Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 26 giugno 2011

Biglietto su Giacobbe-Israele


Cara * * *,

sono perfettamente d’accordo con te sul dolore e la morte: anzi, la mia sensibilità su questo punto è più vicina a quella ebraica che alla cristiana e all’islamica, sebbene ovviamente tutte e tre le rivelazioni abramiche custodiscano qualcosa del grande segreto – il segreto della lotta al guado dello Yabboq. Il dolore all’inizio sembra proprio lo Sconosciuto incontrato da Giacobbe – un aggressore notturno, un assassino, un vampiro. Ma dal combattimento con la sua ombra e con la sua carnale presenza, dalla fedeltà a questo combattimento, scaturisce la richiesta in cui è aperto lo spazio del logos e della fede insieme: “Non ti lascerò andare finché non mi avrai benedetto”. Solo dopo il lottatore scopre che si tratta di Dio, ma può scoprirlo proprio perché non ha ceduto ai due opposti impulsi, così umani e così solidali nel perderci alla visione: la ribellione che si ritrae su se stessa, che si ripiega e si giustifica – e la sottomissione che cerca di scomparire nel dolore, di mimetizzarsi nei colori del dolore. Giacobbe si chiamerà Israele perché “ha lottato con gli uomini e con Dio e ha vinto”. Dio ama vincere lasciandosi vincere, a quanto pare.
Ti abbraccio,
Daniele

Foglietti pitagorizzanti


Esistenza, shunyata, che il mondo è: inconoscibile-indicibile.
Essenze-idee, nomi-forme, come il mondo è: astrazioni dall’integrità dinamica dell’esistenza, possibili – nell’esistenza sono l’esistenza stessa e quindi necessarie; nella loro articolazione di relazioni, di forme delle cose sono contingenti, il loro opposto è possibile.
Da un lato la necessità, manifesta nelle tautologie: dall’altro l’impossibilità, manifesta nelle proposizioni contraddittorie. Tra luce e tenebra c’è l’aurora-crepuscolo, il trascolorare della possibilità-contingenza, il sogno della manifestazione, della molteplicità. Niente può decidere tra sogno e “realtà”: le cose sono reali solo nel Reale, ma in quanto essenze, in quanto nomi-forme, mahiyyāt, sono contrazioni dell’Esistenza-Realtà, prospettive – irreali in se stesse, in quanto separate o indipendenti, reali nell’interdipendenza che ne fa specchio dell’Uno. La contrazione-astrazione è la mente stessa, il riflesso stesso dello specchio, il ritorno su di sé della Consapevolezza pura: una vibrazione d’ignoranza, un movimento che turba la quiete originaria, ma in questa vibrazione, in questa contrazione l’originario si manifesta, e non può che manifestarsi così – sebbene il modo di manifestazione, preso in sé, sia sempre non-necessario, pura relazione.
Il logos come la proporzione-proiezione di Leibniz. Noi conosciamo solo il segno, conosciamo per speculum, ritroviamo noi stessi, verum est factum, e al tempo stesso nel segno conosciamo solo la realtà, perché la realtà si dà come segno e il segno è pars totalis della realtà. La conoscenza umana è sempre conjecturalis, una costruzione, un’astrazione che partecipa della verità nell’alterità, ovvero non in modo mediato né immediato, per somiglianza, ma in modo proporzionale, mostrando-porgendo il logos nell’espressione (Wittgenstein). Dunque la conoscenza è simbolica.
Il modo in cui le essenze si correlano, si legano in unità nella proposizione e nel pensiero, nell’immaginazione e nell’espressione, manifesta ciò che non può essere detto-conosciuto, ovvero l’esistenza, il “mistico”. Il logos, la forma logica, la habitudo, nel suo statuto teoretico-pragmatico, arcaico perché prossimo all’archè, è la musica simbolica, la traccia del suono primordiale nella visibilità-tangibilità del segno, del corpo: per questo ascoltandolo, dice Eraclito, è sapienza convenire che tutte le cose sono uno, e che l’uno è tutte le cose (e dice homologein, accordarsi col logos, risuonare armoniosamente, essere in rapporto proporzionale).
Tutto ciò che vediamo-prendiamo lo lasciamo andare: il conoscibile è il maneggiabile, è il factum, le cose manifeste come proiezioni di desideri, visioni-intuizioni cui si sovrappone una passione. Tutto ciò che conosciamo è astratto, è opera nostra, per questo lo lasciamo andare, lo perdiamo, la sua legge è l’entropia, la morte. Ma tutto ciò che non vediamo-prendiamo lo portiamo: è la vita, l’esistenza, non conoscibile e non maneggiabile, la sua legge è la sintropia, o meglio la pura ostensione come fine a se stessa, telos a se stessa, il lampo di stupore-ignoranza da cui tutto promana e in cui tutto si acquieta. Ciò di cui non si può parlare, l’inconoscibile-indicibile lo portiamo in noi o piuttosto su di noi, lo mostriamo essendo, è la nostra forma, la nostra manifestazione come manifestazione del Reale, quel Volto che non vediamo mai proprio perché lo vediamo sempre in proiezione, in prospettiva.

