Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 30 novembre 2011

La creazione dell’Uomo


Bereshit Rabbah VIII,5:
“Rabbi Simon disse: Quando il Santo – sia benedetto – venne a creare il Primo Uomo (Adam ha-Rishon), gli angeli ministranti (mal’ake ha-sharet) si divisero in gruppi e fazioni. Alcuni di loro dicevano: Non sia creato, altri: Sia creato, così com’è scritto: Grazia (Chesed) e Verità (Emet) si scontrarono, Beneficenza (Tzedeq) e Pienezza (Shalom) si armarono l’una contro l’altra (Sal 85,11). Grazia diceva: Sia creato, perché compirà opere di grazia; mentre Verità diceva: Non sia creato, perché non sarà altro che un cumulo di menzogne. Beneficenza diceva: Sia creato, perché farà opere di beneficenza; Pienezza diceva: Non sia creato, perché non sarà altro che scissione. Che fece il Santo – sia benedetto –? Prese la Verità e la gettò a terra, così com’è scritto: E gettò la verità a terra (Dn 8,12). Dissero gli angeli ministranti al cospetto del Santo – sia benedetto –: Signore dei mondi! Perché disprezzi il tuo sigillo [o: il tuo mastro cerimoniere]? Che la Verità risorga dalla terra, così com’è scritto: La Verità germoglierà dalla terra (Sal 85,12).
I nostri maestri dicono quanto segue a nome di R. Chanina, mentre R. Pinchas e R. Chilqiya lo dicono a nome di R. Simon: Me’od [lett.: “molto”] è lo stesso che Adam [Uomo], così com’è scritto: E Dio vide tutto quel che aveva fatto, ed ecco, era molto [me’od] buono, ovvero: ed ecco, l’Uomo [Adam] era buono.
R. Chuna il Vecchio di Sepphoris disse: Mentre gli angeli ministranti discutevano e disputavano gli uni con gli altri, il Santo – sia benedetto – lo creò. Disse loro: Che cosa discutete? Ormai l’Uomo è fatto!”

Il midrash medita immaginativamente la creazione di Adamo, dell’Universo, Micro-Macrocosmo.
Dio consulta gli angeli, ovvero i suoi Nomi, essenze non-esistenti, relazioni immanenti al suo pensiero. Il loro confronto è quello dei possibili in Leibniz: tutti i possibili presenti nell’intelletto divino tendono all’esistenza, ma solo quelli compossibili possono ricevere da Dio, con un atto della sua saggia volontà, la luce dell’esistenza, del wujud.
Contrasto tra gli angeli: Ibn Arabi osserva che gli angeli, forme separate, esseri puramente intellettuali, temono la rivolta nell’uomo e la mettono in atto per primi; la proiettano su di lui, o meglio, essendo gli angeli le facoltà, le potenze sottili del Macranthropos, la loro rivolta si rispecchia in quella dell’Adamo. La citazione del Salmo appare stravolta: i Nomi secondo la lettera si incontrano e si baciano (nell’alfa e nell’omega, nell’archè e nell’eschaton), secondo il derash si scontrano e si armano gli uni contro gli altri (sulla soglia del tempo, della creazione).
Verità (Emet) e Pace-pienezza (Shalom) contro Misericordia-Grazia (Chesed) e Beneficenza (Tzedeq). Verità, come Iblis, preferisce che il mondo non sia: è la fedeltà all’Uno Immanifesto, il Sigillo di Dio nella Sua indipendenza dai mondi; è il Giudizio che distrugge preliminarmente, essenzialmente, ogni contingenza, la Necessità – ma l’esistenza del mondo, del kawn, è contingenza, è necessità condizionata, necessità in alio, non-essere illuminato dall’Essere divino. L’essere del mondo è l’assurdo sentito da Sartre con nausea. Se Emet è l’inesistenza, l’immanifesto principiale, Shalom è la Pienezza finale, di fronte alla quale il mondo è in ritardo, è ritardo (Mulla Sadra).
Iblis non si prostra al cospetto dell’Uomo perché non congiunge Unità e Molteplicità, non concepisce l’amore, il Soffio di Misericordia: Allah gli ricorda che l’Uomo è stato creato dalle due mani di Dio, da Giudizio e Misericordia, Unità e Molteplicità, è il ponte tra l’eterno e l’effimero, conosce e dà i nomi alle cose in quanto khalifa di Dio, mediatore. Iblis nega la mediazione. (Conoscere e dare i nomi è foggiare le essenze, creare il mondo con il logos e il linguaggio, il verum est factum: segno di debolezza, di vicinanza a Maya e alla materia rispetto alla pura intuizione angelica, ma anche di vicinanza al punto di inizio dell’epistrofè, poiché nella mente umana le cose ritornano a Dio, vengono trasmutate).  
Associazione Adam-me’od (tov me’od, “molto buono”, detto solo dopo la creazione dell’uomo): in un altro passo me’od è accostato allo yetzer ha-raʻ, alla libertà. Una volta creato l’impulso al male, l’immaginazione del male, l’attaccamento mondano come fermento che solidifica l’ego, la lode dell’essere diventa ad un tempo più difficile e più alta: il “molto buono” non è il kalà lian che indignava Schopenhauer, ma un grido dionisiaco (che avrebbe scandalizzato Schopenhauer). 
Dio getta Emet sulla terra: in altri midrashim allontana dagli angeli – e da sé – la visione del male, degli uomini malvagi che corrompono l’essere creato. Una sorta di brusca confutazione, di brutale argumentum ad hominem, ma anche una Unterdrückung intradivina, un’automutilazione della coscienza divina. La caduta di Emet anticipa quella dell’Uomo: è una umiliazione che rende possibile lo tzimtzum. Ora gli angeli chiedono unanimi che Emet venga fatta risorgere dalla terra, speranza messianica – ed è appunto questa l’opera dell’Uomo. [Citazione di Daniele: visione apocalittica del Tempio profanato dal capro, che sostituisce la trasgressione al sacrificio quotidiano e getta a terra Emet, la fedeltà-verità; questo atto avrebbe il suo esemplare e archetipo nella creazione dell’uomo, simile quindi a una profanazione, a una distruzione del Temenos preesistenziale. Citazione del Salmo: la verità risorgerà, risalirà, ritornerà – verbo ʻalah – dalla terra, dall’umiliazione-umiltà, dal punto più basso, de profundis].
Mentre gli angeli continuano a dibattere, Dio crea Adamo. Non essere vince ogni logos, dice lo stasimo sofocelo – e pensa Emet: la creazione è un moto di volontà-amore, è Maya come libertà divina e illusione, pone un ostacolo, determina una contrazione affinché vi sia manifestazione, affinché l’intimità e la profondità essenziali si comunichino, si sacrifichino ‘in vista’ dell’Unità finalmente realizzata, perfetta, in pieno possesso delle proprie articolazioni e complessità e della propria semplicità sovraessenziale.        

Il polemos del mondo-Adamo ha la sua radice nel conflitto tra i possibili-idee-dei-angeli: l’Essenza si determina nell’unimolteplicità dei Nomi, del Nous, creazione primordiale, in cui domina la pace, l’assenza di phthonos, solo nella sospensione della contemplazione principiale; nel rapporto con la creazione degli individui reali, ovvero nel desiderio di manifestazione dei Nomi-Attributi, si scopre che omnis determinatio est negatio, ciascuna delle idee divine riceve l’essere in un’interdipendenza che è conoscenza-ignoranza, velo-rivelazione, bisogno reciproco e lotta per l’affermazione. 

