Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 9 luglio 2011

Tre letterine di merda


Caro * * *,

c’è una pratica spirituale hassidica che mi sembra utile accostare alla terapia hillmaniana – anche se il Nostro sicuramente la troverebbe troppo ‘spirituale’ e ‘monoteistica’...
Si chiama ‘elevazione dei pensieri estranei’: ed è già interessante quel sostantivo, aliyah, che indica sia la salita che il ritorno in patria, congiungendo così le due idee di anodos e di epistrofè. Secondo i hassidim, quando ci viene un pensiero (una fantasia), ad esempio di collera o di lussuria, il nostro errore/peccato consiste nell’identificarci con esso (essa); in realtà il pensiero-fantasia proviene dagli archetipi divini – in questo caso Collera (Ghevurah) e Tenerezza (Hesed) – che sono la manifestazione plurale di Dio stesso. Il praticante dovrà dunque ‘ricondurre’ la fantasia alla sua radice, attribuendola a Dio; attenzione però, perché così facendo non si libera dalla fantasia, bensì libera la fantasia: infatti il compito mistico dell’uomo, secondo la Qabbalah, è quello di ricostituire (tiqqun) l’unità di Dio, far ritornare le scintille della Shekhinah – che è al tempo stesso l’Anima mundi e l’estrema sefirah di Dio – alla loro fonte.

Caro * * *,

a proposito di anima dei luoghi, quanto di solito ci resta inconscia l’anima del cesso! Cesso, cioè ritirata, luogo della privatezza... ma è proprio vero? Luogo del pudore senz’altro, anche se non è sempre stato così, almeno per chi era tutto pubblico, come i re e i papi che ricevevano ambasciatori sulla seggetta. Ma, anzitutto, luogo di una meditatio mortis quasi spontanea, dalla ritualità strana eppure inesorabile, molto culturale. Se, come dice Eraclito, l’anima annusa in direzione di Hades, lo spazio e il tempo del gabinetto sono uno spazio-tempo angusto in cui si entra in contatto con gli inferi, con l’anima infera, e in modo tanto più abbandonato e rilassato (ma sempre con una certa tensione e inquietudine) quanto più, fuori, ci si distacca dalla bassezza e profondità di psiche. Il cesso è essenzialmente angusto, anche quando vogliamo esorcizzarne l’angustia letterale con metrature ampie, luce, calore, idromassaggio etc. L’arte ha conosciuto quasi solo il cesso comico – e il comico è mortalmente dionisiaco – oppure il cesso simbolico e/o iperrealistico, de-idealizzante e spoeticizzante dell’avanguardia, del cinema... Svidrigajlov, in Delitto e castigo, immagina la sua eternità atea e disperata come un cessetto di quelli di campagna, con la ragnatela, il raggio di luce, la sospensione umiliante-confortante, il cattivo infinito delle fantasticherie latrinarie (evacuazione, evacuazione)... E l’esorcismo della lettura al bagno, portare il logos e la meditazione (ma un logos e una meditazione volti a minimizzare, evadere, distrarre) nel luogo dove i diritti del corpo mettono l’io fra mortificante parentesi... E la storia estetica del bagno, le latrine militari, i bagni pubblici, i bugigattoli minuscoli di un tempo – così simili, fino a non molto tempo fa, per il re e il plebeo – e poi il bagno inglese con la coppa contrapposto alla turca orientale, in cui il muscolo rimaneva vivo, mentre il sedersi sull’affare bianco e poi inondare tutto con cinque litri d’acqua limpidissima è stato ed è un grande allestimento vittoriano, via il celiniano “odore della merda”, che guidava nelle ancora oscurissime notti degli anni ’10 del ‘900 i soldati verso la loro trincea...
Se ti va di continuare – la direzione è kato, ovviamente, ‘la via verso il basso’, la catabasi – fammi un fischio!

