati da tutte le scuole filosofiche e politiche della storia cinese, al di là dei contrasti ermeneutici spesso irriducibili: ma è forse possibile estrarne una quintessenza, un fondamento comune alle interpretazioni a volte opposte. Il popolo non può essere governato, si governa da sé: segue le consuetudini, è un’aggregazione di comunità piccolissime che non hanno desiderio di espandersi o conoscersi reciprocamente, non bisogna proporgli grandi premi o minacciarlo di grandi punizioni, non è opportuno esaltare la grandezza e la virtù; la sua vita scorre anonima, il suo radicamento va lasciato essere, non manipolato dall’alto, dall’ideologia di una élite. Eppure il perno del discorso di Lao-zi resta l’Impero: l’impero però non è lo stato, il centro esibito di una compagine, la fonte luminosa accecante che si fa via via più fioca verso la periferia. No, l’impero è un centro invisibile, un magnete simbolico: Lao-zi lo paragona ai vasi sacri dei riti, non lo puoi usare, non lo puoi manipolare. Né l’impero usa e manipola il popolo: lo lascia vivere, e così facendo lo governa, come il mozzo vuoto è il centro dinamico della ruota.
Perché ti parlo di questo strano rebis orientale, mezzo imperiale e mezzo anarchico? Perché mi pare che racchiuda alcuni spunti per ripensare l’anarchia nel senso di Ellul e di tutti gli anarchici non ideologici. Lo Stato non coincide con la convivenza umana: è un’invenzione che ha una storia, probabilmente è anche un male necessario. Male, ma necessario. Ammettiamolo. La convivenza umana non è un’aggregazione di individui, un universale astratto che mette insieme degli esseri concreti: è qualcosa di essenzialmente culturale, appartiene radicalmente all’uomo come animale simbolico prima che politico. L’homo sapiens non può mangiare neanche una noce senza inserire il suo gesto in un contesto simbolico, cioè culturale, cioè sociale-comunitario. Quindi, la dimensione sociale-comunitaria esiste da sempre (almeno, da quando c’è l’uomo): lo Stato no. Lo Stato è esso stesso un’invenzione culturale, ma appartiene più alla storia della tecnica che a quella della cultura: è un modo per gestire forme di convivenza complesse e nasce dalla guerra, dall’esigenza di tenere insieme più gruppi e comunità conquistati da uno stesso signore o clan. Sorge così la politica come tecnica di gestione: mentre l’istinto politico-associativo in senso forte, come ti dicevo, è coetaneo dell’homo sapiens.
Lo Stato è un po’ come i vestiti: non sapremo mai se li abbiamo inventati perché avevamo freddo o se abbiamo freddo perché li abbiamo inventati (l’uovo e la gallina): quel che è certo è che segnano la nostra ambigua distanza da una (immaginata) condizione primordiale. La cultura è un po’ come il corpo: cambia nei millenni, ma cambia persino meno, visto che i miti del 10000 a.C. reggeranno le vicende degli uomini anche nell’apocalittico (per te) 2050 d.C. La cultura del ‘politico’, la cultura della società, funziona sempre nel concreto, quasi seguendo proporzioni pitagoriche: oltre certi numeri non ha più senso, come la struttura del corpo animale. Per questo la società, le società, le confraternite, i gruppi etc. non si estenderanno mai fino a coincidere con l’intera massa di uomini viventi sotto un unico potere statale (figuriamoci con l’umanità intera). Questo profeti ed esoteristi lo sanno, ma non razionalizzano: di qui il messianismo dei primi e la scepsi dolorosa e illuminata dei secondi. Cercare di costruire la comunità perfetta è l’errore-crimine degli utopisti ideologici: la comunità non si può costruire, non è un vestito, è un corpo. Nasce, non è prodotta: è il vaso sacro di Lao-zi, non il vaso che usiamo per le faccende domestiche.
Ma la violenza, i crimini? Ma la polizia? In teoria se ne potrebbe fare a meno, come dei vestiti: un uomo ben allenato potrebbe magari vivere nudo sulle nevi dell’Himalaya, fondare una comunità nudista, d’accordo; ma è difficile pensare che possa trascinare con sé sei miliardi di persone. In pratica, la violenza del governo è ineliminabile come la violenza dei governati: abbiamo bisogno dei vestiti, anzi dell’armatura. Ma questo dice qualcosa di definitivo contro l’ideale di comunità libere dalla coercizione e dallo Stato? Un ideale dev’essere o irrealizzabile e quindi da scartare come una fantasticheria o realizzabile e quindi da realizzare per forza, negando se stesso? Non credo: se leggiamo i testi e le immagini antiche secondo molti livelli, perché non dovremmo farlo con la vita quotidiana, che è il libro dei libri? Noi camminiamo su una corda: questo è l’uomo, la cultura, il simbolo; non abbiamo i piedi per terra. Tutto ciò che siamo e facciamo è imperfetto. Qualunque democrazia, diretta o rappresentativa, è soggetta agli stessi rischi di qualunque altro regime: anzi, a rischi molto maggiori.
Immagino un’obiezione: Va bene, questi anarchici messianici o saggi accettano lo Stato come Platone accettava di vivere in un corpo; ma all’interno della comunità anarchica come si comportano con le violenze e gli altri difetti umani, in mancanza di poliziotti e tribunali? Risposta: mi sembra un problema mal posto. L’anarchico non è costretto a pensare, con Rousseau, che gli uomini siano naturalmente buoni: se anarchia significa questo, la condanno come una pericolosa follia. Ma né Ellul né gli altri miei eroi dicono una cosa simile. Nelle comunità bisognerebbe tendere all’ideale come si manifesta, ad esempio, in alcune regole monastiche: se penso all’altro non come a un associato in un ipotetico contratto collettivo, ma come a un fratello, in analogia con una vita familiare liberata da ogni condizionamento passionale (nevrotico), la sua prevaricazione mi farà soffrire molto di più, ma non mi verrà in mente di sanzionarla con una controreazione violenta. Se il fratello minaccia l’intera comunità con la sua ostinazione lo tratterò – in modo necessariamente imperfetto, umano – come si cerca di trattare un familiare che mette a rischio l’intera famiglia: con fermezza, ma in modo personale, flessibile, senza applicargli una norma astratta attraverso un potere delegato e impersonale (o incarnato nella persona simbolica del re-padre-pastore). Anche il più poetico amante della natura si difende dall’assalto di una tigre: ma evita di ucciderla per partito preso, se non è inevitabile. È un parametro ovviamente incodificabile, oscillante: ognuno può vederci ciò che vuole, e questo è un rischio. Ma è il rischio della convivenza umana.

Cerco di spiegarmi altrimenti. Io ritengo la nonviolenza, in quanto principio astratto, irrealizzabile e assurda. È una questione analoga alla seguente: “È doveroso attenersi al vegetarianismo?”. Rispondo di no. Se poi tu concludi: “Allora possiamo mangiare carne tranquillamente”, io mi sento di obiettare: Amico, questo è un paralogismo. Non possiamo dimenticare che cosa facciamo agli animali nei nostri mattatoi (e alle piante con le nostre colture): non possiamo dimenticare che non siamo cacciatori-raccoglitori del Neolitico. Ora, questo discorso sembra una chiosa teorica, perché non ha apparentemente ricadute pratiche. Ma non è così: appartiene a una terra di mezzo tra l’ingegneria politica e la speculazione astratta; appartiene alla dimensione culturale-politica, quella dell’agorà nel senso greco del termine. Torniamo alla cosiddetta “nonviolenza”. Simone Weil, che si era accostata all’ahimsa come ideale del pensiero religioso indiano e come teoria e pratica politica del movimento di Gandhi, criticando un responso del Mahatma fece un’osservazione importante: “La nonviolenza non serve a nulla se non è efficace”. Niente ideologia: eppure Simone Weil, di fronte alla violenza, aveva la sensibilità e la visione di una catara.
Il mio discorso voleva essere un discorso culturale, non di ingegneria politica. Ovviamente un certo uso della forza, fisica o psicologica, magari limitandola per quanto possibile al suo ruolo di deterrente, è ineliminabile dalla convivenza umana concreta. Non pertanto accetterò questa conclusione del sillogismo: “Dunque teniamoci la polizia, non abbiamo scelta”. No, io non sto parlando di ricette politiche, come non sto parlando di una morale universale, kantiana: non sto proponendo di organizzare ronde o di riabilitare la vendetta individuale o di gruppo. “Allora cosa stai facendo? Cosa proponi?”. Propongo di fare l’esperienza di comunità in cui l’uso della forza sia sottoposto a un’attenzione continua, ascetica. In un rapporto d’amicizia, ad esempio, viviamo una forma di equilibrio e libertà impossibile in un rapporto erotico, in un rapporto contrattuale e in un rapporto mediato da organi statali. Perché non intendere questo rapporto, secondo la metafora sapienziale evangelica, come lievito della pasta sociale? Senza pretendere che la pagnotta si gonfi quando vogliamo noi: senza sperare in risultati. Questa è la cultura: questa è la politica intesa come manifestazione dell’istinto politico innato, animale (l’uomo come animale politico). Non a caso, per greci, latini e indiani (ma anche ebrei, musulmani...), ogni comunità, ogni cultura, si fonda sull’amicizia: perché solo nell’amicizia l’everyman sperimenta quella libertà. Per questo i pitagorici dicevano che l’amicizia è un’uguaglianza armonica (non aritmetica: un’uguaglianza di rapporti, non un’omologazione reciproca).
Bene, se leggi Ellul, Illich e Castoriadis (ti cito i tre che preferisco, e sono molto diversi tra di loro), trovi qualcosa di simile. Niente ingegneria politica, niente ricette: ma l’alternativa non è la passività o il terrorismo o la speculazione pura. Forse, anche stavolta, siamo più d’accordo di quanto non sembri: forse la tua democrazia diretta non è dissimile dalla mia anarchia solidaristica o partecipativa. Entrambe le denominazioni hanno i loro punti di forza e i loro punti deboli, come ogni denominazione: dire ‘democrazia diretta’ esclude che si tratti di un caos atomistico, ma dire ‘anarchia partecipativa’ vuole indicare che ci sono istituzioni della democrazia rappresentativa che ostacolano la democrazia diretta e istituzioni della democrazia diretta che non esistono, se non svuotate di senso (vedi il referendum), nella democrazia parlamentare o rappresentativa.