La Verità, la Necessità è il sigillo di Dio: in sé sterile, contraria alla creazione, si imprime come un timbro su ogni creatura, su ogni contingenza, riconducendola al proprio nulla e al Nulla divino. La sua opposizione archetipica alla creazione la rende sigillo della de-creazione, la sua fedeltà alla preeternità (come Shalom, Pienezza, è fedele alla posteternità, all’Eschaton) la rende vincolo del finito e limite intrinseco alla sua finitezza.

martedì 29 novembre 2011

Ancora sulla profezia


Rosmini insegna che si danno due tipi di cognizioni: quelle per intuizione, che hanno per oggetto i possibili, le idee; e quelle per affermazione o di giudizio, che ci danno persuasioni sugli oggetti conosciuti, ovvero sulla loro “sussistenza”, esistenza e realtà. Così l’idea è l’essere possibile e, in quanto ideale, universale e necessario; l’essere reale, “conosciuto” attraverso la persuasione, l’assenso-giudizio, è contingente, necessario in alio (in Dio). Il nostro lume naturale coincide con l’intuizione dell’essere; la presenza all’essere è poi la contemplazione.
La distinzione fra tajallī, teofania, e nuzūl, discesa-rivelazione, è analoga a quella fra walāya, intimità mistica con Dio, e nubūwwa, profezia: il profeta veicola la discesa del Reale in una parola efficace, ripete la creazione. Per questo è necessario (liberamente necessario, più che necessario) l’assenso-fede (che ripete il mithāq originario, l’alleanza di misericordia tra Dio e ogni creatura): senza l’assenso al nuzūl non si dà l’esperienza del tajallī, della manifestazione divina in ogni cosa e in tutto. Virtualmente (e realmente, ma oltre il viluppo della storia, non al di sotto di essa, ritirandosi da essa) Dio è creato in ogni credenza-testimonianza, di fatto ogni conoscenza si inserisce in un ciclo profetico determinato, in un pragma, e lo riflette-dispiega (compie).
Schopenhauer asserisce l’anteriorità della volontà nei confronti dell’intelletto: Wittgenstein quella dell’azione (rituale) rispetto alla conoscenza; Lévinas e la tradizione rabbinica quella del faremo sull’ascolteremo (naʻaseh we-nishmaʻ). L’uomo esiste, ogni sua conoscenza interpreta-chiarifica un kun! creatore che a sua volta manifesta il Realissimo: la fede profetica, pragmatica, è la suprema mediazione, il nodo (ʻuqda) supremo.
Nel pensiero greco è reperibile un simile fondamento (archè) dell’intellettualismo dominante? Forse il fine “etico” di ogni theorein (P. Hadot) (e anche, secondo Vico, il verum est factum, la conoscenza umana come creazione, conjectura, poiein).
Che il mondo è (Wittgenstein) – che questa cosa è – è il mistico. Il mawjūd, l’ente, è manifestazione del wujūd, dell’atto di essere, nella sua unità-unicità (wahda).
La cosa, al-shā’y, deriva secondo i sufi dal verbo shā’a, volere-consentire: l’ente-mawjūd esiste in quanto voluto, e quindi in quanto marhūm, oggetto di misericordia.
L’esistenziazione è un atto di volontà: nel platonismo è espressione della “natura”. L’abramico fa dell’emanazione naturale un’“effusione” (fayd) volontaria, perché Dio come Esistenza e Realtà è la suprema determinazione (huwiyya). Volontà-Misericordia è il nome di questa physis, la physis divina è libera ovvero è actus, soggetto supremo, Spirito. L’Essenza divina (dhāt) resta nascosta-indipendente, eppure vi si “accede” nella perfezione dell’itinerario conoscitivo-unitivo (si “accede” alla natura divina tramite le relazioni trinitarie: nel sufismo attraverso l’uni-diade rabb-marbūb, Signore divino-vassallo. È il quarto stadio o divisio naturae di Giovanni Eriugena, il nihil come eschaton, esito dell’epistrofè-teshuvah: non c’è identificazione-ittihād, ma un Deus totalis che è Realtà realizzata, Uno realizzato come Non-Due, consumazione dell’amore).
La fede profetica come impegno-berith-mithāq sta alla ragion pratica come la presenza estatica all’Uno a quella teoretica. La fede è principio e fine della ragione: ragione e intelletto sono la mediazione – eppure si ha unificazione e armonia indicibile nella beatitudine suprema.