Il punto (semeion) è l’immagine della monade in quanto dotata di thesis, di posizione: in quanto 0 e 1; 0 come scatto e vibrazione originaria, considerata cioè in modo dinamico: 1 come sostanza, in modo statico. Fuoco.
La linea (grammè) è la rhysis del punto: è l’acqua, la diade, l’uscire da sé, la relazione-irraggiamento che apre lo spazio, l’immagine del continuum temporale-causale.
La superficie (epiphaneia) è aria e luce, la moltiplicazione, lo spazio delle relazioni, del logos, la superficie dello specchio, la rappresentazione. I suoi limiti sono le linee, linee di forza, relazioni, irradiazioni.
Il volume (stereòn) è terra e tatto, la convessità dello specchio, il limite che chiude il mondo davanti all’uomo e la base della sua epistrofè.

L’aritmetica è la scienza del discreto, delle idee/possibili, dell’intelletto, dei numeri come teofanie dell’Uno, come henofanie.
La geometria è la scienza del continuo, dell’immaginazione e della ragione, dei rapporti/logoi. Il rapporto alogos tra diagonale e lato del quadrato: continuo e discreto sono incommensurabili, come idee e individui (materia), ma anche come essenze e Realtà/Uno (hen, syneches, dice Parmenide).

Ogni numero è unità e collezione di unità, uno-molti. L’uno stesso può essere concepito, per mostrarne la natura ambigua (immagine dell’Uno non moltiplicabile, unità che genera, moltiplicandosi, le unità), come l’oggettivazione dello 0. Il due, la diade, è il rispecchiamento primordiale dell’uno, la grammè originaria come flusso, eros, fiotto di sangue, l’uscita da sé della vibrazione raccolta, della monade, la donna, l’immaginazione. Se il tre è l’epiphaneia, lo è in quanto epifania dell’uno, partecipazione prima dell’uno, e nell’uomo la doxa, la congettura, la ragione. Se il quattro è lo stereon, il solido, e nell’uomo la sensazione, lo è in quanto fondamento della tetraktys, della decade e quindi del tutto, termine della manifestazione dell’uno: il volume come onkos che è l’ombra sostanziale/insostanziale proiettata dall’Uovo parmenideo, il toccare come forma primaria di conoscenza animale.