Rispondo brevemente alle tue obiezioni:
1 – Non vorrei fare l’elogio delle milizie popolari, visto l’uso strumentale che ne hanno fatto i totalitarismi, ma la delega della violenza difensiva a un corpo speciale non è una buona soluzione: anche perché è un sintomo della stessa malattia della democrazia che ha finito per delegare la funzione governativa ad appositi esperti. Aristotele diceva che buon cittadino è quello che sa sia essere governato che governare: questo è l’ideale democratico classico. Uno dei corollari è che la democrazia diretta è una democrazia militante, in armi, anche se idealmente solo per fini difensivi.
2 – Se la delega dell’uso della forza immediata a un corpo speciale può essere discussa, la delega del potere giudiziario a una casta di magistrati è contraria allo spirito democratico, che prevedeva una rotazione delle cariche per sorteggio. Ciò implica che il cittadino sia davvero “libero” e autosufficiente nel senso antico, e non un suddito o un bambino ignorante: e ciò a sua volta implica la paideia, cioè una cultura civile. (Questo spiega perché oggi la democrazia diretta, restando così le cose, è impensabile).
3 – Io utilizzavo l’immagine cristiana della correzione fraterna, ma la questione non cambia, tanto più che, nonostante il monito di Gesù, i cristiani chiamavano “padri” i superiori dei cenobi, i vescovi e in generale i “pastori” del “gregge”. C’è sicuramente un elemento di forza e coercizione nel rapporto tra superiore e inferiore, cioè tra iniziatore e iniziando, visto che quest’ultimo non conosce la meta e il primo sì: ma proprio per questo l’iniziatore si carica del peso della forza, e anche dell’inganno, e lo fa esclusivamente per far arrivare il “figlio” dove lui (en principe) è già. Più che un deterrente psicologico, così, la forza, l’imposizione etc. diventano – possono diventare – uno strumento di fraternità: “tu puoi arrivare qui dove sono io perché in fondo già ci sei”. Senza questo “segreto” d’amore, è un gioco al massacro reciproco.
Non esistono, ripeto, né ricette, né una morale universale. Lo dice Paolo nel passo forse più nietzschiano e terribile del Nuovo Testamento: “Tutto mi è lecito: ma non tutto mi giova”. Dipende da dove vogliamo andare: la spiritualità è amorale, pragmatica.

Alla maniera degli ebrei, ti rispondo con una domanda: tu cosa faresti se tuo figlio, se tuo fratello si macchiasse dei crimini di cui parli? Lo puniresti, certo: ma con lo stesso spirito con cui si punisce un estraneo a cui si è legati da un contratto sociale? E allora avrebbe senso dire che si tratta dello stesso universale, “punizione”, in due delle sue forme particolari? “Ma che il cittadino-magistrato corregga il reo con affetto e misura, o che imponga di squartarlo con teatrale lentezza, sempre di PUNIZIONE si tratta”. D’accordo: proviamoci, e vedremo se è davvero lo stesso. Gesù ha consigliato di usare la moneta romana, il denario, solo per pagare il tributo a Cesare, in modo da restituirla a colui che l’aveva coniata: c’è qualcuno che ci ha provato? Se lo facesse una comunità intera, di media grandezza, potrebbe crollare tutta un’economia mercantilista o capitalista. Cosimo de’ Medici diceva che non si governa “co’ paternostri”: ci aveva provato?
Non so se mi spiego: forse non molto bene. Inizia a pensare il delitto e il delinquente in modo diverso: chi sono io? Chi è lui? Un personaggio di Dostoevskij dice che “ciascuno di noi è colpevole di fronte a tutti per ogni cosa”: proviamo a darlo per buono solo un attimo. “Ma uno non può vivere una vita normale se pensa una cosa simile”. Perché? Siamo nati per vivere una vita normale? Che cos’è una vita normale: bruciare gli eretici, arrotare i banditi, respirare smog con nonchalance, andare a votare i partiti politici nel 2010, ricoprirsi di gadget e vagare come spettri tra spot e rifiuti nel 2050? I cambiamenti politici, giuridici, tecnici etc. – insomma, tutto ciò che è pratico – sono sempre stati la conseguenza di ideali impossibili sperimentati in una, in due, in cento vite quotidiane.

Continuiamo a parlare due linguaggi diversi. Io non sto facendo un discorso contro la polizia e lo stato come struttura che garantisce ordine e difesa: sto proponendo di fare esperienze marginali che aiutino a vedere le fondamenta dello stato in trasparenza. Non mi sogno di dire, ex abrupto: fate a meno della polizia, della magistratura etc., perché una volta che le persone hanno accettato di convivere a un certo patto, in un certo modo, l’ordine e la sicurezza non possono che essere garantiti in un certo modo e a un certo patto. Per tornare all’analogia col consumo di carne: se dico: “Bisognerebbe tornare a un modo diverso di macellare, i mattatoi di oggi sono lager, anestetizzano nei confronti della violenza che facciamo agli animali”, uno potrebbe obiettarmi: “Ma come potresti garantire tutta la carne richiesta senza far uso di strutture fortemente meccanizzate etc.?”. E continueremmo a dialogare tra sordi, come io e te da giorni. Ma la chiave di questa reciproca incomprensione è il livello diverso dei nostri discorsi: il mio ipotetico interlocutore parla di “carne richiesta”; certo, se il sistema nel suo insieme rimane inalterato, è normale e necessario che restino inalterate le sue componenti, i suoi dettagli. Ora, il mio suggerimento va proprio nella direzione opposta, ma senza intervento politico diretto: mettere in discussione ciò che sembra naturale e scontato, mostrare con uno stile di vita particolare che lo stato come lo intendiamo noi oggi non è un fatto di natura, ma un atto storico, magari al momento inevitabile e insuperabile – o magari per sempre, chi lo sa. Non metto in discussione che un corpo comunitario, come qualsiasi corpo vivente, abbia la necessità di usare la forza per difendersi dalla violenza esterna: quest’uso della forza non è neanche violento, è una conseguenza dell’individuazione animale. Non metto neanche in discussione che la comunità debba difendersi dalla violenza, dalla violazione interna usando non le armi di Marte ma quelle di Atena: il procedimento giudiziario, la cui origine magica e ordalica non verrà mai completamente bonificata dalle istanze razionali (e infatti le Erinni hanno un posto, un posto ambiguamente onorato, nella democrazia). Quello che dico è: siamo sicuri di ricordarci perché abbiamo fatto questi passi? Siamo sicuri che questo equivalga a dire che esiste un centro del potere e della forza deputato a garantire sicurezza e ordine al corpo sociale? Non è questo un modo per deresponsabilizzare sempre di più l’uomo libero facendone un suddito? Certo che tutti vogliamo che lo stupratore e l’avvelenatore di pozzi vengano smascherati, privati della libertà di infliggere il male, sottoposti a giudizio: ma lo vogliamo solo per la sicurezza, per l’ordine? Una volta punito il reo, la ferita inferta al vivo tessuto comunitario è ancora aperta? Il reo non è una mela marcia da gettare via, è un fratello, carne della mia carne, che ha stuprato mia, sua sorella, che ha avvelenato il pozzo dei suoi, dei nostri padri. Se intendiamo la giustizia come semplice igiene sociale delegata a un centro statale, non ci riempiamo di rifiuti psichici come il mondo del Golem di rifiuti tecnologici? Questo dico: e non lo dico io, è l’argomento delle tragedie attiche, dei romanzi ottocenteschi. Non chiedo l’abolizione della polizia e della magistratura professionale: chiedo di provare a pensare le cose in modo diverso; e l’unico modo per farlo è sperimentare, per quanto possibile, una forma di vita comunitaria in cui il bisogno di riparazione, di sicurezza, di vendetta sia sottoposto a una continua revisione spirituale, come in un matrimonio, come in una famiglia, dove i problemi non ti spingono a cercare soluzioni finali chirurgiche ma a rinnovare quotidianamente il senso del legame originario. Lo so che Foucault non ti piace, ma anche lui fa un’operazione simile alla mia riguardo al sistema disciplinare moderno: non dice “aboliamo la detenzione come unica forma di sanzione democratica”, ma: com’è nata a un certo punto l’idea che i delitti potessero essere puniti solo imprigionando il reo e che il controllo sociale fosse la condizione necessaria per l’armonia civile, per una convivenza pacifica? Un’idea che non c’era nel 1500, che non c’era ai tempi di Alessandro Magno o di Assurbanipal, nonostante la loro politica già imperialistica e asservitrice.
Detto questo, io sono l’unico del mio condominio che ha chiamato i carabinieri per segnalare un violento litigio nella palazzina di fronte, litigio in cui si minacciavano coltellate e spargimenti di sangue. Non sono un anarchico da centro sociale, nonostante le brutalità poliziesche non ho mai detto scemenze come “la polizia è fascista”. Penso che la questione sia molto più profonda e radicale, e vada quindi affrontata a quel livello di radicalità e profondità. Penso che la saggezza sia inseparabile da un certo anarchismo intelligente: quello che fa ad esempio dire a Collodi che il derubato finirà necessariamente in galera e poi, per ottenere l’amnistia, dovrà farsi passare orgogliosamente per delinquente. Tutto questo senza borbottare contro tribunali e polizia, o proiettare i propri infantilismi rivoluzionari in un futuro apocalittico sempre rimandato: ma dicendo: “Bisogna restituire a Cesare ciò che è di Cesare”. Restituire, non dare, nelle parole di Gesù.