mercoledì 16 novembre 2011

Adonai yir’eh


per Nicola

“Padre, posso dirti una cosa?”.
“Dì pure, Isacco”.
“Sai che anch’io sono stato chiamato ad essere profeta?”.
“Lo so”.
“Come fai a saperlo?”.
“Come potrei non saperlo?”.
“E non mi hai detto nulla?”
“Cosa avrei dovuto dirti?”.
“Ti prego, smettila di rispondermi con delle domande”.
“Te lo dico oggi, allora: non mi piace che anche tu sia stato chiamato, ma mi compiaccio della volontà di Dio”.
“Che vuoi dire? Pensi che essere un profeta sia così terribile?”.
“Non lo penso. Lo so”.
“L’hai sperimentato”.
“Lo sperimento ad ogni battito di ciglia”.
“Vedi, tu non mi hai mai detto, fino ad oggi, cosa sentivi della mia chiamata; e io non ti ho mai fatto una domanda, che mi pesa sul cuore e mi amareggia il pane e il vino”.
“Fammela oggi, ti prego, figlio mio”.
“Quando Dio ti chiese….”.
“Ho capito”.
“Ricordo che salivamo sul monte, e mi sembrava un cranio impolverato, semisepolto, l’immagine di ogni vergogna e di ogni squallore. Cercavo di guardare solo i miei piedi, riuscivo a pensare solo a tratti, e mi affluivano immagini, non potevo stringere nulla. Mi attraversavano il cuore rapide immagini di irrisione, di stanchezza, di futilità. Sentivo che avevi il fiato grosso, e il ritmo della tua camminata era meno sciolto e potente del solito: rigido, sempre in ritardo o in anticipo, leggero – l’incedere di uno schiavo. Tutta la mia angoscia si concentrò in una domanda, proprio come oggi. E tu mi rispondesti. Ricordi come?”.
“Non lo dimenticherò. ‘Dio stesso provvederà l’agnello, figlio mio’”.
“Perché dicesti così? Pensavi che Dio mi avrebbe risparmiato?”.
“No”.
“Dunque pensavi che sarei morto per tua mano, sgozzato dal tuo coltello”.
“Non dire sempre: pensavi, penso. Cosa c’era da pensare?”.
“Non è un pensiero dire al proprio cuore: Ora prendo il coltello, ora la legna, ora faccio il fuoco, ora slego l’asino…”.
“Ma tu pensi di essere profeta, o lo sei?”.
“Lo sono e lo penso”.
“Sei molto giovane, ragazzo mio. E nel tuo soffio dolce e agitato – chiudo gli occhi e ne sento la musica, che mi accompagna da quando sei nato – si sono mischiati il riso nobile, desolato, spogliato di tua madre e la paura mia, la paura tua, di quel giorno, con la legna sulle spalle, la solitudine dell’ascesa, la fredda lama del coltello nel fodero, nella mano. E la freddezza ancora più fredda, la freddezza mattinale, umiliante, del miracolo”.
“Anch’io serbo nel cuore tutto questo, come un’unica parola di Dio. Ma la parola che mi è stata data, il soffio che mi ha fatto rizzare i peli, è diverso dal tuo. Io ricordo i piedi, lo sporco, la stanchezza tua e mia, e quei due fulmini, inspiegabili: la mia domanda, la tua risposta. Parevano scoccate dall’angoscia stessa, ma all’improvviso: come un desiderio d’amore che percorra le membra dopo una giornata di fatiche vergognose”.
“È vero. E l’una e l’altra sono parole di Dio”.
“Perché dicesti proprio così?”.
“Come? Parli sempre della mia risposta?”.
“Sì. ‘Dio stesso provvederà…’”.
“Non so perché”.
“Se non ti piace ‘pensavi’, ti dico: credevi, eri convinto, sentivi che sarei morto?”.
“Non lo so. No, non lo sentivo”.
“Dunque eri persuaso che Dio mi avrebbe salvato”.
“No”.
“Ma allora, perché quelle parole? Cercavi di coprirmi gli occhi di fronte alla mia stessa morte?”.
“Questo meno di tutto, figlio mio”.
“Cerca di spiegarmi. Altrimenti nulla ha senso, per me. Nemmeno la mia chiamata, soprattutto la mia chiamata”.
“Non c’era molto da pensare, Isacco. Dio mi aveva chiesto di sacrificargli il mio unico figlio”.
“Tutto qui?”.
“Ci ho pensato un po’, dopo. Vedi, anch’io penso! Ma sembravano le tracce quasi del tutto lavate, o riassorbite, di un incontro d’amore: gocce che ora senti limpide come la gloria del cielo primaverile, ora penose e sudicie come il minuzioso marcire di un volto necessario”.
“Padre mio, proprio ora che dici parole tanto simili a quelle che sempre mi ripete il cuore, ti vedo lontano come un antenato di cui si custodisce, di cui si gusta solo il nome, e la luce di un paio di gesta”.
“E ho pensato: tanti prima di me avevano ricevuto quell’ordine. Soprattutto re, re importanti. Anzi, in alcune città era un rito, una tradizione: il sovrano, il fulgido servo di Dio, doveva offrire il primogenito a Colui che gliel’aveva dato. Perché tutto è suo. Anzi, tutto è Lui. Io ci sono nato, in quest’aria: ne sono impregnato. Forse non puoi capire: ormai Harran è per me come un sogno breve e un po’ grottesco, di quelli che si fanno appena prima del risveglio; eppure la sua aria mi impregna ancora. E in quell’aria c’è il pianto del primogenito, un bambino di pochi giorni, condotto da suo padre, in silenzio, tra i simboli del dio, verso la pietra arrossata”.
“Un po’ lo capisco, invece. Continua”.
“Ma tu sai, figlio mio, che io non sono un re. Mai stato. E quando sacrifico una bestia, lo faccio così, alla buona – la accarezzo, la accompagno nel suo transito a Dio. Non mi metto quei paramenti lì, non mi faccio sovrastare da statue come quelle di Harran – quegli dei di pietra dalle membra oltraggiosamente piene, dalle orbite fisse e serene nella potenza. Io sono un vagabondo, un poveraccio, anch’io come te mi guardo solo i piedi, e la polvere che li avvolge, infinitamente dispersa, infinitamente mutevole. E quando Dio mi chiamò e mi cacciò via da Harran, da un momento all’altro, e mi fece balenare la promessa di una terra, e poi di una discendenza… Tutte cose che sai. Mi promise la tua nascita. Un miracolo, cioè una povera cosa – una cosa da tutti, da tutti i giorni – che splende in una luce di novità, come la prima e l’ultima, come qualcosa che rimette tutto in cammino, che mette fretta ad ogni pietra, ad ogni asino, ad ogni nuvola”.
“E io sarei un miracolo”.
“Una benedizione, una pace, un frutto spaccato”.
“Io”.
“Sì. E quando nascesti, il mondo intero venne a umiliarsi e a ridere davanti a colei che aveva riso, davanti a quella vecchia regina – lei sì – ornata dal sudore di un parto incredibile. Non ti dico nulla dei tuoi primi anni, dei miei affanni, delle mie gioie segrete. E poi Dio mi chiede di sacrificarti”.
“Sembra esserci una contraddizione”.
“Chiamala così. Io ci ho pensato solo dopo”.
“Voglio dire: una contraddizione tra la promessa e la richiesta di sacrificarmi”.
“Puoi chiamarla così. Per me fu uno squarcio di coltello nel petto”.
“E trovasti la forza di obbedire”.
“Mi alzai dal letto col petto squarciato, col petto squarciato preparai legna, fuoco e coltello, dal petto squarciato uscirono gli ordini per i servi, il sussurro che ti svegliò, l’unica parola che ti dissi nel cammino”.
“Appunto quella”.
“Dio mi aveva promesso te, la benedizione di un figlio e di una discendenza. E mi aveva imposto di offrirti in olocausto. Come i re che sacrificano il primogenito, a Harran. Ancora loro: sempre lì si ritorna. E no, che non si ritorna: ti è stato dato un figlio, un riso d’incredulità, un riso di pace incredibile, impossibile. Dio mi ha dato, Dio mi toglie: questi sono pensieri, solo pensieri. Io prendo legna e coltello, che altro posso fare? E vado. E aspetto. Nemmeno aspetto: sto lì. Col petto squarciato. Da una parte la promessa, dall’altra il sacrificio. Tutto insieme. Tutto qui. Ma è mai possibile? Perché, la nascita di tuo figlio è stata possibile? E allora sottomettiti, servo di Dio: amico sì, per grazia, ma in sostanza sempre servo. Tutto è suo, tutto è lui: il resto è sogno, un dito sull’acqua. E no: la promessa, la parola data. O è amico, o non è amico. Ma sei anche servo. Togli l’anche: tutto insieme, tutto insieme. E non c’è spazio per respirare? Sì, ma solo per respirare: per un respiro solo. Vai sul monte, così sarà fatto. E mentre vai, tuo figlio ti fa una domanda. Certo, non è mica uno senza voce in capitolo, in questa faccenda. Non è che debba starsene zitto, fare la sua comparsa, e morire in silenzio dopo essere nato fra grida di dolore e di giubilo. Non è regolare. E mi fa una domanda: Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? E io sento che rispondo così”.
“Non hai voluto dire quelle parole, non le hai cercate, non ne eri consapevole?”.
“Non le ho cercate. A te posso dirlo, tu puoi capirmi: sono le parole a cercarci e a trovarci. Ma si aprono una via nella carne come il figlio nell’utero della donna: con accessi di nausea, pesando sul ventre e sul cuore, tirando la pelle, facendo bollire il sangue con voglie, rabbie, stupidaggini, paure”.
“È vero”.
“Non le ho cercate. Ma ne ero incinto. E mi sono uscite con un balzo, aprendomi la bocca come una vagina: so che non guardavi, perché ti ricorderesti quanto ero brutto e schifoso”.
“Io ricordo che è l’unica domanda che ti ho fatto in vita mia senza guardarti in faccia”.
“Sì, infatti”.
“Ma il suono era dolce, sembravi mia madre. Questo mi fece rabbrividire”.
“Ed è per quei brividi che oggi cerchi una consolazione, una luce”.
“Soprattutto una luce”.
“Dio stesso provvederà l’agnello. Io sto salendo, so che mi ha promesso la discendenza, le stelle, la sabbia, so che mi ha chiesto di sacrificarti. Nient’altro. Era l’unica risposta. Non l’ho plasmata, messa insieme, pensata. L’ho partorita, e ha reso impura la mia bocca”.
“Ma non vuol dire che ti affidavi a lui per uno scioglimento del nodo, dell’imbroglio, dello strazio?”.
“Sì, mi abbandonavo, ti abbandonavo a lui, ma come un lottatore che sta avvinghiato all’avversario. Perché lui è mio amico”.
“Un amico che ti chiede cose simili”.
“Credi che Dio ti ha creato?”.
“Certo. Che c’entra?”.
“E chi vuoi che salga il monte, chi vuoi che muoia sul legno…”.
“Cioè tutto è Dio?”.
“No”.
“Che cosa stai dicendo?”.
“Creandoti, ha scambiato con te ogni cosa, ti ha dato ogni cosa. Non c’è più un rifugio alla sua misericordia: solo la sua misericordia lo è. Ma non è un’oasi, è il sogno di una donna incinta, l’avvicinarsi della carne, del parto. Chi sei tu? Chi è lui? E il ventre si apre, e la sua imboccatura è soffocata, strozzata dalla testa di chi nasce. Un cranio, ricoperto di sangue: ma la partoriente, il partoriente non lo vede. E poi il primo grido, e tutto il resto: ma è sempre così. Sempre una gravidanza, sempre una nausea. La misericordia è nauseante, perché tutto è in attesa, tutto è sospeso”.
“La misericordia è…”.
“Non è una bestemmia. Parlo per esperienza”.
“…nauseante”.
“Ogni voglia, la voglia di una gravida. Ogni dolore, il dolore di una gravida. E la gravida non sa, se non che attende, soffre, coltiva, fa spazio. Tutti i timori, i sospetti – come sarà, quanto vivrà, ma sono davvero incinta o sono semplicemente malata, magari folle – sono la stanchezza, il lavoro, l’impensabile umiliazione di questa gravidanza”.
“Dunque tu attendevi, tu attendi. E io sono così diverso da te – solo ora mi sembra di capirlo, così impaziente, troppo impaziente per partorire la parola, per essere profeta”.
“Non si può che essere impazienti, quando si attende. Ormai hai uno sperma in corpo: è giusto che tu sia nauseato, e a maggior ragione impaziente. Anch’io lo sono”.
“Impaziente di che, ormai?”.
“Impaziente della nostra nascita comune, che non immaginiamo”.
“Non so se riuscirò ad arrivare al nono mese, padre”.
“Aggrappati a questo non sapere, con indecenza, con vergogna. Non temere le consolazioni: sono troppo povere per diventare idoli, il tuo sguardo ne farà vapore. E non temere le desolazioni: o meglio temile, e basta, e porta in corpo il tuo sperma. Se devi pensare, pensa al corpo”.
“Buonanotte, padre. Mi hai lasciato così – più nudo di prima”.
“Buonanotte, Isacco. Che Dio ti copra con la sua veste – anche se è meno terribile essere nudi”.