Punto: monade minerale-divina; linea: monade vegetale-angelica; superficie: monade animale; volume: monade umana.

giovedì 16 giugno 2011

I tre figli


Dai tre figli di Noè nascono tutti i popoli: la loro triade complica l’intero edificio sefirotico, anche se l’interpretazione cabbalistica lascia sorpresi, collegando Shem a Hesed, Yafet a Tif’eret e Ham a Ghevurah. In realtà le associazioni sembrerebbero imporsi spontaneamente: Shem, il “Nome”, l’adoratore e il servo del Nome, colui che custodisce il segreto del rapporto Signore-servo, è l’incarnazione della Grazia-Tenerezza divina, è il semita, l’ebreo che si oppone a Ham, il “Caldo”, colui che vede la nudità del padre e ne sperimenta il giudizio, che è destinato a servire, che genera Kanʻan. Ham è il mediterraneo stanziale, ma anche il capostipite delle comunità dedite alla possessione, ai culti dionisiaci e folli che, agli occhi del semita, si fondano sulla punizione tutta sacrale e per niente morale di quello sguardo gettato sulla nudità del padre ubriaco. Sarà servo del servo del Nome, perché la sua terra sarà divinamente usurpata da Israele, l’eletto, così come il suo ardente calore sarà assorbito dalla dolce Torah sacerdotale, che ne resterà segnata. Yafet è il Bello, ma anche Colui-che-si-dilata, il nomade delle steppe, l’arya che scende dal Nord, luogo del Male, per soggiogare sia i camiti che i semiti, e tuttavia dimorerà nelle tende di Shem, troverà pace solo nel cuore delle nazioni, facendosi devoto dell’Uno ma in realtà ancora e sempre del Bello irraggiungibile: il suo eros è brama di cacciatore, di conquistatore, il suo equilibrio in Tif’eret si regge tutto sul braccio destro, sulla sua anima semitica che gli resterà sempre estranea, incomprensibile.
Da un altro punto di vista, Shem è l’equilibrio – Tif’eret – tra Yafet e Ham in quanto cuore delle nazioni, secondo la visione di Yehudah ha-Lewi: così Yafet apparirebbe semmai come l’incarnazione del Giudizio, come la belva feroce che di volta in volta avanza mascherata dalle insegne degli assiri, dei diadochi ellenistici, delle diverse Rome; e Ham è l’eccesso di Grazia, Hesed come abominio e incesto (anfibolia ben presente ai cabbalisti), la sfrenatezza illimite del cananeo, dell’africano, del polinesiano, la sua ardente dolcezza che Yafet schiaccia e Shem beve con astuta sobrietà.