Immagina una comunità simile a quella radicale da te immaginata, che però non abbia neanche un fine politico in senso stretto, ma intenda solo testimoniare il proprio stile di vita, sperando in un contagio progressivo all’interno del popolo. C’è chi caccia, chi coltiva: c’è divisione del lavoro, ma ridotta all’indispensabile. Ci si difende dai pericoli esterni coinvolgendo il maggior numero di persone possibile. Si affrontano i pericoli interni convocando consigli, eventualmente con consultazioni separate se c’è qualche sospetto. Ecco, mi dirai, l’embrione dell’esercito, della magistratura, della polizia. Che cosa cambia? L’essenziale, direi. Non vedi la differenza tra una ronda del XV secolo e l’uso onnipervasivo della polizia che si fa dal XVII secolo più o meno, cioè dall’affermarsi dell’assolutismo? Sempre di polizia si tratta: eppure in un caso abbiamo azioni puntuali, nell’altro un sistema. Così lo spionaggio c’è dai tempi della teocrazia egizia e dei regni sumeri, ma una democrazia non può fondarsi sul segreto come nell’ideale massonico e nella Guerra Fredda. Da diversi secoli la polizia non serve ad arrestare lo stupratore, ma a garantire un ordine politico e ideologico: più o meno come l’atmosfera ecologista di uno spot di oggi non serve a farti diventare un seguace di Thoreau ma a farti comprare uno shampoo. Tra l’altro il fatto che il popolo senta come nemici principali gli stupratori, oggi i pedofili, i terroristi e i microcriminali stranieri mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come il sistema poliziesco (non la polizia tout court) tenga in piedi una baracca i cui tenebrosi burattinai non suscitano quasi mai l’orrore viscerale della folla.

Si conferma il mio sospetto: usiamo il nome ‘anarchia’ per realtà molto diverse. Per me l’anarchia non è uno stato senza stato, una sorta di adynaton messianico: è una forma politica in cui il rapporto tra società e stato è in proporzione opposta rispetto a come si è determinato negli ultimi secoli. Certo che il villaggio arcaico ha un capo, ma si tratta soprattutto di un primus inter pares, non di un autocrate che ha conquistato il potere: la comunità primitiva è un’assemblea di liberi, di uguali, come dimostrano i nomi dei popoli tradizionali, che alludono sempre a questa condizione di uguaglianza e libertà. Sono d’accordissimo con te quando parli della validità del paradigma ‘radicale’ solo per numeri contenuti (Aristotele diceva: da 10 a 10000 persone), ma questo potrebbe essere un ottimo argomento per la mia visione, che è una federazione di piccole comunità in cui dominano autonomia (darsi le proprie leggi) e autopraghia (agire in prima persona, limitando le deleghe al minimo). L’anarchia di cui parlo io, come ti ho scritto venti volte, è comunitaristica e solidaristica: potremmo dire basata sul mutualismo, su una forma di libera cooperazione il cui modello è l’amicizia, non il contratto impersonale che è il modello delle relazioni nel libero mercato e l’assistenza dell’inabile che è il modello delle relazioni nel Welfare degli stati parlamentari. Ripeto che non penso a un’abolizione della polizia, ma a una completa revisione del sistema poliziesco che è il sistema di controllo totalitario da molti decenni in auge. Non è una mia fissazione sovversiva o vagamente dandystica: si è capito da tempo che l’ossessione contemporanea per la sicurezza è una fonte di insicurezza permanente, si sia o no d’accordo con Foucault. Se poi vogliamo parlare ancora di nonviolenza, a me sembra che non vada intesa ideologicamente come l’astensione da ogni uso della forza, ma come il tipo di azione che garantisce i risultati culturali e sociali più duraturi: tutto il resto lascia un marchio, sulla pelle e poi nel cuore, ma non un’impronta feconda e quindi veramente umana. Mi auguro che tu non voglia confondere l’ahimsa e la nonviolenza con certe scenette sui quaccheri e gli Amish di cui abbondano le pellicole hollywoodiane e le barzellette dei cosiddetti realisti, ma ti so troppo intelligente per farlo.

Allora: un uomo entra nella mia casa di notte. Se ho il ragionevole sospetto che sia armato, cerco di ucciderlo; altrimenti, di immobilizzarlo. Qualcuno fa qualcosa di male a me o a una persona della mia famiglia o in generale a una persona della comunità: d’accordo con Hammurabi, Triboniano e Beccaria, penso sinceramente che vada punito per il suo bene, per il mio bene, per il bene di tutti. Se il reo non è stato colto e arrestato in flagrante, si fa una ricerca: consapevoli che l’esito di un procedimento giudiziario è da sempre incerto, perché si tratta di un duello narrativo, immaginale; quindi nessuno ha il diritto di riporre la propria fiducia in uno strumento così necessario eppure così fallibile. Se mi servono delle persone per queste ricerche, creerò un’istituzione, un corpo, ma piuttosto affine a una milizia civica che a una polizia professionale, proprio per evitare di pagare una supposta maggiore efficienza (tutta da dimostrare) con il pericolo sempre incombente di aver inventato uno strumento utile a qualsiasi disegno separato, e quindi anticomunitario. Mi pare di aver detto cose ispirate al mero buonsenso: secondo me potrebbero sottoscriverle almeno mille dei nostri antenati. Non so che senso abbia la democrazia se non è in perpetua vigilanza, una comunità di eguali che possono avvicendarsi nell’esercizio delle funzioni civiche (almeno per quanto è possibile), che sanno bene di potersi svegliare una mattina senza essersi nemmeno accorti di ritrovarsi in un’oligarchia mascherata. Questa perpetua vigilanza è anche una perpetua militanza: ciò richiede un rapporto diretto e personale con la maggior parte dei membri della comunità stessa; di qui il rischio della democrazia diretta, che da sempre è la miopia particolaristica, come nell’Atene classica, nei comuni medievali e nei cantoni svizzeri. Gli imperi, di solito, sono molto più aperti, almeno dopo la prima fase di conquista e sottomissione: vedi i mongoli in Cina e in Persia, vedi l’impero di Alessandro Magno, di Roma etc. Comunque se puoi indicarmi alcune delle letture che ti hanno portato alle tue attuali convinzioni, te ne sarò grato.

1 – Ti avevo già scritto di ritenere necessaria la difesa esterna e interna, che non può essere un happening e quindi richiede la costituzione di una milizia. Non mi riferisco esattamente a un corpo di volontari, il che già presuppone la divisione dei compiti tipica delle società altamente complesse, ma ad una funzione soggetta a quel ‘meccanismo’ di rotazione periodica che caratterizzava ad esempio le magistrature ateniesi. Quanto al rischio di cui parli, oltre a non sembrarmi molto più atroce della degenerazione che può caratterizzare lo stile di vita delle polizie professionali, è così pronunciato solo se si tratta appunto di squadracce di vigilantes o di mobs appena ufficializzati, non di una istituzione civica legata a statuti, regole etc.
2 – Quello della maggiore professionalità è un argomento specioso. La percentuale di casi risolti non è molto cambiata nel corso di parecchi decenni (secondo alcuni studi è addirittura diminuita, ma per motivi complessi): e poi sembrerà pure un vezzo da letteratura vittoriana, ma di solito è il dilettante ad avere l’intuizione che scioglie il nodo, non l’esperto formatosi ad una scuola. Tra l’altro, con la scusa della sicurezza che esigerebbe indagini sempre più accurate si vanno affermando forme di controllo impensabili, qualche decennio fa, perfino dai visionari più epilettici.
3 – Ripeto: anarchia non vuol dire mancanza di coordinamento, ma coordinamento non centralizzato o meno centralizzato, a seconda delle esigenze. Se parliamo di guerra, basta leggersi Tolstoj per capire che l’esito, non dirò di una campagna, ma di una battaglia dipende da variabili infinite: sicuramente la disciplina è una di queste, ma a volte funzionano meglio gli eserciti confederati se guidati da uno stesso scopo o ideale (vedi non pochi casi di guerriglia coronata da successo). Se parliamo di polizia, mi permetto di osservare che la metafora militare va bene fino a un certo punto: la polizia non è “in guerra contro il crimine”, come dicono i telegiornali dei nostri tempi, ma al servizio di un intero edificio civico di cui è solo una parte.
4 – La criminalità organizzata non si combatte e non si è mai combattuta con l’intensificazione di misure poliziesche. Sono d’accordo sulle infiltrazioni etc., ma soltanto come parte di un piano che mira soprattutto a tagliare le radici di questi gruppi di potere criminoso: operazione, com’è noto, eminentemente culturale-sociale, perché se le mafie etc. non spacciassero miti prima che droga sarebbero pochi infami predestinati ad entrarvi o ad appoggiarle.

Piccola premessa, forse ovvia: sono passato dal primo livello del mio discorso, quello che definirei culturale (esperienza di comunità rette dall’amicizia e dalla coltivazione delle virtù come possibile fondamento di una società nuova), ad un livello di morfologia delle istituzioni che potrebbero sorgere da un coordinamento di varie comunità di quel tipo. Paradossalmente, il primo livello è più ‘pratico’ del secondo: è un ideale vivibile, mentre quelle istituzioni richiederebbero un tipo di società attualmente inesistente, da costruire (se ce ne fossero le condizioni, ma non ci sono). Il genere di milizia da me ‘proposto’ non è un mob da Alabama anni ’40 o da western, né un corpo professionale: così come una giuria popolare (autentica, cioè formata da un’educazione civica quotidiana, non un gruppo di votanti sorteggiato in un contesto di democrazia rappresentativa) non è né un’adunata improvvisata o un ‘tribunale proletario’ brigatistico, né una casta di magistrati che possiede le chiavi della conoscenza e non entra e non fa entrare gli altri (citazione evangelica). Pensavo ai comuni medievali, non all’OK Corral: ma senza nostalgia per i primi, che spesso erano rissosi e violenti quanto e più della Frontiera americana. Prendila come un’analogia.
Scusa se ritorno all’esempio dei mattatoi, ma oltre a essermi molto caro mi sembra anche molto chiaro. Se mi chiedi: “Le cose vanno bene come sono?” ti dico no. Se mi incalzi dicendo: “Allora che facciamo? Macelliamo le bestie sull’ara sacrificale o col coltello come musulmani ed ebrei? Diventiamo tutti vegetariani, magari?”, io rispondo no no no. Anzi, aggiungo: “Sarebbe essenziale ripensare interamente il rapporto tra noi e gli altri viventi, ma oggi né in Italia né nel resto del mondo ci sono le condizioni per cambiare fattivamente la situazione. In alcuni periodi è possibile e opportuno intervenire a livello istituzionale; in altri non si può far altro che testimoniare le proprie idee all’interno di gruppi non settari, ma aperti e vigili”. Ripeto, la società non si può manipolare, è un tessuto vivente: prima cambiano, in modo organico e graduale, le idee e i miti, poi si possono infilare le mani in pasta, e anche nel fango.