Caro * * *,

in effetti il carnevale, unica o quasi sopravvivenza del dionisiaco nell’eone cristiano, è anche uno sfogo un po’ triste – come i Saturnalia dell’antica Roma e i periodi d’infrazione dei tabù nelle popolazioni arcaiche: sospensione della recita del potere politico o della foltissima messinscena magica, servono giusto giusto a confermarle e rinsaldarle. Semel in anno licet insanire. Ma il carnevale non è certo l’unica festa: tutta la vita arcaica è festosa, e anche ad una certa distanza dall’arché, fino a non troppe generazioni fa, le feste ritmavano l’anno con ‘grazia violenta’ (famoso e sublime ossimoro eschileo). Del resto, la regolarità stessa dell’anno solare ispira la malinconia, il senso qoheletico della circolarità soffocante: ma la figura della vita religiosa è la spirale, il cerchio che non muore su se stesso, ma fiorisce – attraverso l’iniziazione, per la quale tutti sono chiamati, ma pochi eletti – in fiamma turbinante.
Si festeggerà pure il carnevale una volta l’anno, ma si caga tutti i giorni, se Dio vuole: la merda non ci lascia, come gli dei. E sono d’accordo con te che la Città Ideale è l’inferno in terra, se pretende di realizzarsi. Civiltà fondate sulla forma e anzi sull’Uno come l’islam e la cristianità medievali non erano lager sorvegliati da phylakes platonici letteralizzati: Cordova e Firenze non somigliavano a Città del Sole campanelliane, erano splendide, micidiali, tumultuose, disordinate, meridionali. Il senso del tragico e l’amore per la bellezza nascono solo in epoche sul crinale della decadenza, di ricchissima dissoluzione, di fuga caotica e inquietante degli archetipi, in popoli pieni di fosche energie, colorati e folli: su questo Nietzsche è infallibile, e Artaud (Il teatro e la peste, ovviamente) non lo è di meno. Due pazzi!



giovedì 7 luglio 2011

Amleto


Nel saggio giovanile di Florenskij, l’indecisione di Amleto è quella del suo evo, da lui in quanto eroe tragico incarnato, in cui si vive il transito incerto e angoscioso tra la visione pagana, centrata sull’onore della stirpe, la solidarietà del sangue e la vendetta, e quella cristiana, fondata sul perdono delle offese, l’amore personale per il nemico, il superamento dell’unità del ghenos nell’unicità del singolo come membro di Cristo. In qualche modo i dilemmi del principe danese vengono così trasferiti dalla scena della coscienza individuale scissa e sofferente all’ambito più vasto della coscienza collettiva archetipica, ierostorica, daimonica: tale la direzione indicata da Santillana e dalla von Dechend nello studio sul “mulino” di Amleto-Amlodhi, ovvero l’eclittica. “Il Tempo è fuori dai cardini (out of joint). O sorte maledetta, che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto!” (I. 5). Tuttavia la debolezza della coraggiosa prospettiva florenskiana si tradisce nello scarso rilievo che assegna ad un aspetto essenziale: nel passaggio, la coscienza pagana percepisce il nuovo, la nascente e imminente coscienza cristiana, solo come dissoluzione del noto, come scardinamento, appunto, dell’ordine antico, come la prodigiosa stanchezza del titano-Tempo di fronte a un paesaggio di rovine e la sua agitazione, la sua inane febbre di iniziazione che non inizia, di impossibile distillazione dell’evo. Nel crogiolo tragico le linee contrastanti si annullano, si apre un vuoto sul quale potrebbe anche stagliarsi una metafisica, una segreta liberazione, resta un silenzio di fatum e ironia che potrebbe anche impregnarsi di un seme ancora inaudito e inaudibile.

mercoledì 6 luglio 2011

Frammento di una lettera di Antigono di Cirene, filosofo eclettico del I sec. d. C., al discepolo Quinto Lucilio Vittore