martedì 14 giugno 2011

Rileggendo le Sentenze di Porfirio


Parto da Parmenide e dal suo uso del termine tò mè on, il non-ente: a differenza di ou(k), negazione assoluta, oggettiva, è negazione relativa – indica un non-essere che non è il nulla (logicamente-metafisicamente impossibile), ma un approccio diverso all’essere-che-è, ‘qualcosa’ che è in qualche modo legato all’ente.
L’ente è, il non ente non è. Di fronte a qualcosa che è, che viene a noi come immagine, non abbiamo da cercare altro, o altrove: è, si manifesta, si ostende, si dà. Di fronte all’ente, possiamo rispondere in due modi: tenerci congiunti all’ente attraverso l’attenzione, in modo che al fondo della nostra contemplazione, silenzioso, implicito, sia custodito l’Uno, lo sfondo di semplicità che è nell’ente, al di là/al di sopra dell’ente (ma non da un’altra parte! Per utilizzare una metafora pitagorizzante, è come un armonico, un ipertono scaturito dal suono che stiamo suonando); oppure possiamo uscire dall’ente, separarci dall’ente con un atto di disattenzione che produce un’astrazione menzognera, un non-ente che è negazione (impossibile) dell’ente. Questa astrazione è l’approccio dualistico all’immagine, all’ente: non essendo presenti a noi stessi e alla cosa, proiettiamo e ipostatizziamo un sostrato di nulla a cui si sovrappone l’essere della cosa. Così la materia, non-ente al di sotto dell’ente, limite infimo dell’emanazione, specchio capovolto dell’Uno che ne è il limite supremo, svela la propria natura giocosa, illusoria, inconoscibile, che noi solidifichiamo in “passione menzognera” lasciandocene irretire: letteralizzando. La materia è una sorta di letteralizzazione del riflettersi dell’Uno: o meglio, è il riflettersi dell’Uno che ci tenta, ci provoca alla letteralizzazione, pur rimanendo giocosamente inafferrabile ad ogni letteralizzazione.
L’uso del verbo pro-noein (lett. avere una prenozione) allude a ‘qualcosa’ che precede il nous (l’intelletto-contemplazione), che sta sullo sfondo del nous, irraggiungibile dal nous in quanto tale, sempre ulteriore (‘come’ la materia: inafferrabile, eppure intimo all’ente. Hermes insegna: Ciò che è in alto è come ciò che è in basso).
Secondo Plotino e Porfirio, ‘sperimentiamo’ l’Uno nell’ekstasis, quell’uscita da noi stessi al di sopra di noi stessi e dell’ente che si riflette nell’estasi dell’anima verso la materia, nell’uscita da noi stessi al di sotto di noi stessi e dell’ente (il termine usato è lo stesso). Secondo Proclo e Giamblico, poiché l’Uno è al di sopra dell’essere e del pensiero può essere ‘conosciuto’ solo nel silenzio dell’azione sacra, nel rapporto teurgico con i “simboli muti” dell’iniziazione.
[Nota bene: per non letteralizzare la gerarchia neoplatonica dell’emanazione, ricordiamo che, se l’estasi verso l’Uno si riflette nell’estasi verso la materia, c’è un rapporto in qualche modo reciproco. L’ignoranza inferiore è specchio di quella superiore e mistica. La ‘distrazione’ con cui l’anima esce da sé verso le cose materiali, con cui si esteriorizza, se ritorna su se stessa (la ri-flessione, il ri-torno che è l’essenza del fare anima), è proprio lo stupore radicale, la perplessità di fronte all’essere in quanto tale che caratterizza il culmine della contemplazione e che è l’‘esperienza’ dell’Uno. Insomma: dove c’è una gerarchia, c’è sempre un rapporto dialettico, circolare, come quello Signore-servo così bene studiato dall’appassionato Corbin...]

lunedì 13 giugno 2011

Corpus spirituale


La luce del De luce è quella della fase seconda e mediana nelle cosmogonie arcaiche, la luce-suono, vibrazione (onda)-corpuscolo, corporeitas ovvero forma della corporeità, inchoatio formarum ovvero cominciamento delle forme (visibili), della terza fase, in cui si delinea la dualità luce-materia. La luce del trattato di Grossatesta è la luce creata della Genesi, del Fiat lux, e insieme la manifestazione della “caligine luminosa” divina, dell’ineffabile Luce increata dello Pseudo-Dionigi. La ricchezza infinita della Divinità, suono silente e luce oscura, esce di sé, si comunica in un graduale precisarsi delle polarità originarie: così la “caligine”, l’Immanifesto, la profondità divina originaria si manifesta piuttosto nella (presunta) inferiorità ontologica della materia, del thou wa-vohu inseparabile dalla forma luminosa, espressione creata dell’originaria tendenza-tensione all’autoconoscenza, all’offerta di sé in altro.
Il punto luminoso, agganciato alla ricettività della materia, è l’intersezione fra la IV dimensione dell’aion e il mondo tridimensionale, misurato-generato dall’azione della forma sulla materia, entrambe semplici. Questa semplicità-spiritualità, che si può intendere come adimensionalità o come sovradimensionalità, dà origine alla geometria del mondo creato attraverso una diffusione o propagazione continua. Il finito nasce da una ‘moltiplicazione’ infinita (o piuttosto diffusione continua) del semplice, del punto originario (ricorda un poco la teoria degli insiemi di Peano, che mette a fondamento dei numeri lo 0); pitagoricamente, i numeri sono rapporti, generati dall’interazione dell’uno e della diade, della forma e della materia, dalla rhysis continua del punto.
Il punto che si espande in sfera è la manifestazione della IV dimensione nel ‘mondo’ tridimensionale: la ‘prima sfera’ o corpus spirituale, materia traslucida, è il firmamentum-raqi‛a come separazione-mediazione tra immanifesto e manifesto, tra acque (vibrazioni) superiori sovraformali e acque inferiori formali, variamente coagulate-pietrificate nel mondo ‘di veglia’, visibile e confinante con la morte. È la volta del mondo, il luogo di confine in cui il mondo si rovescia come un guanto.
La natura indecidibile della luce, onda-particella, ne fa il corpo spirituale o la forma corporea per eccellenza: attraverso la luce-occhio si vede, ma la luce non si vede. La luce, in senso proprio, è Dio, o almeno il Deus Revelatus, Dio in quanto si manifesta: quando si chiama ‘luce’ qualcosa al di sotto di Dio lo si fa per via di metafora (mi pare al-Ghazali), per analogiam. La polarità luce-tenebra genera i colori, le forme visibili, ma è piuttosto la luce del quarto giorno; mentre la polarità luce-materia individuata dal Grossatesta sembra riguardare la luce e la tenebra del primo giorno, la luce formale e la resistenza-opacità-plasticità della materia prima. Tutto, nel creato, è forma-materia, luce-materia, corpo spirituale più o meno denso, discreto e continuo, finito e infinito.
Il punto di Grossatesta e la perla bianca (durra baydā) del hadith, materia prima spirituale dell’universo, luce muhammadica, prima creatura.