Capiamoci: anche i poliziotti moderni sono volontari! La differenza è tra la formazione di un corpo speciale, specializzato, chiuso, e quella di un corpo civico, sempre addestrato ovviamente (altrimenti sarebbe una gag da commedia all’italiana), ma aperto e a rotazione periodica come le magistrature in buona parte delle democrazie dirette finora sperimentate. Ti concedo che il corollario è la nascita di una democrazia armata – ma non di un esercito nazionale in stile napoleonico, fondato sulla coscrizione, cioè su un obbligo indiscriminato, mentre una democrazia come quella comunale antica sorge da un giuramento privato tra persone libere e consapevoli, come un club! Così nasce la vita associata: solo che ce ne siamo dimenticati. E ti concedo anche che oggi è praticamente impossibile, perché abbiamo alle spalle le monarchie nazionali, gli assolutismi, la burocrazia napoleonica, il parlamentarismo massonico, i fascismi e i comunismi... Però concedi tu a me che questo bel karma dell’Occidente meriterebbe un ripensamento, come minimo. Se la tua obiezione definitiva è che quel tipo di istituzioni popolari è soggetto a degenerazione, sono d’accordo con te, perché lo sarebbe chiunque non sia un malato di mente: ma questo è un argomento contro qualunque opera del bipede pensante. Se vogliamo l’immunità, è meglio che ci ritiriamo sul Soratte: se crediamo nel senso e nella bellezza (rischiosa) della comunità, è meglio pensare a ciò che è più giusto (secondo la nostra coscienza).

Forse hai ragione, io non sono un politico, ma un polites un po’ lontano dalla mischia. Ma forse anche un rapporto sessuale fra due persone ordinarie, malate e di scarse doti morali e intellettuali, può sembrare meno efficiente di quello tra due iniziati all’eugenetica – sebbene, essendo noi molto ignoranti sulle vie della natura, la cosa sia tutt’altro che certa (sto parafrasando Chesterton). La differenza è che nel primo caso salvo la rischiosa libertà, nel secondo la sacrifico a un pragmatismo dalle basi a mio giudizio arbitrarie. Comunque non parlavo di “tutti i cittadini”: parlavo di un corpo fondato non sulla specializzazione ma su un’ampia partecipazione civile. Se mi obietti che c’è bisogno di un corpo di esperti, posso solo dirti che a mio parere la tendenza da coltivare, in una democrazia diretta, è quella verso la riduzione di questo tipo di istituzioni (non verso la loro abolizione) a vantaggio di una maggiore mobilità: in questo modo, e sempre con la condizione preliminare (necessaria in democrazia) di un’agorà costantemente attiva e consapevole, si potrebbe limitare la tendenza opposta, quella di ogni polizia a diventare la longa manus di un potere oligarchico. La democrazia ha una grave controindicazione, che è anche il suo segreto: ha bisogno di uomini attivi ed educati. Ogni striscia di tenebra, ogni spazio di ignoranza e passività è il terriccio in cui le élites di illuminati gettano avidamente i semi del dispotismo. 




sabato 10 dicembre 2011

La Risalat al-aʻyan al-thabita di Ibn ʻArabi: breve commento


Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole

Sappi – possa Dio farti riuscire in ciò che Egli ama e gradisce – che un dotto trovava estremamente problematico il seguente hadith qudsi: “Ero un tesoro nascosto e amai essere conosciuto; così creai la creazione per essere conosciuto”. Rese noto che la domanda era stata posta a molti degli ʻulamā nostri contemporanei, ma che non erano riusciti a dargli una risposta.
Quando considerai quanto aveva detto, Dio – sia Egli esaltato – mi ispirò quattro risposte. Comincerò riportando ciò che ha detto e poi aggiungerò le risposte che Dio – sia Egli esaltato – mi ha elargito per grazia.
Il problema è che il nascondimento è una realtà relazionale, in quanto dev’esserci qualcosa di nascosto e qualcos’altro al quale il primo è nascosto. Non è possibile che colui al quale qualcosa è nascosto sia Dio – sia Egli esaltato – perché Egli è manifesto a Se stesso, conoscitore della Propria Essenza nella preeternità e nella posteternità. Né è possibile che sia la creazione, perché non esistevano creature nella preeternità in modo che Dio potesse essere loro nascosto. Il hadith dice: “Dio era e non c’era alcuna cosa con Lui”. Pertanto il nascondimento implica gli esseri creati e questi ultimi sono la causa secondaria del nascondimento, non della manifestazione. Ma ciò è l’opposto di quanto indicato dal hadith, perché nel suo senso letterale il hadith indica che Egli – sia Egli esaltato – era nascosto nella preeternità quando la creazione non esisteva. Questa era la domanda iniziale.
Ebbene, io dichiaro che una risposta a questa domanda può esser data in diversi modi. Il primo è che per nascondimento si intende la non-esistenza di qualcuno all’infuori di Lui Stesso che Lo conosca. Quando volle che ci fosse una pluralità di soggetti che Lo conoscessero, Egli creò la creazione. Egli espresse la non-esistenza di un conoscitore con l’immagine del nascondimento, come se avesse detto: ‘Io ero un tesoro glorioso e un nobile gioiello, ma non c’era nessuno che fosse consapevole di Me tranne Me stesso e nessuno che conoscesse la Mia esistenza se non Io’. Perciò usò l’immagine del nascondimento in un senso generale, intendendo quanto è da essa implicato, ovvero la non-esistenza di chiunque potesse conoscerLo. Quindi il significato sarebbe: ‘Io ero un Signore benefico e un Dio di grazia e di traboccante pienezza, ma nessuno era consapevole di Me né conosceva la Mia Perfezione e la Mia Bellezza. Così amai essere conosciuto e creai la creazione per essere conosciuto’. Questo è un significato plausibile e che non fa problema.
La seconda risposta è che le cose hanno due tipi di esistenza: l’esistenza nella conoscenza e l’esistenza esterna. L’esistenza nella conoscenza coincide con le cosiddette entità immutabili, che sono primordiali e preeterne. L’esistenza esterna è originata nel tempo e il nascondimento di Dio – sia Egli esaltato – era relativo alle entità immutabili nella preeternità, perché le entità immutabili esistevano con Dio ma non avevano alcuna consapevolezza di Lui, e perciò Dio era nascosto relativamente a loro. Quando Egli volle che le entità immutabili Lo conoscessero, le condusse dall’esistenza nella conoscenza all’esistenza esterna in modo che Dio, sia Egli esaltato, fosse conosciuto, perché non si può essere consapevoli di Dio, sia Egli esaltato, se non attraverso l’esistenza esterna.
La terza risposta si ricollega a quel che [al-Jawhari] dice nel Sihāh, riportandolo da al-Asma’i: “ho nascosto la cosa” vuol dire “l’ho sigillata”, ma anche “l’ho resa visibile”, perché questo [verbo] appartiene al gruppo degli addād [=termini con significati tra loro opposti]. Perciò le Sue parole: “Ero un tesoro nascosto” possono essere intese come derivanti dal termine ‘nascondimento’ nell’accezione di ‘manifestazione’. Quindi il hadith significherebbe: “Ero un tesoro manifesto a Me stesso, ma non c’era nessun altro a conoscerMi tranne Me stesso, e Io amai che qualcuno all’infuori di Me potesse conoscerMi, e creai la creazione”.
La quarta risposta è che il significato può essere: “Ero nascosto al massimo della manifestazione”, come se avesse detto: “Il Mio Sé era quasi nascosto a Me stesso, e a fortiori agli altri, a causa della massimità della manifestazione. Perciò creai la creazione come un velo alla Mia manifestazione e una cortina sulla Mia luce in modo che parte della Mia manifestazione restasse nascosta e gli esseri creati potessero percepirMi”. Non sapete che se qualcuno desidera guardare direttamente il sole si fa ombra agli occhi con la mano e copre una parte della sua luce in modo da poterne percepire un’altra? Perciò Egli creò gli esseri creati affinché fossero un velo sulla Sua luce e ne fece una causa secondaria del Suo essere percepito: “Amai essere conosciuto e creai la creazione”. Sia lodato Colui che pose la manifestazione a ostacolo del percepire e fece della cortina e del velo una causa secondaria della manifestazione e della percezione. Questa è la conoscenza delle realtà.        
 
