Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 22 febbraio 2012

Sulayman a Bilqis



Alla tua fede limpida e compita
volevo abbeverarmi, mia regina.
Per questo ti ho giocata. Su un cristallo,
acqua fissa e frangibile, hai specchiato
la tua esistenza: come tutto appare
differente ed uguale, è e non è.
Così sei e non sei – e io non ero
re di pace, ma naufrago in un cielo
di conoscenze prima di conoscermi
nel tuo sorriso, dopo il gabbo, lieve.
Vieni – sei più che bella: mi trascende
il tuo nuovo stupore. Insostanziale
ed eterna ti voglio meditare.

domenica 19 febbraio 2012

Sulla neve


La posizione del mondo, del samsara, è colta dall’oscillazione di un famoso passo talmudico: “‘Il mio è il mio e il tuo è tuo’: tale il carattere mediano, ma alcuni dicono che è quello di Sodoma”. Non sono la stessa cosa, e non sono separati. La mixis, l’angoscia del tempo intermedio.

La verità abbraccia la menzogna come un centro oscuro. Secondo la qabbalah la misericordia inghiotte il punto di giudizio implacabile: secondo il Vedanta l’essere manifesto – immortale – racchiude, contiene, assimila il mortale (sat-ti-yam), come Emet, la Verità, assorbe la morte, mem (Alef-Mem-Taw: la mem di mawed imprigionata tra la Alef dell’archè e la Taw della pienezza). Invece il male avvolge il bene, il divino, come una scorza il frutto o il nocciolo: la parola het, “peccato, impurità”, ha al centro una alef (lettera dell’Unità-Unicità divina) muta. Il male va tenuto nascosto, quiescente, non va inserito nel rito, rta, nell’asiyah o mondo dell’azione visibile-tangibile: è la radice del rito, la potenzialità, la morte, ciò che non è oppure che-è-e-non-è. L’atto e il pensiero contrari al rito, alla legge, custodiscono invece il divino, la alef – ma quiescente, silenziosa, invisibile: il male nella qabbalah è sitra ahra, l’“altro lato”, il lato volto verso aharon, le Cose Ultime; se ne mangia la polpa gettando via la scorza, come fa Rabbi Me’ir con Elisha ben Avuyah, il maestro apostata; ovvero si estrae l’attualità divina, che nel male ha la posizione della potenzialità, del nascosto, scartando la concretezza dell’atto, la lettera dell’atto (mentale, immaginativo, materiale). Il male va pensato, consumato nell’immaginazione e nella meditazione; il bene va compiuto, incarnato nel rito, nella miswah.   
Il sacrificio è l’atto per eccellenza, in quanto opera questa permutazione-trasmutazione: l’aspetto maligno dell’eccidio archetipico viene messo alle radici, sotto terra, e su di essa viene coltivato l’albero della reciprocità umano-divina, viene eretto l’edificio cultuale in cui cielo e terra celebrano la loro communicatio idiomatum, il loro eros cosmogonico.
Il male è Aher, l’alterità che fonda l’identità – non lo stesso, eppure inseparabile, non-due.

Le immagini caotiche vengono assunte e plasmate dal rito, incarnazione cultuale e culturale dell’archetipo: quando scema la fede nel rito, in Occidente nascono il rito teatrale e la dialettica filosofica: poi la gnosi passionale dell’arte, complementare e antagonista allo spirito sistematico della scienza/filosofia  – e oggi? Oggi è più che mai tempo di spie, di veli ironici, di doppiezza esoterica nel pozzo dell’esilio: distillando il caos ermetico che ci avvolge e strega si raccoglie la quintessenza della saggezza esoterica, al punto di intersezione fra le disperate doglie apocalittiche e lo sguardo sapiente che è l’ultradolore, la fine punta del dolore, priva di dimensioni, inafferrabile.

Pericoli sottili e mortali della vipassana e della psicologia archetipica.
Della vipassana: il praticante occidentale sente parlare di “sofferenze” e le intende in modo sensistico, ma così coglie solo un frammento della dottrina. Come si possono evitare sofferenze salutari a chi si ama? Ma allora il discorso torna dalla sofferenza al bene e al male. – L’anima vive di attese di Eros, attratta dalla legge, dalla mediazione, che si manifesta come una data cultura, come una data “forma di vita”. Di questo occorre essere consapevoli, senza illusioni di neutralità o di “scelta”.
Della psicologia archetipica: si lavora con le immagini, con le fantasie, come un artista del destino, le si guarda in trasparenza, si acquista uno sguardo multidimensionale, lo sguardo psicologico. Così l’occidentale si accosta al pantheon di una Grecia sradicata, una Grecia digeribile ad intellettuali e artisti moderni. Ma l’anima non è indifferente alla direzione impressa dallo spirito, all’autorità della volontà in cui si esprime il daimon: e tale autorità prende sempre la forma di un dogma individuale o sovraindividuale, di un logos eterno, del magnete intorno al quale tutte le altre immagini si dispongono armoniosamente. Tale dogma è il simbolo, la teofania di quell’anima, di quel destino, e in quanto tale non è costretto a chiudersi nel letteralismo della paranoia, anche se ha valore per chi lo vive e incarna proprio per il suo sottrarsi alle peripezie illimitate di anima.
Si ha bisogno di un corpo di scrittura, di un recinto di ignoranza e di certezza, di un orizzonte di sonno – perché l’anima abbia la libertà di sognare, interpretare, vagabondare. Necessità dello simsum, della fede: non possiamo andare oltre i fenomeni primordiali, le immagini primordiali di una data cultura, di una data rivelazione etc. I confini di questa cultura sono i confini del mondo: non si può oltrepassarli, è il gesto della cattiva metafisica – è necessario manifestare il tutto nella parte, l’universo in una prospettiva, per questo la cultura è rituale, un nesso vivente, elastico di azioni, abiti etc. Grazie a tale contrazione, immaginazione e pensiero possono commentare, illuminare, riecheggiare, meditare, sciogliere… Ma la coagulazione precipita come esito di un’accumulazione di spirito, di pensiero del cuore, di interiorità angosciata e presaga, rivoluzionario-profetica.