domenica 13 novembre 2011

Alle porte dell’Areopago


per Andrea Sciffo

“Io non ero tra coloro che ridevano, giudeo”.
“Lo so. Ti ho visto”.
“Che cosa hai visto?”.
“Vuoi dire chi ho visto. Ho visto un uomo assorbito nella meditazione di Dio”.
“Ripeti quello che hai detto sul Dio Ignoto”.
“Colui che adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio”.
“Giudeo, io ho amato le dottrine del divino Platone sin dalla giovinezza. Secondo la nostra scuola ogni cosa è una manifestazione del Bene, dell’Uno, di quel Dio Ignoto che si fa conoscere attraverso il cosmo e nel cosmo. Voi giudei, invece, da quel che so, avete ricevuto un insegnamento del tutto diverso: per voi Dio non si riflette nel mondo, ma l’ha creato. Ho cercato di comprendere questa idea che è espressa oscuramente nelle vostre Scritture, e l’ho intesa più o meno così. Il Dio che voi adorate ha staccato da sé il cosmo con un atto di volontà: perché anche per voi Dio è al di sopra dell’essere e della conoscenza, ma non nel senso dell’Uno di Platone. L’Uno non è accessibile alla conoscenza: non è un oggetto; ma è presente nell’indicibile presenza dell’estasi come l’essenza stessa di colui che esce da sé. Così, al di sopra e al di là di ogni verità, di ogni similitudine, di ogni forma, c’è l’Ignoto che esce da sé e rientra in sé, ed è folle o futile, a seconda che il punto di vista sia etico o teoretico, sforzarsi di dirne o pensare qualcosa, dal momento che non lo possiamo raggiungere, ma solo – nella estrema, altissima, profondissima oscurità – esserlo senza identificarci con esso, o con lui”.
“Proprio questo intendevo, traendo spunto da quell’altare al Dio Ignoto”.
“Ebbene, voi giudei, da quel che posso capire, quando dite che Dio ha creato, che ha voluto il mondo, quando dite che Dio si rivela in una legge, in una parola, in una scrittura, siete d’accordo con noi platonici almeno sul fatto che è al di sopra e al di là dell’essere e del conoscere: però, dal momento che il mondo, dal momento che noi siamo perché siamo stati voluti, per accostarci a lui dobbiamo ricordarci di questa volontà a cui abbiamo acconsentito venendo all’essere, dobbiamo volere quella volontà”.
“È ciò che chiamiamo fede. Non hai parlato male, figlio mio”.
“Perché mi chiami figlio?”.
“Però sei pieno di concetti e intuizioni, avvolto nella tua dialettica come una crisalide nel bozzolo, e barcolli ai margini del sentiero come chi non sa se dorme o veglia. Tu hai detto che Dio, per noi giudei, ha voluto il mondo, ha voluto me, ha voluto te. Non sbagli, ma questa volontà ha un nome. Si chiama amore”.
“Perché dici amore e non brama, eros? Senza contare che sarebbe assai strana anche questa parola. Forse, non essendo di madrelingua greca, fai un po’ di confusione. Amore, agape, è quello di una moglie per il marito, di un fratello per il fratello…”.
“Sì, infatti”.
“E Dio, l’Uno inaccessibile, avrebbe creato per amore? Per amore di chi?”.
“Per amore tuo”.
“Aspetta. Sei davvero sicuro di capire il greco?”.
“Abbastanza per capire quel che ci stiamo dicendo”.
“Allora: Dio fa essere il mondo perché lo ama? Dunque lo ama prima che sia, e al tempo stesso lo ama affinché sia”.
“Sì”.
“Ma l’amore non implica una sorta di eguaglianza, come l’amicizia? Eppure m’era parso che tra il vostro Dio e il mondo ci fosse un salto, una distanza infinita”.
“C’è infatti: come tra essere e non essere. Dio non è qualcuno che esiste e poi ama, Dio è amore: ha voluto che il non essere fosse, e che fosse irrevocabilmente. Ha voluto che il nulla fosse fatto di lui: e che cosa poteva aspettarsi dal nulla? Che cosa poteva chiedere al nulla? Nulla. Questo è l’amore, questo è Dio”.
“Sei molto abile nella tua retorica: queste parole mi ubriacano, come il vino della dialettica, ma senza quel presagio di un approdo sicuro, fosse anche oltre la morte e la vita. Ho assaggiato l’ebbrezza di Platone, ora mi intossica la tua: d’altronde mio padre mi ha chiamato Dionisio, in segno di devozione al dio dell’estasi. Mi sembra che tu stia per portarmi dove nessuno andrebbe, se non vi fosse chiamato con dolcezza e violenza”.
“Con dolcezza e violenza”.
“Sembra qualcosa che debba offendermi fino alla fine”.
“Sembra così”.
“Eppure ritorno subito a me stesso, e mi viene da pensare: questo Paolo, questo giudeo che si fa chiamare il Dappoco, lo Scarso, mi dice che Dio ha amato il nulla, che ha voluto darsi al nulla, e io mi chiedo – qual è la differenza, ma la differenza vera, tra Paolo e Platone? Tra Paolo che mi ubriaca con il suo nulla e il suo amore, e Platone che mi insegna a vedere l’Uno riflesso come in un’acqua profonda? Perché una differenza c’è”.
“Non è una differenza nel senso della tua filosofia: so che vi si discute di genere, di differenza e così via. Questa differenza ha un nome”.
“A tutto ciò ch’io ti dico tu dai un nome!”.
“Non ti ho forse detto che vengo ad annunciarti quello che adori e non sai?”.
“Qual è dunque questo nome? Come si chiama la differenza?”.
“Si chiama Gesù, il Cristo”.
“Ne ho sentito parlare. Ma come posso appendere il mondo a un uomo solo perché tu mi racconti la sua storia?”.
“Per lo stesso motivo per cui Dio ha creato il mondo appendendolo al nulla: è per questo che noi andiamo indietro fino all’inizio, fino alla fede. Lì non c’è un Dio Ignoto, un Bene, un Uno che si irradia nel vuoto, o sullo specchio della sua stessa natura: c’è Qualcuno. Capisci ciò che intendo?”.
“Temo di no”.
“Dio è amore. Prima di ogni cosa, c’è l’amore: quella che tu chiamavi volontà. Per conoscerlo non puoi far altro che amarlo. Per accostarti a quell’inizio, non puoi far altro che credere, cioè essere fedele: e per essere fedele, bisogna che ci sia una parola data. Ma la parola data è di qualcuno, è qualcuno. Non puoi dire: tutto ciò che esiste è un riflesso, una manifestazione dell’Uno; quindi io accederò all’Uno al di là di ogni mia conoscenza. Devi dire: prima del mio principio, c’è la mia fedeltà a qualcuno. Questa fedeltà è la mia pietra di fondamento, l’essere del mio essere. Devo trovare ciò che sono, chi sono: devo trovare quel qualcuno a cui sono stato fedele prima ancora di essere. Dov’è?”
“Non lo so. Dov’è?”.
“Io te l’annuncio”.
“Ma perché dovrebbe essere quell’uomo, giudeo come te, mi sembra?”.
“La domanda non è questa. La domanda è: dov’è quello, quel qualcuno, dov’è colui a cui sono fedele, dov’è colui che mi fonda, colui su cui devo appoggiarmi? Perché per conoscere devi essere conosciuto: devi accettare di esserlo, e non è un’accettazione dell’intelletto, o della ragione. È una fedeltà, un voto, una presa di possesso. Intelletto e ragione le sono sottomessi come il movimento all’arto che lo compie”.
“Ma perché, perché lui?”.
“Chi altri l’ha detto? Chi altri l’ha rivelato? Chi altri lo è stato?”.
“Il fatto che l’abbia detto non è sufficiente. Il fatto che tu lo dica e lo racconti non è sufficiente. Mi stai chiedendo di prestar fede a una storia: può questo cambiarmi la vita?”.
“In quanto hai appena detto c’è tutto il tuo destino: il tuo passato e il tuo futuro. Ascolta la storia. La storia di qualcuno. Qualcuno che ha detto di essere quel qualcuno. Se cerchi prove, cercale nella storia”.
“Ma se io dico di essere Serapide…”.
“Fammelo vedere. Dimostramelo”.
“E Gesù, quell’uomo, come ha dimostrato di essere chi ha detto?”.
“Questa è la sua storia: una dimostrazione condotta non con gli argomenti e i molteplici discorsi, ma con la vita e la morte”.
“Così fanno tutti i saggi”.
“Conosci un saggio che abbia detto: Credi tu che io sono il Figlio di Dio?”.
“In un certo senso è quel che dicono tutti”.
“Il Figlio di Dio è colui che salva il mondo riconducendolo a Dio. Conosci un saggio che l’abbia mai detto?”.
“Forse gli zoroastriani…”.
“L’hanno detto, ma non di se stessi. Chi l’ha detto nell’estasi dell’unione interiore, parlava metaforicamente: non intendeva che avrebbe portato il mondo intero a Dio, in Dio, perché fosse rinnovato, trasformato, reso perfetto nell’amore. Chi l’ha detto da profeta a un popolo, indicava un altro tempo, un altro luogo, un altro uomo: dava parole, non se stesso come parola. E se dava la vita, la dava come uno del popolo, come l’agnello del popolo, come la colonna del popolo, non per farsi mangiare dal mondo intero, fino all’insetto più miserabile, fino all’uomo più disperato. E se insegnava, non insegnava di essere il cardine del tempo e dell’eterno, di essere più di chiunque altro e meno di chiunque altro, il segreto della creazione di Dio e uno schiavo a tiro di schiaffi e di sputi come ciascuno di noi, come il più disgraziato di noi”.
“Io non so più nulla. Più nulla, giudeo. Vedi, Paolo, come torno sempre all’Ignoto, al mio Dio”.
“Torna all’ignoto, e va’ oltre: nel buio più fondo, dove ti sembra esserci nulla. Dio non è ignoto: Dio è amore”.
“E l’amore mi ama e mi conosce prima che io possa volgermi nella sua direzione”.
“Se tu ami, se tu mi ami, il Dio che dicevi di non conoscere è annunciato tra noi, è presente, è il cibo e il respiro che ci scambiamo e in cui viviamo, ci muoviamo e siamo. Se ci amiamo in Gesù, Dio è noto, infinitamente noto: è noto come infinito, ed è nel nostro corpo come pane e vino”.
“Ti prego, vieni da me stasera. Parlando di pane e vino mi hai fatto provare il bisogno e il desiderio di ospitarti”.
“Verrò, e tu capirai, io credo, perché ti ho chiamato figlio mio, e perché sei stato chiamato, alla nascita, Dionisio, in segno di devozione al dio del vino”.
“Va bene, Paolo. Che qualcosa inizi, che qualcosa sia”.
“Non c’è niente che non inizi in qualcuno e da qualcuno, Dionisio, figlio mio”.