Breve commento

Questione relativa al hadith del Tesoro Nascosto: nascosto a cosa? Non a Sé (Egli è manifesto a Se stesso), né alla creazione che non esisteva. Eppure tale nascondimento sembrerebbe implicare una relazione eterna tra Haqq (Dio) e Khalq (Creato): il tesoro dell’Essenza manifesta nei Suoi Nomi e nascosta nei Suoi Nomi, batin e zahir in una dialettica circolare inestinguibile.
Prima risposta: il nascondimento è relativo a un soggetto conoscitore altro da Sé; Dio volle essere conosciuto da altro, in altro, volle essere in altro – la Volontà-Uno vuole l’ostacolo, l’objectum, farsi oggetto, specchiarsi, la conoscenza di Sé nello specchio dell’altro è un’estasi d’essere nell’altro. Da un lato abbiamo la Volontà di Schopenhauer, non-razionale, ignorante, che vuole soddisfare la propria tensione infinita nell’esistenza finita, fallendo infinitamente – ovvero la Volontà come tanha, come soggetto della Maya-Avidya; dall’altro abbiamo il bonum diffusivum sui, la volontà estatica che si realizza nella libertà chiudendo infinitamente il circolo del nihil, il nulla preesistenziale come riflesso della decreazione “finale”, dell’epistrofè che riassorbe la manifestazione.
Seconda risposta: Dio è nascosto alle entità immutabili nel loro stato di esistenza conoscitiva, ovvero come idee in mente Dei, perché in tale stato non sono consapevoli di Lui, non sono presenti a Lui – sono non-esistenti, pure relazioni nell’immediatezza conoscitiva-esistenziale di Dio; così Dio volle che le entità fossero consapevoli di Lui nello stato di esistenza esterna, come realtà individuali, enti che partecipano dell’atto d’essere che è Dio stesso. La volontà creatrice è l’impulso, senza prima né poi, con cui il Reale si realizza nell’esistenza una e molteplice, come individualità determinata nelle infinite individualità, in tal modo trasferendo le proprie determinazioni essenziali, implicite, immediate, nelle esistenze-teofanie: la libertà come non-oggettualità, come superamento dell’ostacolo-ignoranza, richiede il velo, lo specchio, il limite che dinamizza, mette in collegamento l’essere con se stesso, si pone come barzakh tra l’Infinito e l’Infinito, tra i due oceani. Così l’ignoranza e il male sono il segreto del Reale, di Dio, la Sua iniziazione come iniziazione a Sé.
Terza risposta: coincidenza di occultamento principiale e manifestazione principiale; il Tesoro è nascosto-manifesto, nascosto perché manifesto, manifesto perché nascosto. La Sua manifestazione è occultamento all’altro da sé, esclusione dell’altro da sé, del nulla, ma anche vincolo alla libertà-bene; il Dio manifesto a Sé è occultato all’altro da Sé, ovvero alla propria pienezza-realtà suprema, la Sua presenza a Sé come posizione di Sé è mancanza dell’altro e bisogno dell’altro, della creazione come effusione estatica della Misericordia, limitazione che realizza l’infinito, manifestazione-riflesso che rende tutto intimo, Spirito.
Quarta risposta: La manifestazione di Dio, del Reale come Dio, è nascondimento a Sé e all’altro, è come se lasciasse un residuo, aprisse un vuoto: così il velo che consente la rivelazione è il compimento della manifestazione; l’ignoranza, il nulla, il male sono ciò che manifesta la sovraconoscenza, la sovraconsapevolezza del Reale di cui parla Eriugena, che è ignoranza sopra la conoscenza, intimità libera.



sabato 3 dicembre 2011

Ultime parole di Shahrazad


per Luigi Turinese

Mille notti più una
perché il congedo, mio re, ti lasciasse
espirare di nuovo sulle cose,
ti ho accompagnato nei crocicchi assurdi,
nei nebulosi vicoli di anima
come nella mia carne
di sposa minacciata. Già lo senti
come Allah ordisce il suo tappeto
di lievissimi inganni, di astuzie
grossolane e sapienti, che ci strappano
il grave cuore, l’austero intelletto –
il tappeto di squisita fattura
sul quale preghiamo esinaniti.
Già vedi com’è folle voler stringere
quell’incanto velato che ti spoglia,
quella misericordia, quel sorriso
che umilia e rinfresca la tua gloria.  

mercoledì 30 novembre 2011

La creazione dell’Uomo


Bereshit Rabbah VIII,5:
“Rabbi Simon disse: Quando il Santo – sia benedetto – venne a creare il Primo Uomo (Adam ha-Rishon), gli angeli ministranti (mal’ake ha-sharet) si divisero in gruppi e fazioni. Alcuni di loro dicevano: Non sia creato, altri: Sia creato, così com’è scritto: Grazia (Chesed) e Verità (Emet) si scontrarono, Beneficenza (Tzedeq) e Pienezza (Shalom) si armarono l’una contro l’altra (Sal 85,11). Grazia diceva: Sia creato, perché compirà opere di grazia; mentre Verità diceva: Non sia creato, perché non sarà altro che un cumulo di menzogne. Beneficenza diceva: Sia creato, perché farà opere di beneficenza; Pienezza diceva: Non sia creato, perché non sarà altro che scissione. Che fece il Santo – sia benedetto –? Prese la Verità e la gettò a terra, così com’è scritto: E gettò la verità a terra (Dn 8,12). Dissero gli angeli ministranti al cospetto del Santo – sia benedetto –: Signore dei mondi! Perché disprezzi il tuo sigillo [o: il tuo mastro cerimoniere]? Che la Verità risorga dalla terra, così com’è scritto: La Verità germoglierà dalla terra (Sal 85,12).
I nostri maestri dicono quanto segue a nome di R. Chanina, mentre R. Pinchas e R. Chilqiya lo dicono a nome di R. Simon: Me’od [lett.: “molto”] è lo stesso che Adam [Uomo], così com’è scritto: E Dio vide tutto quel che aveva fatto, ed ecco, era molto [me’od] buono, ovvero: ed ecco, l’Uomo [Adam] era buono.
R. Chuna il Vecchio di Sepphoris disse: Mentre gli angeli ministranti discutevano e disputavano gli uni con gli altri, il Santo – sia benedetto – lo creò. Disse loro: Che cosa discutete? Ormai l’Uomo è fatto!”

Il midrash medita immaginativamente la creazione di Adamo, dell’Universo, Micro-Macrocosmo.
Dio consulta gli angeli, ovvero i suoi Nomi, essenze non-esistenti, relazioni immanenti al suo pensiero. Il loro confronto è quello dei possibili in Leibniz: tutti i possibili presenti nell’intelletto divino tendono all’esistenza, ma solo quelli compossibili possono ricevere da Dio, con un atto della sua saggia volontà, la luce dell’esistenza, del wujud.
Contrasto tra gli angeli: Ibn Arabi osserva che gli angeli, forme separate, esseri puramente intellettuali, temono la rivolta nell’uomo e la mettono in atto per primi; la proiettano su di lui, o meglio, essendo gli angeli le facoltà, le potenze sottili del Macranthropos, la loro rivolta si rispecchia in quella dell’Adamo. La citazione del Salmo appare stravolta: i Nomi secondo la lettera si incontrano e si baciano (nell’alfa e nell’omega, nell’archè e nell’eschaton), secondo il derash si scontrano e si armano gli uni contro gli altri (sulla soglia del tempo, della creazione).
Verità (Emet) e Pace-pienezza (Shalom) contro Misericordia-Grazia (Chesed) e Beneficenza (Tzedeq). Verità, come Iblis, preferisce che il mondo non sia: è la fedeltà all’Uno Immanifesto, il Sigillo di Dio nella Sua indipendenza dai mondi; è il Giudizio che distrugge preliminarmente, essenzialmente, ogni contingenza, la Necessità – ma l’esistenza del mondo, del kawn, è contingenza, è necessità condizionata, necessità in alio, non-essere illuminato dall’Essere divino. L’essere del mondo è l’assurdo sentito da Sartre con nausea. Se Emet è l’inesistenza, l’immanifesto principiale, Shalom è la Pienezza finale, di fronte alla quale il mondo è in ritardo, è ritardo (Mulla Sadra).
Iblis non si prostra al cospetto dell’Uomo perché non congiunge Unità e Molteplicità, non concepisce l’amore, il Soffio di Misericordia: Allah gli ricorda che l’Uomo è stato creato dalle due mani di Dio, da Giudizio e Misericordia, Unità e Molteplicità, è il ponte tra l’eterno e l’effimero, conosce e dà i nomi alle cose in quanto khalifa di Dio, mediatore. Iblis nega la mediazione. (Conoscere e dare i nomi è foggiare le essenze, creare il mondo con il logos e il linguaggio, il verum est factum: segno di debolezza, di vicinanza a Maya e alla materia rispetto alla pura intuizione angelica, ma anche di vicinanza al punto di inizio dell’epistrofè, poiché nella mente umana le cose ritornano a Dio, vengono trasmutate).  
Associazione Adam-me’od (tov me’od, “molto buono”, detto solo dopo la creazione dell’uomo): in un altro passo me’od è accostato allo yetzer ha-raʻ, alla libertà. Una volta creato l’impulso al male, l’immaginazione del male, l’attaccamento mondano come fermento che solidifica l’ego, la lode dell’essere diventa ad un tempo più difficile e più alta: il “molto buono” non è il kalà lian che indignava Schopenhauer, ma un grido dionisiaco (che avrebbe scandalizzato Schopenhauer). 
Dio getta Emet sulla terra: in altri midrashim allontana dagli angeli – e da sé – la visione del male, degli uomini malvagi che corrompono l’essere creato. Una sorta di brusca confutazione, di brutale argumentum ad hominem, ma anche una Unterdrückung intradivina, un’automutilazione della coscienza divina. La caduta di Emet anticipa quella dell’Uomo: è una umiliazione che rende possibile lo tzimtzum. Ora gli angeli chiedono unanimi che Emet venga fatta risorgere dalla terra, speranza messianica – ed è appunto questa l’opera dell’Uomo. [Citazione di Daniele: visione apocalittica del Tempio profanato dal capro, che sostituisce la trasgressione al sacrificio quotidiano e getta a terra Emet, la fedeltà-verità; questo atto avrebbe il suo esemplare e archetipo nella creazione dell’uomo, simile quindi a una profanazione, a una distruzione del Temenos preesistenziale. Citazione del Salmo: la verità risorgerà, risalirà, ritornerà – verbo ʻalah – dalla terra, dall’umiliazione-umiltà, dal punto più basso, de profundis].
Mentre gli angeli continuano a dibattere, Dio crea Adamo. Non essere vince ogni logos, dice lo stasimo sofocelo – e pensa Emet: la creazione è un moto di volontà-amore, è Maya come libertà divina e illusione, pone un ostacolo, determina una contrazione affinché vi sia manifestazione, affinché l’intimità e la profondità essenziali si comunichino, si sacrifichino ‘in vista’ dell’Unità finalmente realizzata, perfetta, in pieno possesso delle proprie articolazioni e complessità e della propria semplicità sovraessenziale.        