…noi non veneriamo più, a differenza del popolo ignorante, i molti dèi inventati dai poeti antichi, ma come i Giudei rendono un culto materiale a un unico dio irrazionale, così noi rendiamo un culto intellettuale a un unico dio razionale. E tuttavia, essendo la nostra anima naturalmente inclinata verso la molteplicità, a volte trae dalla devozione ai molti un vantaggio maggiore che dall’ossequio tutto interiore e astratto all’Uno, principio di ogni principio. Per tornare ai Giudei, che come sai ho avuto modo di frequentare quando ero acquartierato con le truppe ausiliarie a Cesarea Marittima, i loro maestri insegnano che il suicidio è un grande peccato perché lede la maestà del Dio Unico, è una sorta di insubordinazione contro il reggitore del cosmo e contro il cosmo stesso e dimostra un empio rifiuto del proprio destino, insomma, per dirlo in una parola, riassume in sé ogni male in quanto sorge dal primo dei mali, l’ingratitudine o disobbedienza. Mi obietterai che la filosofia prende le distanze da tali oscuri ragionamenti ed è anzi un cammino di purificazione razionale che ai misteri della massa incapace di condursi liberamente sostituisce i misteri di una mente libera, chiara e potente; e tuttavia chiediti se la maggior parte dei filosofi non arrivi a conclusioni molto simili a quelle dei rozzi maestri dei Giudei. Questo perché sia i devoti dell’unico dio irrazionale, sia i devoti dell’unico dio razionale non riescono a immaginare che qualcuno possa suicidarsi se non per pochissimi motivi, e tutti riconducibili ad uno e uno soltanto: ovvero il giudicare la vita indegna di essere vissuta, per i pericoli che la minacciano, per i morbi che la consumano o per il tedio che la svuota. Entrambi pensano al suicidio come alla violazione di un’unica legge, come all’affronto a un unico dio. Ma se noi fossimo dei popolani ignari di ogni educazione o vivessimo nel tempo dei nostri padri non saremmo dello stesso avviso: riferiremmo i molti suicidi che avvengono tra gli uomini di ogni ceto, origine e natura, di volta in volta a dèi e archetipi diversi, e considereremmo la deliberazione del suicida un tentativo di interpellare o provocare questa o quella potenza daimonica. E sebbene questa molteplicità di punti di vista sia più conforme alla natura e alla struttura interna dell’anima, volta al molteplice o piuttosto tesa tra l’uno e i molti, io non voglio certo indurti a ripudiare la tua formazione filosofica e a mescolarti al popolino per condurre un’esistenza piena di timore e turbamento; voglio invece suggerirti un esercizio che è filosofico perché accosta l’anima alla sapienza, ma che molti di quanti si dicono oggi filosofi giudicheranno un vano gioco delle passioni. Considera che la Legge del cosmo è una, ma non può che esprimersi in mille decreti, e invero quasi tanti quanti sono i suoi sudditi; perché una sola norma scritta per tutti gli uomini dell’universo sarebbe fonte di angoscia, terrore e confusione come un regime tirannico o, che è lo stesso, una stolta superstizione. Considera che se molti suicidi avvengono per stanchezza della vita o per disgusto della schiavitù e dell’infermità, ce ne sono o ce ne possono essere molti altri che vengono messi in atto per motivi completamente diversi: e infatti, se non crediamo all’unicità e irreversibilità di questa esistenza corporea (tale credenza è a mio giudizio all’origine del culto di un unico dio, razionale o irrazionale), ma la vediamo come un modo particolare in cui si manifesta un’idea o essenza più grande, un suicidio può essere molte cose, perché l’anima stessa può essere e anzi è molte cose, la molteplicità delle cose. Perché, ad esempio, non potrebbe essere considerato un’oblazione agli dèi inferi, o una vendetta, o un tentativo di calcare un altro sentiero dell’esistenza, oppure, come suggerivi tu stesso in quella notte terribile, una domanda impaziente…

martedì 5 luglio 2011

Frammento di salmo


a L. T.

Sul buco del mio cranio
s’è posata la polvere dei mondi,
la fontana è turata,
mormora nelle tempie
con singhiozzi di memore murata.
Come tornerai, mia acqua,
mio olio, mia ferita,
mia pena, mia canzone? Questa attesa
mi perde, se non è trepida
cecità, disperata attenzione.
Io sto dove tu sei: della mia polvere
faccio arida e giusta libagione.

domenica 3 luglio 2011

Sub rosa (2002)