venerdì 11 novembre 2011

Pensieri sul vegetarianismo


È quasi impossibile muovere obiezioni etiche al vegetarianismo. Del resto, l’etica è un’invenzione o una prospettiva che non appartiene all’integrità arcaica, in cui affondano quasi tutte le azioni umane, la ritualità umana come sintesi vivente, simbolica, di celebrazione e teurgia, accettazione e critica, ripetizione e rinnovamento. Nella vita antica l’alimentazione vegetariana rientra in un sentiero spirituale che è un nesso unitario di voti difficilmente separabili: di solito l’accompagna l’astinenza sessuale e nel suo insieme si configura come una rottura con le abitudini mondane, che si fondano invece su una ritualizzazione più o meno consapevole della carnalità, delle passioni, del samsara – e quindi dell’amore fisico, dell’uccisione di uomini e animali, della dieta carnea. L’atto del sacrificio animale ricorda e conserva alcuni tratti del mondo ancor più antico, arcaico, in cui i cacciatori conoscevano predando e predavano conoscendo, in un intreccio tragico di aidos ed esaltazione, trepida sensibilità e brutale coraggio: ma come actus tragicus, come rappresentazione teatrale archetipica, come rito che fonda e plasma la comunità, l’uccisione dell’animale attraversa tutte le culture, la nomade, la contadina, la urbana sacrale e poi semiprofana e poi imperiale. Sacrificando l’animale si riconosce implicitamente la sua somiglianza con noi e insieme la sua differenza: l’animale è un nostro parente, un parente divino, velato, misterioso – anche noi siamo animali, abbiamo una struttura conoscitiva affine alla sua, eppure l’animale carnivoro non sacrifica e l’erbivoro non mangia carne. L’uomo, animale rituale, non conosce – se non nello spazio di alcuni riti orgiastici – l’esaltazione del predatore che, dopo aver inseguito la preda, affonda i denti nella sua giugulare o la fa a brani ancora viva. Il sacrificio dice: questo essere, che è mio parente, non è mia proprietà, appartiene agli dei, è un mediatore divino; uccidendolo consegno la sua invisibile sostanza, la partie de Dieu, all’invisibile, e introduco in me qualcosa che media tra morte e vita, un corpo morto ancora fremente di vita, che preservando la mia vita e nutrendola si trasfonde in essa, si nutre di essa. Il nutrimento è assimilazione d’anima, d’animale, nel caso dell’alimentazione carnea attraverso l’animale stesso. Quel che conta è che si tratta di un rito, quindi di un nucleo vivente che le varie interpretazioni non esauriscono: se diciamo che l’animale è assunto in una sfera più alta, coinvolto in un circuito trasmutatorio attraverso la presupposizione di un suo implicito consenso (che è implicita ammissione dell’animale nella domus umana, e quindi dell’addomesticamento), diciamo la verità, ma non tutta la verità. Del resto non c’è riflessione mitica che taccia il nesso tra una caduta dall’ottimo stato primordiale e l’uccisione sacerdotale degli animali da cui trarre nutrimento: ma questo non è abbastanza, perché ogni elemento della vita umana partecipa di questa caduta, anzi, ciò che chiamiamo uomo è questa caduta; anche il tentativo di una élite spirituale di riaccostarsi all’Eden astenendosi dalla carne animale e da ogni sorta di violenza.