Il polemos del mondo-Adamo ha la sua radice nel conflitto tra i possibili-idee-dei-angeli: l’Essenza si determina nell’unimolteplicità dei Nomi, del Nous, creazione primordiale, in cui domina la pace, l’assenza di phthonos, solo nella sospensione della contemplazione principiale; nel rapporto con la creazione degli individui reali, ovvero nel desiderio di manifestazione dei Nomi-Attributi, si scopre che omnis determinatio est negatio, ciascuna delle idee divine riceve l’essere in un’interdipendenza che è conoscenza-ignoranza, velo-rivelazione, bisogno reciproco e lotta per l’affermazione. 

La Verità, la Necessità è il sigillo di Dio: in sé sterile, contraria alla creazione, si imprime come un timbro su ogni creatura, su ogni contingenza, riconducendola al proprio nulla e al Nulla divino. La sua opposizione archetipica alla creazione la rende sigillo della de-creazione, la sua fedeltà alla preeternità (come Shalom, Pienezza, è fedele alla posteternità, all’Eschaton) la rende vincolo del finito e limite intrinseco alla sua finitezza.

martedì 29 novembre 2011

Ancora sulla profezia


Rosmini insegna che si danno due tipi di cognizioni: quelle per intuizione, che hanno per oggetto i possibili, le idee; e quelle per affermazione o di giudizio, che ci danno persuasioni sugli oggetti conosciuti, ovvero sulla loro “sussistenza”, esistenza e realtà. Così l’idea è l’essere possibile e, in quanto ideale, universale e necessario; l’essere reale, “conosciuto” attraverso la persuasione, l’assenso-giudizio, è contingente, necessario in alio (in Dio). Il nostro lume naturale coincide con l’intuizione dell’essere; la presenza all’essere è poi la contemplazione.
La distinzione fra tajallī, teofania, e nuzūl, discesa-rivelazione, è analoga a quella fra walāya, intimità mistica con Dio, e nubūwwa, profezia: il profeta veicola la discesa del Reale in una parola efficace, ripete la creazione. Per questo è necessario (liberamente necessario, più che necessario) l’assenso-fede (che ripete il mithāq originario, l’alleanza di misericordia tra Dio e ogni creatura): senza l’assenso al nuzūl non si dà l’esperienza del tajallī, della manifestazione divina in ogni cosa e in tutto. Virtualmente (e realmente, ma oltre il viluppo della storia, non al di sotto di essa, ritirandosi da essa) Dio è creato in ogni credenza-testimonianza, di fatto ogni conoscenza si inserisce in un ciclo profetico determinato, in un pragma, e lo riflette-dispiega (compie).
Schopenhauer asserisce l’anteriorità della volontà nei confronti dell’intelletto: Wittgenstein quella dell’azione (rituale) rispetto alla conoscenza; Lévinas e la tradizione rabbinica quella del faremo sull’ascolteremo (naʻaseh we-nishmaʻ). L’uomo esiste, ogni sua conoscenza interpreta-chiarifica un kun! creatore che a sua volta manifesta il Realissimo: la fede profetica, pragmatica, è la suprema mediazione, il nodo (ʻuqda) supremo.
Nel pensiero greco è reperibile un simile fondamento (archè) dell’intellettualismo dominante? Forse il fine “etico” di ogni theorein (P. Hadot) (e anche, secondo Vico, il verum est factum, la conoscenza umana come creazione, conjectura, poiein).
Che il mondo è (Wittgenstein) – che questa cosa è – è il mistico. Il mawjūd, l’ente, è manifestazione del wujūd, dell’atto di essere, nella sua unità-unicità (wahda).
La cosa, al-shā’y, deriva secondo i sufi dal verbo shā’a, volere-consentire: l’ente-mawjūd esiste in quanto voluto, e quindi in quanto marhūm, oggetto di misericordia.
L’esistenziazione è un atto di volontà: nel platonismo è espressione della “natura”. L’abramico fa dell’emanazione naturale un’“effusione” (fayd) volontaria, perché Dio come Esistenza e Realtà è la suprema determinazione (huwiyya). Volontà-Misericordia è il nome di questa physis, la physis divina è libera ovvero è actus, soggetto supremo, Spirito. L’Essenza divina (dhāt) resta nascosta-indipendente, eppure vi si “accede” nella perfezione dell’itinerario conoscitivo-unitivo (si “accede” alla natura divina tramite le relazioni trinitarie: nel sufismo attraverso l’uni-diade rabb-marbūb, Signore divino-vassallo. È il quarto stadio o divisio naturae di Giovanni Eriugena, il nihil come eschaton, esito dell’epistrofè-teshuvah: non c’è identificazione-ittihād, ma un Deus totalis che è Realtà realizzata, Uno realizzato come Non-Due, consumazione dell’amore).
La fede profetica come impegno-berith-mithāq sta alla ragion pratica come la presenza estatica all’Uno a quella teoretica. La fede è principio e fine della ragione: ragione e intelletto sono la mediazione – eppure si ha unificazione e armonia indicibile nella beatitudine suprema.