Rilke: “Rosa, oh pura contraddizione, piacere d’essere/ il sonno di nessuno sotto tante/ palpebre”. Nietzsche su apparenza e parvenza. La parvenza, l’immagine, poiché è mediazione, relazione, sentimento della complessità archetipica come molteplicità (phronein) non exprimit una sostanza, un contenuto, un ente nascosto (1), ma manifesta un indicibile, un non-soggetto, sovra-noetico (to on, ciò-che-è, manifestazione-presenza, non c’è un obscoenum). Il nous è l’uno-dei-molti, è spiritus, vertice e sposo dell’anima-immaginazione, ma non è oltre la parvenza: è la sua interiorità vivente e pulsante, non il suo contenuto. Il sole porta significatione dell’Altissimo, dell’Esistenza, che è il sole del sole, la realtà del sole.
Il vuoto è la forma, e insieme non è nessuna forma (nessuna delle forme, non questa forma in quanto è questa): ne ti ne ti; questa complessità è il nascondimento e la parvenza, è l’eccesso dello spirito creativo e la riflessione dell’anima immaginativa, la non-dualità nuziale, vivente, cardiaca-circolante, di spiritus e anima.
L’imago è prospettiva, sì, ma di nessuno, non-soggettiva: è idea, intuizione impersonale, volto afroditico e interiorità estatica, dionisiaca, comune (koinòn-xynòn in Eraclito). È ‘illusione’, ‘menzogna’, ma universale o diciamo meglio impersonale, non-individuale, non-separata, non in relazione a un ente-verità (a una verità entificata), bensì perché la sua particolarità, il questo-qui dell’istante (l’ekaston o ciascunità) deve (ananke) manifestarsi come non-interezza, schermo-specchio, immaginato e non immaginante (idolo, contenuto mentale, appoggio-vincolo). La complessità è irriducibile, la semplicità non è mentale (non può farsi oggetto di conoscenza), è la chiarezza e la libertà della percezione nel suo esser-comune, impersonale, estatica, ‘così-com’-è’.
Poiché non si conosce senza fantasmi (Aristotele) e metafore, conoscere non è: cogliere con, attraverso i fantasmi e le metafore ciò che è oltre i fantasmi e le metafore, ma: essere nella manifestazione, nel manifestare, partecipare all’atto creativo-manifestativo nell’alterità e nell’identità, nello specchio. Moshe Cordovero dice: In principio creò Elohim, ovvero: In principio nessun soggetto creò Elohim, il creatore, la persona dell’immaginazione; non quindi come oggetto, ma come apparizione, parvenza.

Nota:

1) Cfr Ibn Arabi: il mondo è una totalità composta di accidenti, ma Allah-Esistenza non è la loro sostanza.

Edipo


Oidipous, Piedegonfio, figlio del pederasta Laio e dell’arrendevole Giocasta, è il logos che uccide il padre (affetto dal thymos, dall’avversione per ciò che attraversa la strada del suo viaggio, il Padre) e copula con la madre (affetto dall’epithymia, dall’attaccamento incestuoso a ciò che viene preso per troppo-noto, la Madre): concepito nell’ubriachezza, come nel mito gnostico, generato sotto il peso di un oracolo interpretato secondo un logos unilaterale dal Padre, che la Madre-Materia mette in atto. È il figlio del Canto della Perla, ma non è stato gettato sul Citerone per una consapevole epistrofè. Leggerà, come il Padre, con la cecità del thymos, e si attaccherà alle radici che ha conquistato, alla Madre carica di obliosa epithymia. Laio rimuove il figlio, non lo mangia: Edipo trascura il padre, non si vendica. L’oscurità tragica è tutta proiettata dal logos: i piedi gonfi sono le potenze inferiori offese, ferite dall’eccesso mentale apollineo, che però costringono ad un passo tardo, senile, irregolare, impongono la profetica terza gamba che è un terzo occhio più cieco di quelli accecati.

In cruce


Nel calice dell’ira c’è il dolore essenziale del corpo e lo spirito di vertigine dell’anima, ubriaca di inquietudine. Lo spirito/Spirito, vuoto com’è, è lo spazio vivente, lo spazio di ferita in cui la duplice sofferenza si svela unica, abisso di domanda volto alla pienezza che è superamento del bisogno di risposta. Il dolore del corpo è un’ancora, l’ubriachezza dell’anima un mal di mare, un naufragio. Sulla fissità della croce Gesù sperimenta un dolore cui è sottratto il corpo quando grida al Padre: il Padre che non si sente né conosce più è il corpo sommerso dalla marea del dolore “mentale”; ma non è dolore disincarnato, anzi, poiché il grido è di tutta la carne, è quello l’istante dell’Incarnazione, l’urlo natale che il balbettio dello Spirito maieuticamente fa uscire nella carne. La parola s’incarna quando la vertigine dell’anima disancorata sente il corpo solo come assenza, assenza di corpo, morte, e quindi si realizza lo spirito carnale, lo spirito totale, la convergenza improvvisa di domanda e risposta, l’improvvisa pace dolorosa tra il corpo (corpus) della rivelazione e l’anima vagabonda.