La spissitudo essentialis di More si manifesta chiaramente nelle distillazioni alchemiche e omeopatiche: è la densità dello spiritus, la sua elasticità, la sua peculiare extensio che va cercata per così dire verticalmente e internamente rispetto alla tridimensionalità dei corpi. (Il tema già aristotelico della proporzionalità inversa tra estensione e potenza).

domenica 12 giugno 2011

Altra vacanza ad Elea


La palla-sphaira di Parmenide come aion, eterna aurora angelica, l’istante teofanico, la manifestazione (eon, Phanes) come Tutt’Uno sospeso alla possibilità negata del non-essere, unus mundus che è il volto, la forma esternamente limitata-determinata dai ceppi di ananke. Aletheia, la suprema posizione, è negazione-superamento ab aeterno del velo di Lethe, del non-ente come menzogna-separatività.
Il retto di uso di logos, la dizesis retta, conduce allo hen kai pân, e il suo sentiero è dominato da Peithò, dalla Persuasione che appartiene al corteggio di Aletheia-Afrodite. L’altro uso possibile di logos è la dialettica distruttrice, che sganciata dai vincoli di boetheia, del misericordioso aiuto (karuna), conduce alla negazione, al trionfo apollineo di un logos che si annienta nel tragico gioco di Gorgia (Zenone continua a stringere, come Arianna, il capo del filo).

Nell’aion, la ghenesis è l’apparizione eterna, thanatos è il limite di ananke, negatio negationis, il mutamento (kinesis) è l’unimolteplicità delle relazioni interne alla totalità (vedi Uspenskij sulla quarta dimensione).

La dualità come proiezione dell’individualità separata, e viceversa. L’aurora dell’essere viene così limitata alla luce della forma, che si contrae per la sovrapposizione ad un sostrato di tenebra-materia.

Seguendo il filo del ragionamento analogico di Fechner nel Libretto della vita dopo la morte, il concepimento può essere pensato come la morte del daimon/psychè, la IV dimensione che si contrae in un punto germinale; il sonno vegetale, il radicamento nella madre-terra, corpo “immediato” del feto. (Il primo stato è inconsciamente ciò che il terzo sarà, o almeno può essere, consciamente). Qui avviene la “costruzione” graduale del corpo del secondo stadio, manifestazione della “volontà” fetale (radicata nella madre).

Il divieto-dissuasione della “via” del non-essere è monito a non dare solidità-realtà al non-essere, a reincorporarlo nella sfera dell’eon come limite intrinseco, a non separarlo (dualismo della doxa) dalla scaturigine divina del logos (l’aion). Zenone, mistico dialettico, nega la negazione e apre indirettamente lo spazio di Aletheia.