mercoledì 16 novembre 2011

Adonai yir’eh


per Nicola

“Padre, posso dirti una cosa?”.
“Dì pure, Isacco”.
“Sai che anch’io sono stato chiamato ad essere profeta?”.
“Lo so”.
“Come fai a saperlo?”.
“Come potrei non saperlo?”.
“E non mi hai detto nulla?”
“Cosa avrei dovuto dirti?”.
“Ti prego, smettila di rispondermi con delle domande”.
“Te lo dico oggi, allora: non mi piace che anche tu sia stato chiamato, ma mi compiaccio della volontà di Dio”.
“Che vuoi dire? Pensi che essere un profeta sia così terribile?”.
“Non lo penso. Lo so”.
“L’hai sperimentato”.
“Lo sperimento ad ogni battito di ciglia”.
“Vedi, tu non mi hai mai detto, fino ad oggi, cosa sentivi della mia chiamata; e io non ti ho mai fatto una domanda, che mi pesa sul cuore e mi amareggia il pane e il vino”.
“Fammela oggi, ti prego, figlio mio”.
“Quando Dio ti chiese….”.
“Ho capito”.
“Ricordo che salivamo sul monte, e mi sembrava un cranio impolverato, semisepolto, l’immagine di ogni vergogna e di ogni squallore. Cercavo di guardare solo i miei piedi, riuscivo a pensare solo a tratti, e mi affluivano immagini, non potevo stringere nulla. Mi attraversavano il cuore rapide immagini di irrisione, di stanchezza, di futilità. Sentivo che avevi il fiato grosso, e il ritmo della tua camminata era meno sciolto e potente del solito: rigido, sempre in ritardo o in anticipo, leggero – l’incedere di uno schiavo. Tutta la mia angoscia si concentrò in una domanda, proprio come oggi. E tu mi rispondesti. Ricordi come?”.
“Non lo dimenticherò. ‘Dio stesso provvederà l’agnello, figlio mio’”.
“Perché dicesti così? Pensavi che Dio mi avrebbe risparmiato?”.
“No”.
“Dunque pensavi che sarei morto per tua mano, sgozzato dal tuo coltello”.
“Non dire sempre: pensavi, penso. Cosa c’era da pensare?”.
“Non è un pensiero dire al proprio cuore: Ora prendo il coltello, ora la legna, ora faccio il fuoco, ora slego l’asino…”.
“Ma tu pensi di essere profeta, o lo sei?”.
“Lo sono e lo penso”.
“Sei molto giovane, ragazzo mio. E nel tuo soffio dolce e agitato – chiudo gli occhi e ne sento la musica, che mi accompagna da quando sei nato – si sono mischiati il riso nobile, desolato, spogliato di tua madre e la paura mia, la paura tua, di quel giorno, con la legna sulle spalle, la solitudine dell’ascesa, la fredda lama del coltello nel fodero, nella mano. E la freddezza ancora più fredda, la freddezza mattinale, umiliante, del miracolo”.
“Anch’io serbo nel cuore tutto questo, come un’unica parola di Dio. Ma la parola che mi è stata data, il soffio che mi ha fatto rizzare i peli, è diverso dal tuo. Io ricordo i piedi, lo sporco, la stanchezza tua e mia, e quei due fulmini, inspiegabili: la mia domanda, la tua risposta. Parevano scoccate dall’angoscia stessa, ma all’improvviso: come un desiderio d’amore che percorra le membra dopo una giornata di fatiche vergognose”.
“È vero. E l’una e l’altra sono parole di Dio”.
“Perché dicesti proprio così?”.
“Come? Parli sempre della mia risposta?”.
“Sì. ‘Dio stesso provvederà…’”.
“Non so perché”.
“Se non ti piace ‘pensavi’, ti dico: credevi, eri convinto, sentivi che sarei morto?”.
“Non lo so. No, non lo sentivo”.
“Dunque eri persuaso che Dio mi avrebbe salvato”.
“No”.
“Ma allora, perché quelle parole? Cercavi di coprirmi gli occhi di fronte alla mia stessa morte?”.
“Questo meno di tutto, figlio mio”.
“Cerca di spiegarmi. Altrimenti nulla ha senso, per me. Nemmeno la mia chiamata, soprattutto la mia chiamata”.
“Non c’era molto da pensare, Isacco. Dio mi aveva chiesto di sacrificargli il mio unico figlio”.
“Tutto qui?”.
“Ci ho pensato un po’, dopo. Vedi, anch’io penso! Ma sembravano le tracce quasi del tutto lavate, o riassorbite, di un incontro d’amore: gocce che ora senti limpide come la gloria del cielo primaverile, ora penose e sudicie come il minuzioso marcire di un volto necessario”.
“Padre mio, proprio ora che dici parole tanto simili a quelle che sempre mi ripete il cuore, ti vedo lontano come un antenato di cui si custodisce, di cui si gusta solo il nome, e la luce di un paio di gesta”.
“E ho pensato: tanti prima di me avevano ricevuto quell’ordine. Soprattutto re, re importanti. Anzi, in alcune città era un rito, una tradizione: il sovrano, il fulgido servo di Dio, doveva offrire il primogenito a Colui che gliel’aveva dato. Perché tutto è suo. Anzi, tutto è Lui. Io ci sono nato, in quest’aria: ne sono impregnato. Forse non puoi capire: ormai Harran è per me come un sogno breve e un po’ grottesco, di quelli che si fanno appena prima del risveglio; eppure la sua aria mi impregna ancora. E in quell’aria c’è il pianto del primogenito, un bambino di pochi giorni, condotto da suo padre, in silenzio, tra i simboli del dio, verso la pietra arrossata”.
“Un po’ lo capisco, invece. Continua”.
“Ma tu sai, figlio mio, che io non sono un re. Mai stato. E quando sacrifico una bestia, lo faccio così, alla buona – la accarezzo, la accompagno nel suo transito a Dio. Non mi metto quei paramenti lì, non mi faccio sovrastare da statue come quelle di Harran – quegli dei di pietra dalle membra oltraggiosamente piene, dalle orbite fisse e serene nella potenza. Io sono un vagabondo, un poveraccio, anch’io come te mi guardo solo i piedi, e la polvere che li avvolge, infinitamente dispersa, infinitamente mutevole. E quando Dio mi chiamò e mi cacciò via da Harran, da un momento all’altro, e mi fece balenare la promessa di una terra, e poi di una discendenza… Tutte cose che sai. Mi promise la tua nascita. Un miracolo, cioè una povera cosa – una cosa da tutti, da tutti i giorni – che splende in una luce di novità, come la prima e l’ultima, come qualcosa che rimette tutto in cammino, che mette fretta ad ogni pietra, ad ogni asino, ad ogni nuvola”.
“E io sarei un miracolo”.
“Una benedizione, una pace, un frutto spaccato”.
“Io”.
“Sì. E quando nascesti, il mondo intero venne a umiliarsi e a ridere davanti a colei che aveva riso, davanti a quella vecchia regina – lei sì – ornata dal sudore di un parto incredibile. Non ti dico nulla dei tuoi primi anni, dei miei affanni, delle mie gioie segrete. E poi Dio mi chiede di sacrificarti”.
“Sembra esserci una contraddizione”.
“Chiamala così. Io ci ho pensato solo dopo”.
“Voglio dire: una contraddizione tra la promessa e la richiesta di sacrificarmi”.
“Puoi chiamarla così. Per me fu uno squarcio di coltello nel petto”.
“E trovasti la forza di obbedire”.
“Mi alzai dal letto col petto squarciato, col petto squarciato preparai legna, fuoco e coltello, dal petto squarciato uscirono gli ordini per i servi, il sussurro che ti svegliò, l’unica parola che ti dissi nel cammino”.
“Appunto quella”.
“Dio mi aveva promesso te, la benedizione di un figlio e di una discendenza. E mi aveva imposto di offrirti in olocausto. Come i re che sacrificano il primogenito, a Harran. Ancora loro: sempre lì si ritorna. E no, che non si ritorna: ti è stato dato un figlio, un riso d’incredulità, un riso di pace incredibile, impossibile. Dio mi ha dato, Dio mi toglie: questi sono pensieri, solo pensieri. Io prendo legna e coltello, che altro posso fare? E vado. E aspetto. Nemmeno aspetto: sto lì. Col petto squarciato. Da una parte la promessa, dall’altra il sacrificio. Tutto insieme. Tutto qui. Ma è mai possibile? Perché, la nascita di tuo figlio è stata possibile? E allora sottomettiti, servo di Dio: amico sì, per grazia, ma in sostanza sempre servo. Tutto è suo, tutto è lui: il resto è sogno, un dito sull’acqua. E no: la promessa, la parola data. O è amico, o non è amico. Ma sei anche servo. Togli l’anche: tutto insieme, tutto insieme. E non c’è spazio per respirare? Sì, ma solo per respirare: per un respiro solo. Vai sul monte, così sarà fatto. E mentre vai, tuo figlio ti fa una domanda. Certo, non è mica uno senza voce in capitolo, in questa faccenda. Non è che debba starsene zitto, fare la sua comparsa, e morire in silenzio dopo essere nato fra grida di dolore e di giubilo. Non è regolare. E mi fa una domanda: Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? E io sento che rispondo così”.
“Non hai voluto dire quelle parole, non le hai cercate, non ne eri consapevole?”.
“Non le ho cercate. A te posso dirlo, tu puoi capirmi: sono le parole a cercarci e a trovarci. Ma si aprono una via nella carne come il figlio nell’utero della donna: con accessi di nausea, pesando sul ventre e sul cuore, tirando la pelle, facendo bollire il sangue con voglie, rabbie, stupidaggini, paure”.
“È vero”.
“Non le ho cercate. Ma ne ero incinto. E mi sono uscite con un balzo, aprendomi la bocca come una vagina: so che non guardavi, perché ti ricorderesti quanto ero brutto e schifoso”.
“Io ricordo che è l’unica domanda che ti ho fatto in vita mia senza guardarti in faccia”.
“Sì, infatti”.
“Ma il suono era dolce, sembravi mia madre. Questo mi fece rabbrividire”.
“Ed è per quei brividi che oggi cerchi una consolazione, una luce”.
“Soprattutto una luce”.
“Dio stesso provvederà l’agnello. Io sto salendo, so che mi ha promesso la discendenza, le stelle, la sabbia, so che mi ha chiesto di sacrificarti. Nient’altro. Era l’unica risposta. Non l’ho plasmata, messa insieme, pensata. L’ho partorita, e ha reso impura la mia bocca”.
“Ma non vuol dire che ti affidavi a lui per uno scioglimento del nodo, dell’imbroglio, dello strazio?”.
“Sì, mi abbandonavo, ti abbandonavo a lui, ma come un lottatore che sta avvinghiato all’avversario. Perché lui è mio amico”.
“Un amico che ti chiede cose simili”.
“Credi che Dio ti ha creato?”.
“Certo. Che c’entra?”.
“E chi vuoi che salga il monte, chi vuoi che muoia sul legno…”.
“Cioè tutto è Dio?”.
“No”.
“Che cosa stai dicendo?”.
“Creandoti, ha scambiato con te ogni cosa, ti ha dato ogni cosa. Non c’è più un rifugio alla sua misericordia: solo la sua misericordia lo è. Ma non è un’oasi, è il sogno di una donna incinta, l’avvicinarsi della carne, del parto. Chi sei tu? Chi è lui? E il ventre si apre, e la sua imboccatura è soffocata, strozzata dalla testa di chi nasce. Un cranio, ricoperto di sangue: ma la partoriente, il partoriente non lo vede. E poi il primo grido, e tutto il resto: ma è sempre così. Sempre una gravidanza, sempre una nausea. La misericordia è nauseante, perché tutto è in attesa, tutto è sospeso”.
“La misericordia è…”.
“Non è una bestemmia. Parlo per esperienza”.
“…nauseante”.
“Ogni voglia, la voglia di una gravida. Ogni dolore, il dolore di una gravida. E la gravida non sa, se non che attende, soffre, coltiva, fa spazio. Tutti i timori, i sospetti – come sarà, quanto vivrà, ma sono davvero incinta o sono semplicemente malata, magari folle – sono la stanchezza, il lavoro, l’impensabile umiliazione di questa gravidanza”.
“Dunque tu attendevi, tu attendi. E io sono così diverso da te – solo ora mi sembra di capirlo, così impaziente, troppo impaziente per partorire la parola, per essere profeta”.
“Non si può che essere impazienti, quando si attende. Ormai hai uno sperma in corpo: è giusto che tu sia nauseato, e a maggior ragione impaziente. Anch’io lo sono”.
“Impaziente di che, ormai?”.
“Impaziente della nostra nascita comune, che non immaginiamo”.
“Non so se riuscirò ad arrivare al nono mese, padre”.
“Aggrappati a questo non sapere, con indecenza, con vergogna. Non temere le consolazioni: sono troppo povere per diventare idoli, il tuo sguardo ne farà vapore. E non temere le desolazioni: o meglio temile, e basta, e porta in corpo il tuo sperma. Se devi pensare, pensa al corpo”.
“Buonanotte, padre. Mi hai lasciato così – più nudo di prima”.
“Buonanotte, Isacco. Che Dio ti copra con la sua veste – anche se è meno terribile essere nudi”.