Famosa obiezione antivegetariana: “Forse che cogliere e mangiare vegetali è un atto privo di violenza?” Non possiamo fondare un voto spirituale su congetture relative alla struttura sensoria e conoscitiva di un essere altro da noi: certo dell’animale presumiamo di capire di più, ma è impossibile separarlo troppo nettamente dal vegetale, che quasi certamente non manca di percezioni. Alla radice del vegetarianismo classico non c’è l’“antispecismo” di alcuni vegetariani contemporanei, che è contaminato dall’illimitatezza propria del pensiero moderno, evidentissima ad esempio nel dogma evoluzionistico (cui a volte i vegetariani “laici” indulgono): un antispecismo conseguente offre il destro all’obiezione appena citata. D’altro canto, nessuno nega che la nutrizione è o implica la distruzione di un’altra forma vivente, sebbene al contempo quasi tutti abbiano confusamente presente una notevole differenza tra l’uccisione di un animale e la raccolta e preparazione di un vegetale. Ma la differenza sarà solo nel fatto che l’animale grida e resiste visibilmente e udibilmente, come osserva in un magistrale pezzo di retorica Plutarco, mentre la pianta è silente e immobile, o almeno non dà segni a noi percepibili di rifiuto? Anche questo è abbastanza debole: sappiamo che le piante danno segni molto sottili della loro “volontà”, come direbbe Schopenhauer, o della loro “anima”, come la chiamerebbe Fechner. Ma una differenza c’è: ogni uomo sente che nel rapporto caritatevole con un altro essere deve entrare una considerazione, fallibile e aperta ma efficace, del modo in cui il secondo sembra percepire e sentire il mondo. E tuttavia anche questo non è risolutivo: alla base della cultura umana, e della spiritualità più antica e profonda, non c’è una compassione puramente sentimentale, ma una compassione radicata in una visione più alta, divina, degli esseri viventi. Non che la compassione arcaica prescinda completamente dalla sensibilità verso gli stati dell’essere che ne è l’oggetto, anzi: ma la radice, appunto, il fondamento, è un altro. Si punisce chi ha infranto una legge facendolo soffrire in vista di una sua trasformazione, che non è esattamente “il suo bene” nel senso moderno, ma presuppone comunque la sua adesione ad un patto sacro, ad un’alleanza, ad un voto comune. Si agisce come se il suo status sia qualcosa, non di volontario nell’accezione dell’etica, ma a cui è stato o può essere o dev’essere iniziato: si dà per certo che il fine di ogni nascita e natura sia una rinascita e una resurrezione. Analogamente, in modo diverso ma non contrastante, si considera l’animale, che non fa parte della comunità allo stesso titolo degli altri uomini, ma non ne è nemmeno escluso (sia l’animale libero e selvatico, scintilla divina che possiamo catturare spinti da una necessità che è anche un gioco – perché il mondo stesso è un gioco in cui l’unità divina si comunica agli esseri in un’opposizione sempre aperta, in una relazione sempre polare, antinomica, ambivalente – sia a fortiori l’animale addomesticato, su cui l’uomo esercita una signoria che a differenza di quella divina, di cui è immagine, è soggetta a vincoli assai pesanti e rischiosi, poiché anche l’uomo è un animale), come qualcuno che ha acconsentito implicitamente, silenziosamente, all’alleanza umana, alla cultura e al culto umano, di cui è l’uomo però a portare la responsabilità, la culpabilitas: e l’alimentazione è questa prova mortale, questa ordalia che non ha nulla di garantito, anche se la sua tragica sostanza induce fatalmente gli attori umani all’indurimento del cuore, alla banalità del male.

In altri termini, mangiare animali è un segno di caduta, come la divisione dei sessi e delle volontà, e quindi l’esistenza del potere e del tribunale e dell’ineguaglianza: ma la cultura umana non può che aprirsi una via nella caduta, e vivere nella tensione tra il tamas dell’eccidio dato quotidianamente per scontato e il sattva dell’élite spirituale che cerca di riparare l’immagine edenica attraverso la rinuncia e l’interiorizzazione. Il rito che media non è altro che la vita dell’uomo nella sua fragilità samsarica, la vita del “popolo” o vita ordinaria, comune, in cui la violenza della caduta è riattualizzata nelle forme che il sacrificio solleva in uno spazio di possibilità e necessità, il tragico (possibilità aperta dalla necessità): uno spazio così dinamico da confondersi ogni volta con il movimento discendente della caduta, pur essendone virtualmente la trasmutazione.

Quindi il fascino del sacrificio animale si riduce a questo, e non è poco: il sensus communis, il consensus gentium come volontà almeno implicita di “sporcarsi le mani” con il samsara, con la caduta, per indirizzarla al suo telos trasmutatorio. Per questo le religioni profetiche tendono a preservare la dieta carnea, santificandola: perché il profetico è la discesa della visione nel quotidiano, nel popolare, è la sorella povera e potente dell’alchimia resurrezionale; e invece le religioni gnostiche o sapienziali tendono a proporre direttamente un’estensione della dieta vegetariana, monastica, edenica, al maggior numero possibile di “fedeli” e praticanti. Nel profetico c’è un odore dionisiaco di sangue, un’esaltazione arcaica sotto le specie dell’ordinario, del materiale e del carnale: la visione dev’essere lievito, fermento alchemico.

Ho il sospetto che la dottrina orfico-pitagorico-empedoclea della trasmigrazione delle anime, che in epoca classica avrebbe dovuto secondo questi iniziati persuadere all’astensione dalle carni, in epoca arcaica fosse alla base di una visione generale del nutrimento, compreso quello carneo. Se ci nutriamo solo di anime, secondo il detto inuit, e se le anime o monadi sono in continua trasmigrazione, in un flusso perpetuo, allora tutto è in tutto, e ogni cosa (ogni atto) sarà un crocicchio in cui si incontrano e da cui si proiettano tutte le relazioni: quindi c’è una catena che va dal “nutrimento” invisibile e immobile del minerale, a quello primordialmente articolato della pianta, a quello della bestia erbivora e poi carnivora, in cui la caduta originale si manifesta per la prima volta in forma drammatica, a quello umano, in cui è massima la tensione tra colpa e redenzione, l’arco pontificale, sacerdotale, che congiunge la terra del bisogno e della crudeltà al cielo della carità e dell’armonia; per giungere infine al cannibalismo mistico, all’eucarestia che ricostituisce l’Uomo tramite l’Uomo stesso. Il predatore imita il verso della preda, si identifica con essa: il sacrificatore proietta se stesso sull’altare, e alla fine si mangia sempre se stessi, o comunque si mangia l’Uomo, perché l’assimilazione presuppone la somiglianza e anzi l’identità mistica.

All’uomo caduto è impossibile recuperare la natura, essere naturale, compiere atti naturali. Nel De radiis al-Kindi osserva che il sacrificio animale ha efficacia teurgica, magica, proprio perché l’animale patisce una morte contra naturam, voluta dall’uomo che così si carica del suo rischio, ponendosi sul crinale evanescente tra magia nera e bianca, stregoneria e propiziazione.

“Il cibo è mangiato dagli esseri e li mangia: per questo si chiama anna” (Taittiriya-Upanishad): il mangiare è un circolo, un flusso. Il primo corpo o guaina è quella fatta di cibo. Il mondo continuamente mangia ed è mangiato: dev’esserci stato un mithaq preesistenziale, in cui ogni specie ha manifestato il suo assenso alla creazione così com’è – e al tempo stesso la vita animale, la vita rappresentativa, sensibile, senziente, la vita di sogno dell’animale (di sogno perché il suo desiderio determina, delimita gli oggetti, le essenze, separandolo relativamente dalla radice, dalla scaturigine unitaria – è questa la sua angoscia) resiste angosciata al riassorbimento nel circolo, oppone un’individualità a ciò che è comune e transindividuale. Tale angoscia esprime sia la caduta, la rottura dell’armonia, sia l’estasi divina nel creare, l’abisso di stupore su cui si staglia la creazione. Ciò nonostante, la sofferenza animale è pura e la sua angoscia è (secondo Rilke) comunque volta all’Aperto, all’unità con Dio; l’autocoscienza e la ragione umane, che danno consistenza alla colpa e apprestano le condizioni per un’angoscia della morte ormai illimitata, onnipervasiva, fanno dell’uomo la crux dell’universo, il punto critico e decisivo, il punto più basso che è il punto della risalita, il criminale che si fa sacerdote (e il sacerdote decaduto a criminale). In lui il circolo del cibo raggiunge il culmine della propria tragica paradossalità: se il predatore animale, con la sua brama avventurosa, è investito da una sorta di libertà di affrettare la natura nelle sue prede, l’uomo cacciatore-allevatore, eroe-sacerdote, sente in sé una libertà illimitata che coincide con l’illimitata angoscia, il suo potenziale onnivorismo è l’espressione smagliante della sua passione di vita e di conoscenza, della sua super-animalità (e sotto-animalità), e si dà limiti solo per trasformare l’illimitato in infinito, per costruire ponti verso l’unità. (L’uomo è davvero l’animale malinconico, l’animale malato: dopo un certo livello di sofferenza e colpa si vive la morte, non si può tollerare il finito, tutto dev’essere impregnato di significato, di movimento ascendente, di luce che strazia e allevia).