Rapporto tra Empedocle e Parmenide. Se Afrodite-Philotes (ri)costituisce lo Sphairos ed è intima (phile) alle cose, e lo Sphairos è (corrisponde a) Aletheia, Neikos ha un legame con l’irrealtà, col non-essere, con la menzogna. Esterno alle cose, disgregatore, è il volto oscuro di ananke, è il giuramento degli dèi sulle acque dello Stige (cui Empedocle fa cenno in un passo del poema). Oppure parlare della physis, dei suoi cicli, del suo opus alchemico, implica l’ammissione del non-essere nel logos (come antagonista da vincere, da ricondurre al suo nulla); implica cioè un logos in qualche modo (più) illusionistico-artistico, che accolga in sé la māyā, o la accolga in modo più strutturale e meno ironico?

Qual è la portata etico-politica dell’insegnamento di Parmenide, legislatore del logos e della polis? Il pathos aristocratico sembra addirittura eccessivo, ben più che nei pitagorici: il sapiente-reggitore è uno sciamano, un eletto, uno che è andato al di là dei sentieri dei mortali e ha incontrato la Dea senza esserne letteralmente annientato. Eppure il logos che addita è un nomos: se le doxai sono apparenze solidificate, costruzioni dell’abitudine e del costume, i dokounta sono le parvenze aurorali, ed è necessario esaminarle, verificarle, dokimâsai, come si fa coi ragazzi che accedono all’efebia, con gli stranieri che ambiscono a diventare cittadini e con i cittadini che vengono segnalati per pubblici uffici. Tra l’esperienza misterica e regale-sacerdotale (il cuore che non trema di Aletheia perfettamente sferica) e le doxai instabili, soggette ai soffi delle passioni individuali e collettive, media il retto logos: dokimâsai ta dokounta, sottoporre a pubblico esame le apparenze, in modo da cogliere le opere umane nell’orizzonte dell’eterna presenza, alla luce della Manifesta. Così, muovendo nella sua ricerca, nella sua quotidiana dizesis, tra unificazione (synistamenon) e molteplicità (skidnamenon pantos pantei kata kosmon), tra archesthai e higmai (diexodos/epistrofè), il logos, l’uomo, non dimenticherà (a-letheia) l’aion in cui l’eon è contiguo all’eon – ovvero il presente in cui ogni cosa è presente a ogni cosa e a tutto.



sabato 11 giugno 2011

Traducendo lo Shir ha-Shirim di Salomone


o se tu fossi mia sorella
non un adamo piagato
se io fossi tuo fratello
non il relitto aguzzo
di un ventre inabissato
se gli spasmi di sogno – illimitati –
del nostro finale nascimento
li avesse battezzati
un latte memorabile e comune
come adesso alla meglio durerei
il lume in cui il tuo corpo può sostare
e che il torbido sale del mio occhio
crepitando si sforza di salare

Luglio/Agosto 2002 –

Eros deute


I.

Quelle rotaie di tenebra
che i tuoi fuochi accolsero fischiando
come si sono fatte molli liane
in ronzio di midollare
dormiveglia lentamente
sospese… È stata l’ora,
ma ora no. Forse riscorreranno
a cancellare chiome e sorrisi,
a mescere un cordiale di stanchezza
renitente, come di scolaro,
se la maestosa cecità dei mondi
ricordi ancora il suo segreto astuccio
dei farmaci, l’angolo spento
e magico che il Tempo ha rosicato.

II.

Quelle molli liane di tenebra
alle quali tu resti impigliato
per esplorare l’inferno della madre
oppressa dal suo trionfo,
sempre tiepida d’acquiescenze sovrane,
e l’incerto sottobosco di stelle
che tua sorella disegnò col dito
sulla porta del ventre,
quei diametri strappati alla Gnosi
dalle tue chele polverose ed arse,
dalla tua sorte prodigiosamente marina
nella terra della visione,
– ti reggeranno forse ancora un poco,
quel poco immondo, quella sosta di brume
velo sull’alopecia della selva,
quella per cui non avevi pregato.

23 luglio 2002 –