domenica 13 novembre 2011

Alle porte dell’Areopago


per Andrea Sciffo

“Io non ero tra coloro che ridevano, giudeo”.
“Lo so. Ti ho visto”.
“Che cosa hai visto?”.
“Vuoi dire chi ho visto. Ho visto un uomo assorbito nella meditazione di Dio”.
“Ripeti quello che hai detto sul Dio Ignoto”.
“Colui che adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio”.
“Giudeo, io ho amato le dottrine del divino Platone sin dalla giovinezza. Secondo la nostra scuola ogni cosa è una manifestazione del Bene, dell’Uno, di quel Dio Ignoto che si fa conoscere attraverso il cosmo e nel cosmo. Voi giudei, invece, da quel che so, avete ricevuto un insegnamento del tutto diverso: per voi Dio non si riflette nel mondo, ma l’ha creato. Ho cercato di comprendere questa idea che è espressa oscuramente nelle vostre Scritture, e l’ho intesa più o meno così. Il Dio che voi adorate ha staccato da sé il cosmo con un atto di volontà: perché anche per voi Dio è al di sopra dell’essere e della conoscenza, ma non nel senso dell’Uno di Platone. L’Uno non è accessibile alla conoscenza: non è un oggetto; ma è presente nell’indicibile presenza dell’estasi come l’essenza stessa di colui che esce da sé. Così, al di sopra e al di là di ogni verità, di ogni similitudine, di ogni forma, c’è l’Ignoto che esce da sé e rientra in sé, ed è folle o futile, a seconda che il punto di vista sia etico o teoretico, sforzarsi di dirne o pensare qualcosa, dal momento che non lo possiamo raggiungere, ma solo – nella estrema, altissima, profondissima oscurità – esserlo senza identificarci con esso, o con lui”.
“Proprio questo intendevo, traendo spunto da quell’altare al Dio Ignoto”.
“Ebbene, voi giudei, da quel che posso capire, quando dite che Dio ha creato, che ha voluto il mondo, quando dite che Dio si rivela in una legge, in una parola, in una scrittura, siete d’accordo con noi platonici almeno sul fatto che è al di sopra e al di là dell’essere e del conoscere: però, dal momento che il mondo, dal momento che noi siamo perché siamo stati voluti, per accostarci a lui dobbiamo ricordarci di questa volontà a cui abbiamo acconsentito venendo all’essere, dobbiamo volere quella volontà”.
“È ciò che chiamiamo fede. Non hai parlato male, figlio mio”.
“Perché mi chiami figlio?”.
“Però sei pieno di concetti e intuizioni, avvolto nella tua dialettica come una crisalide nel bozzolo, e barcolli ai margini del sentiero come chi non sa se dorme o veglia. Tu hai detto che Dio, per noi giudei, ha voluto il mondo, ha voluto me, ha voluto te. Non sbagli, ma questa volontà ha un nome. Si chiama amore”.
“Perché dici amore e non brama, eros? Senza contare che sarebbe assai strana anche questa parola. Forse, non essendo di madrelingua greca, fai un po’ di confusione. Amore, agape, è quello di una moglie per il marito, di un fratello per il fratello…”.
“Sì, infatti”.
“E Dio, l’Uno inaccessibile, avrebbe creato per amore? Per amore di chi?”.
“Per amore tuo”.
“Aspetta. Sei davvero sicuro di capire il greco?”.
“Abbastanza per capire quel che ci stiamo dicendo”.
“Allora: Dio fa essere il mondo perché lo ama? Dunque lo ama prima che sia, e al tempo stesso lo ama affinché sia”.
“Sì”.
“Ma l’amore non implica una sorta di eguaglianza, come l’amicizia? Eppure m’era parso che tra il vostro Dio e il mondo ci fosse un salto, una distanza infinita”.
“C’è infatti: come tra essere e non essere. Dio non è qualcuno che esiste e poi ama, Dio è amore: ha voluto che il non essere fosse, e che fosse irrevocabilmente. Ha voluto che il nulla fosse fatto di lui: e che cosa poteva aspettarsi dal nulla? Che cosa poteva chiedere al nulla? Nulla. Questo è l’amore, questo è Dio”.
“Sei molto abile nella tua retorica: queste parole mi ubriacano, come il vino della dialettica, ma senza quel presagio di un approdo sicuro, fosse anche oltre la morte e la vita. Ho assaggiato l’ebbrezza di Platone, ora mi intossica la tua: d’altronde mio padre mi ha chiamato Dionisio, in segno di devozione al dio dell’estasi. Mi sembra che tu stia per portarmi dove nessuno andrebbe, se non vi fosse chiamato con dolcezza e violenza”.
“Con dolcezza e violenza”.
“Sembra qualcosa che debba offendermi fino alla fine”.
“Sembra così”.
“Eppure ritorno subito a me stesso, e mi viene da pensare: questo Paolo, questo giudeo che si fa chiamare il Dappoco, lo Scarso, mi dice che Dio ha amato il nulla, che ha voluto darsi al nulla, e io mi chiedo – qual è la differenza, ma la differenza vera, tra Paolo e Platone? Tra Paolo che mi ubriaca con il suo nulla e il suo amore, e Platone che mi insegna a vedere l’Uno riflesso come in un’acqua profonda? Perché una differenza c’è”.
“Non è una differenza nel senso della tua filosofia: so che vi si discute di genere, di differenza e così via. Questa differenza ha un nome”.
“A tutto ciò ch’io ti dico tu dai un nome!”.
“Non ti ho forse detto che vengo ad annunciarti quello che adori e non sai?”.
“Qual è dunque questo nome? Come si chiama la differenza?”.
“Si chiama Gesù, il Cristo”.
“Ne ho sentito parlare. Ma come posso appendere il mondo a un uomo solo perché tu mi racconti la sua storia?”.
“Per lo stesso motivo per cui Dio ha creato il mondo appendendolo al nulla: è per questo che noi andiamo indietro fino all’inizio, fino alla fede. Lì non c’è un Dio Ignoto, un Bene, un Uno che si irradia nel vuoto, o sullo specchio della sua stessa natura: c’è Qualcuno. Capisci ciò che intendo?”.
“Temo di no”.
“Dio è amore. Prima di ogni cosa, c’è l’amore: quella che tu chiamavi volontà. Per conoscerlo non puoi far altro che amarlo. Per accostarti a quell’inizio, non puoi far altro che credere, cioè essere fedele: e per essere fedele, bisogna che ci sia una parola data. Ma la parola data è di qualcuno, è qualcuno. Non puoi dire: tutto ciò che esiste è un riflesso, una manifestazione dell’Uno; quindi io accederò all’Uno al di là di ogni mia conoscenza. Devi dire: prima del mio principio, c’è la mia fedeltà a qualcuno. Questa fedeltà è la mia pietra di fondamento, l’essere del mio essere. Devo trovare ciò che sono, chi sono: devo trovare quel qualcuno a cui sono stato fedele prima ancora di essere. Dov’è?”
“Non lo so. Dov’è?”.
“Io te l’annuncio”.
“Ma perché dovrebbe essere quell’uomo, giudeo come te, mi sembra?”.
“La domanda non è questa. La domanda è: dov’è quello, quel qualcuno, dov’è colui a cui sono fedele, dov’è colui che mi fonda, colui su cui devo appoggiarmi? Perché per conoscere devi essere conosciuto: devi accettare di esserlo, e non è un’accettazione dell’intelletto, o della ragione. È una fedeltà, un voto, una presa di possesso. Intelletto e ragione le sono sottomessi come il movimento all’arto che lo compie”.
“Ma perché, perché lui?”.
“Chi altri l’ha detto? Chi altri l’ha rivelato? Chi altri lo è stato?”.
“Il fatto che l’abbia detto non è sufficiente. Il fatto che tu lo dica e lo racconti non è sufficiente. Mi stai chiedendo di prestar fede a una storia: può questo cambiarmi la vita?”.
“In quanto hai appena detto c’è tutto il tuo destino: il tuo passato e il tuo futuro. Ascolta la storia. La storia di qualcuno. Qualcuno che ha detto di essere quel qualcuno. Se cerchi prove, cercale nella storia”.
“Ma se io dico di essere Serapide…”.
“Fammelo vedere. Dimostramelo”.
“E Gesù, quell’uomo, come ha dimostrato di essere chi ha detto?”.
“Questa è la sua storia: una dimostrazione condotta non con gli argomenti e i molteplici discorsi, ma con la vita e la morte”.
“Così fanno tutti i saggi”.
“Conosci un saggio che abbia detto: Credi tu che io sono il Figlio di Dio?”.
“In un certo senso è quel che dicono tutti”.
“Il Figlio di Dio è colui che salva il mondo riconducendolo a Dio. Conosci un saggio che l’abbia mai detto?”.
“Forse gli zoroastriani…”.
“L’hanno detto, ma non di se stessi. Chi l’ha detto nell’estasi dell’unione interiore, parlava metaforicamente: non intendeva che avrebbe portato il mondo intero a Dio, in Dio, perché fosse rinnovato, trasformato, reso perfetto nell’amore. Chi l’ha detto da profeta a un popolo, indicava un altro tempo, un altro luogo, un altro uomo: dava parole, non se stesso come parola. E se dava la vita, la dava come uno del popolo, come l’agnello del popolo, come la colonna del popolo, non per farsi mangiare dal mondo intero, fino all’insetto più miserabile, fino all’uomo più disperato. E se insegnava, non insegnava di essere il cardine del tempo e dell’eterno, di essere più di chiunque altro e meno di chiunque altro, il segreto della creazione di Dio e uno schiavo a tiro di schiaffi e di sputi come ciascuno di noi, come il più disgraziato di noi”.
“Io non so più nulla. Più nulla, giudeo. Vedi, Paolo, come torno sempre all’Ignoto, al mio Dio”.
“Torna all’ignoto, e va’ oltre: nel buio più fondo, dove ti sembra esserci nulla. Dio non è ignoto: Dio è amore”.
“E l’amore mi ama e mi conosce prima che io possa volgermi nella sua direzione”.
“Se tu ami, se tu mi ami, il Dio che dicevi di non conoscere è annunciato tra noi, è presente, è il cibo e il respiro che ci scambiamo e in cui viviamo, ci muoviamo e siamo. Se ci amiamo in Gesù, Dio è noto, infinitamente noto: è noto come infinito, ed è nel nostro corpo come pane e vino”.
“Ti prego, vieni da me stasera. Parlando di pane e vino mi hai fatto provare il bisogno e il desiderio di ospitarti”.
“Verrò, e tu capirai, io credo, perché ti ho chiamato figlio mio, e perché sei stato chiamato, alla nascita, Dionisio, in segno di devozione al dio del vino”.
“Va bene, Paolo. Che qualcosa inizi, che qualcosa sia”.
“Non c’è niente che non inizi in qualcuno e da qualcuno, Dionisio, figlio mio”.