“Lascia andare i tuoi rovelli, salvo quello morale! Hai detto bene all’inizio: non c’è obiezione etica al vegetarianismo. L’onus probandi ricade sul carnivoro, è lui che deve difendersi”.
“Non voglio parlare di accuse e difese. Mi interessa la vita, e la luce che può illuminarla. Sono convinto che la scelta di astenersi dalle carni provenga da un’attenzione trepida e intera al nutrimento e la intensifichi e prolunghi; e il vegetariano dal cuore davvero limpido non cadrà nella trappola della self-righteousness, sentirà che nemmeno mangiando miglio e cavoli si è innocenti”.
“Su questo siamo d’accordo. Il vegetariano che si lascia plasmare dalla propria dieta, dal proprio voto, non può non arrivare a sentire che tutto è interconnesso, che chi sbrana il suo arrosto di manzo non è separato con un taglio angelicamente netto dalla sua mensa carica di frutti della terra. Nel tempo, nella storia, grano e loglio sono mescolati in ciascuno, perché ciascuno è il campo di cui parla il Vangelo”.
“Mi piace sentirtelo dire. Ma allora, chi si salva?”
“Si salva chi trasforma quanto più male può nella propria sofferenza: ovvero, chi cerca di non dare ma di ricevere sofferenza, di trasferire la sofferenza dall’altare visibile all’altare interiore”.
“Ma capisci che così sostituisci al mattatoio visibile un mattatoio interiore? In sostanza, ci si libera dal sacrificio animale solo sacrificando se stessi: si cessa di rubare il cibo quando ci si fa cibo”.
“Sì”.
“Ciò è molto cristiano, anzi cristico”.
“Non solo. Anche il Buddha diede se stesso come cibo, sotto le eucaristiche specie di una lepre”.
“Ma come distingui il male dalla sofferenza? A volte sembra che per voi il male sia la sofferenza”.
“Male è la sofferenza, subita o inflitta, che non si apre alla luce. Quando la si infligge, ad esempio come pena, si deve supporre nel soggetto una volontà o almeno una possibilità di aprirsi alla luce: e ciò solo quando è strettamente necessario. Nel caso dell’animale, poiché non può essere reso parte a tutti gli effetti della comunità umana, è molto dubbio che tale necessità si dia. Perciò, come insegna il diritto, nel dubbio è meglio astenersi dal dare dolore o morte”.
“Mi sembra convincente. Ma voi parlate troppo poco dei vegetali”.
“I vegetali non sperimentano la morte come gli animali. Quando li mangiamo li distruggiamo, è vero, ma dobbiamo espiarne la distruzione senza per questo purificarci da un’uccisione. E non è solo per necessità che li mangiamo, separandoli dalla terra e assimilandoli a noi. Il vegetale è così lontano da me che posso legittimamente credere mi si stia offrendo, affinché io ne tragga luce: e la luce è il suo unico fine, dentro e fuori la terra”.
“Ma ciò è quantomeno dubbio. Non varrà anche in questo caso in dubio pro planta?”.
“Non dirò mai che nutrirsi è innocuo. Tutto è interconnesso, quindi niente è indifferente. Ma se non colgo la pianta solo perché non mi resiste, solo perché è un agnello che non bela, la porto fuori dal suo ventre e la introduco nel mio con la consapevolezza che ne vivrò e ne morirò: e in ogni mio atto e pensiero cercherò di farla risorgere come la purezza e la dirittura che in lei si manifestano, radicata o sradicata che sia. Perché la pianta è partecipe dell’eterno in misura maggiore dell’agnello, e a fortiori di un uomo”.
“Cosa pensi di chi si astiene anche dai prodotti animali che non comportano uccisione – il latte, il miele, le uova, la lana?”.
“Vuoi dire i cosiddetti vegani? Li approvo se non assolutizzano il loro radicalismo contingente, la loro fragile e preziosa testimonianza”.
“Che cosa intendi?”.
“Che non è sbagliato allevare gli animali se non li si uccide e non li si deruba del necessario. Anzi è questo l’unico modo legittimo di accoglierli nella nostra comunità. I crimini contro i quali testimoniano i vegani sono l’allevamento intensivo industriale, la macellazione aggravata da orrori di sterminio totalitario, la schiavitù più opaca di quella antica, coperta dall’ipocrisia più nauseante”.
“Devo confessarti una cosa”.
“Fallo senz’altro”.
“Tutto questo mi sembra incertissimo, opinabilissimo, indecidibile”.
“Ogni atto, anzi ogni pensiero umano è una creazione: qualunque certezza possa attingere, è pur sempre nella fede. Anzi, è una fede. Ma c’è un criterio che puoi seguire per afferrare un principio, un seme di certezza: sii consapevole di quello che fai, quindi anche di quello che mangi. Il resto verrà da sé”.
“Permettimi di dubitarne. Cristo, Ibn Arabi, Izchaq Luria, anche il Buddha, che non coltivava opinioni e teorie, non erano vegetariani: eppure chi potrà negare che, di fronte alla loro consapevolezza, noi siamo più ciechi di un sasso?”.
“Non lo nego. Del resto non nego nemmeno che mangiare carne animale possa essere lecito: non è lo stesso avere un dogma ed essere dogmatici. Quanto ho detto era un consiglio per te: perché sospetto che i tuoi dubbi, i dubbi di uno che interroga con tanta sollecitudine e angoscia, procedano da un conflitto logorante tra sensibilità e ragione, tra sensi parzialmente illuminati e avidi di luce e un pensiero che vuole prendere tempo, aggirare l’inaggirabile, giocare la volontà – la fede – con le svolte illimitate del confronto dialettico”.
“Non hai torto. Ma sai che velle non discitur, e nel dialogo si cerca di sfregare il proprio intelletto con quello dell’interlocutore finché non sprizzi la scintilla destinata, il principio del fuoco che siamo. Questo credo volesse dire Platone”.
“Forse sì. Allora mettiamola in questi termini: prova a far tacere per un po’ le tue ragioni, e magari la ragione emergerà riposata da un bagno lustrale. Fa’ parlare i tuoi sensi, la tua pura attenzione. So che ti chiedo fiducia: faccio appello alla fiducia che ti ha mosso a interrogarmi”.
“Direi a conversare con te. Sono pronto, comunque. E vedremo”.
“Vedremo, già. Non solo tu: anch’io. Perché non ci sono puri in un mondo d’amore: anche la saggezza è violenta, anzi, la sua violenza è la gloria di un equilibrio vivente, di una pace trasparente che si tinge di un sangue regale anche e soprattutto quando le nostre mani si astengono dal versarne”.

venerdì 4 novembre 2011

Appunti presi all’INPS


Un aforisma di Cioran: “La menzione delle noie burocratiche (the law’s delay, the insolence of office) tra i motivi che giustificano il suicidio, mi sembra la cosa più profonda che Amleto abbia detto”. È vero. La burocrazia, maledizione necessaria oltre la misura taoista, arcaica, del villaggio che fluisce nell’alveo delle consuetudini umili e sacre, è un riflesso pauroso e noioso delle gerarchie angeliche e delle loro dispensazioni nel motoso labirinto umano. La sua magica foresta di dilazioni, la sua sontuosa e grigia complessità, il suo cerimoniale imperscrutabile, il suo gergo esoterico schiacciano il pover’uomo, soffocano i suoi slanci, gli impongono un ritmo interiore che sacrifica preliminarmente ogni dignità, un’oscillazione piuttosto regolare tra uno stupore vegetale e una fuga della mente in infiniti rigagnoli di compromessi, aggiustamenti, propiziazioni.
Delay potrebbe essere uno dei nomi del saeculum: nella teologia sciita (ad esempio in Molla Sadra) si parla del ta’akkhur, il “ritardo” dell’essere nei confronti dell’Essere, dell’uomo e del cosmo caduti nei confronti del loro Principio. L’insolence, poi, è inseparabile dall’office: mentre l’impersonalità della legge, essendo un velo sull’incontro personale con il giudizio, è una muraglia che protegge il debole, l’impersonalità dell’amministrazione pubblica, essendo un mero velo sui vizi personali degli amministratori, non può che offendere l’offeso e ammiccare al prestigioso.
Potente è colui che fende le sfere angeliche come uno sciamano, come Maometto, come Dante, e volteggia come una scintilla dell’Empireo nella plenitudine della sua libertà, coronato e mitriato sovra se stesso. Ma di un riflesso maledetto si tratta: e dunque il superuomo, l’iperuranio, colui che può disprezzare le minuziose mortificazioni dell’apparato burocratico, è di solito, per la sua immonda indifferenza, condannato a proiettare un’ombra ripugnante su tutto ciò che tocca. Il pover’uomo, il povero cristo seduto nella sala d’attesa, in piedi per la fila, lasciato a sobbollire nel suo brodo, a incantarsi davanti ai muri sporchi, a contenere e ad esibire la propria esasperazione, ad avvilirsi in ciarle da incantenato, in contatti pavidi, duri e insostanziali, non manca mai, invece, di mostrare anche all’occhio meno sensibile (ma la memoria fatica ad impregnarsi della rivelazione) uno stigma di luce schermata, profetico e messianico: un povero Cristo, appunto, modellato dagli sputi, dagli schiaffi, dall’insolence of office, dalla mascherata iniziatica che lo accompagna ad una gloria di chiodi e di spine, ad una morte in cui tutto il mondo, sempre di nuovo, si addensa a seme. Il potente non muore, è soffiato via.

“E mi volsi a contemplare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole – ed ecco pianto di oppressi e nessun consolatore per loro – e dalla mano degli oppressori la forza e nessun consolatore per loro” (Qo 4,1). È esattamente questo il male del mondo: che non vi sia, che non appaia, che non si manifesti un consolatore (menachem) – un messia – né per quanti patiscono, né per quanti esercitano la forza. La forza è contaminazione che scorre tra le due estremità, tra i due poli della spada, osservava Simone Weil: il messia è operatore di shalom, ovvero di integrità, quindi confuterà e purificherà nel fuoco la vittima asciugandone finalmente le lacrime, e sanerà la ferita nel cuore del carnefice sbattendolo finalmente contro la roccia. Il menachem sarà il perfettamente impensato e il perfettamente atteso, perché non possiamo essere accompagnati a noi stessi se non oltre un periplo di giudizio che ha la misura di tutte le cose.

“La terra è data in mano al maligno – copre la faccia dei suoi governanti – se non è lui, allora chi è?” (Gb 9,24). Yikasseh, dal verbo kassah: coprire, nel senso di velare, accecare, ma anche dimenticare, condonare, perdonare. I tre membri del versetto tracciano con furiosa esattezza l’intera parabola mondana: la terra, l’universo visibile e tangibile è abbandonato, posto, consegnato nella mano del maligno, in potere del satana, dei satana, dei malvagi – egli (il maligno? Dio? l’ultimo colon scioglie il dubbio con una domanda retorica che è un trionfo d’amarezza, di consumata angoscia) copre la faccia dei potenti della terra, vela il loro cuore e i loro occhi, nasconde o cancella la loro persona, la loro intima essenza, la copre come sangue versato, come una vergogna, li protegge, li scusa, li assorbe nel suo disegno, li integra e annienta e salva loro malgrado – se non è Dio, allora Chi è (e Mi?, “Chi?”, è uno dei nomi supremi di Dio), chi sarà mai, chi mai può essere? C’è un nesso sottile, segreto, che va nascosto, coperto, tra la prima rivelazione, enorme, e la seconda, un fascio d’ombra tagliente: la molteplicità teofanica di Dio è data in potestà dei distruttori dell’ordine, e chi è chiamato a giudicare, a guidare, a riparare, non può, non deve vedere, anzi gli shofetim della terra sono complici dei reshaʻim, anzi sono i reshaʻim; Dio li vela e li copre, li acceca e li preserva, con scandalosa crudeltà e più scandalosa misericordia – una misericordia che rende lievissimi i giudici e rende certa e infallibile la tortura dei giudicati, dei miseri, dei miti, che prendono una consistenza, uno spessore, una lievitazione di gloria quasi del tutto indicibile. I giudici sono marionette, bambole e bambini, vanno trattati come li tratta Dio, con terribile leggerezza: una leggerezza che li maledice e li danna (in ebraico maledire è, tra gli altri, qillel, la forma pi’el di una radice che significa levità e inconsistenza), ma che è anche l’unica salvezza loro offerta, perché tutta la loro sostanza, la sostanza divina investita in loro, il loro essere, è stato preso in carico dalle loro vittime, dai santi, dagli amici di Dio, dai glorificati, dai pesanti, la loro faccia o immagine o persona è stata seminata sotto la terra abbandonata al loro dominio per germinare in altri, per crescere su altre facce, per arricchire i segretamente ricchi, coloro che mettono a rischio il capitale e ricevono anche i talenti degli altri, dei timorosi, degli umbratili, degli inesistenti, in modo che niente vada perduto e tutto sia uno.

giovedì 3 novembre 2011

Del rivedersi


a Gian Luca

Not fare well,
But fare forward, voyagers.
– T. S. ELIOT

Buona sera, amici. Come state?
Parlate, ch’io vi veda, trafiggete
il tempo con la vostra presenza, incurvate
lo spazio. Nell’attesa
io sono morto quattro volte, più o meno,
quindi possiamo mettere la mia faccia da parte
e rimischiare pazienti le carte.
Ad ogni angolo della vita
mi sorprende il mio angelo, mi dice
cose strane e credibili, ma solo
lasciando tutto vuoto e in sospeso.
Dov’eravate, amici miei, finiti?
Nessuno mai finisce il suo sentiero
senza trarre con sé e cielo e terra,
figuriamoci i volti conosciuti
e l’inatteso volto, che è più nostro.
E in ognuno di voi mi si fa prossima
la verità che confuta e consola –
come subito siete apparsi voi stessi
e non voi stessi, in limpido teatro,
in oscura ostensione, da bambini –
silenziosi e perfetti, ma confusi
nel rumore degli anni da riprendere,
feriti dal caso, cotti dal destino,
porgendo doni e chiedendo conferme
o smentite. Non vedete, infatti,
come siamo delusi a casa nostra,
con la maschera appena in rilievo
sul volto più nudo di ogni corpo?
Ogni festa è una fine. Buona sera,
dunque, amici. Ciò che importa,
ciò che pesa non è come state,
ma dove andiamo, dove mi portate.

mercoledì 2 novembre 2011

La colomba e il cielo stellato


La colomba di Kant, che nel vuoto crede di volare libera e cade nell’illimitato, perché per il loro volo le ali hanno bisogno della resistenza dell’aria (e del mondo).

L’aria è, secondo l’antica analogia, l’immaginazione: ostacolo e mezzo, velo di Maria nella tradizione cristiana e cristallo brillante come stella nel versetto della Luce, avvolgente e inafferrabile. Il volo lineare della colomba è però il moto della volontà del cuore, in cui si esprime l’archè o comando spirituale del mondo (la colomba è lo Spirito), la scaturigine avventurosa della profezia e della conoscenza, un senza perché superiore all’intelletto (e in cui trova pace, una pace che non è arresto, ogni perché?) a cui si resta fedeli in un rinnovato timore-stupore.

Il vuoto è la possibilità che tenta il destino profetico come suo annichilimento, suo nulla, l’angoscia del timore scaduta ad angoscia della plane parmenidea, il sentiero tortuoso dei dikranoi che oscillano come ubriachi (è l’ubriachezza delle passioni) tra i contrari dell’essere e del non essere.

In effetti il destino profetico si fonda su un rischio essenziale alla misericordia che crea, alla sympatheia divino-umana: che l’inconsistenza creaturale, lo havel havalim dell’immaginazione cosmica, dell’aria, sia male; e che questo male sia, kafkianamente (e qui Kafka è il massimo esegeta – gnostico – di Kant), il cielo stellato del bene, l’orizzonte in cui il cuore, custode della legge morale, è sempre sul punto di dimenticarsi, di negarsi, di smentirsi.