Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 4 maggio 2012

Meditando su alcune miniature persiane



Il nesso pitagorico-platonico tra hyle e plethos (moltitudine): la nostra percezione ordinaria della “materia”, del corpo fisico, è affine allo sguardo radente che gettiamo su una folla e che non ci consente di vederla se non come una massa indistinta, che si agita confusamente. Possiamo lasciare che ne emergano volti solo se siamo preparati a trovarveli, e se sciogliamo la sua apparente omogeneità indirizzando l’attenzione come un arto di luce in cui cognizione e volontà, sensazione e affetto, memoria e presenza siano inseparate. I lineamenti scorti sul muro, la forma organica riconosciuta nella nuvola, il tono e il ritmo che improntano il percepito non sono condannati a restare allucinazioni, tracce della solitudine del soggetto, se entrano attivamente, meditativamente in dialogo con l’intera persona: se si concede loro di svelarsi gradualmente, dinamicamente, come volti e persone in cui siano offerti il principio e il fine della persona che li accoglie, in cui la persona che li accoglie possa incontrare la propria plenitudine e integrità attraverso il velo della vita e della morte.

Se la montagna cammina, se ha un volto come me, più di me, allora mi si svela al tempo stesso più terribile e più familiare di quando la vedo inerte. È più me di me stesso: è una teofania. Forse all’inizio l’angelo deve manifestarsi come un aggressore, con tutta l’ambiguità del daimon. Per accoglierlo occorre diventare come bambini, avere i loro occhi e insieme strisciare con spire di serpente, con doppiezza, con diplomazia, attraverso il mondo del bene e del male.

Gli angeli non hanno nuca, non hanno dorso. Vorrà dire che non hanno zahir – da zahr, “dorso”, appunto? Sì, ma nel senso che sono manifestazione, immagine: non rimandano ad un’essenza, ad un significato, ad un “dietro-le-quinte”. La bidimensionalità dell’immagine non è quella della sezione astratta, della sensazione irrelata e piatta, ma quella del riflesso sospeso che trae a sé e con sé nostalgia e desiderio.

L’uomo che sul sentiero crede di vedere un serpente e poi si accorge che è una corda diventa un visionario, un pellegrino del mondo angelico, se nell’incontro iniziale coglie un’immagine, il riflesso di un archetipo, e non la sovrappone alla scoperta del risveglio, non la confonde con la consapevolezza della corda: la corda è il vincolo con la realtà di veglia, non è la spiegazione dell’evento-serpente, non è lo scioglimento di un enigma attraverso una formula separata dal corpo misterico dell’enigma stesso. Chi di notte vede un serpente in una corda, se non perde la scepsi binoculare che permette di camminare tra le cose, tra il mondo immaginale e il mondo sensibile, vede un angelo, una forma sospesa in uno specchio – né reale né irreale, né oggetto né allucinazione. 

Innamorarsi, to fall in love: evento narcissico, fatto di riflessi, proiezioni. Ma cadendo nello specchio si può uscire dall’incantesimo mutilante del rispecchiamento egoico, della ricerca di conferme, ed entrare nel gioco d’amore come ars specularis: uno dei modi per farlo è prendere un impegno con l’immagine vista nel sogno dell’innamoramento, darle un appuntamento nella veglia, stabilire un dialogo ipocrita e retto (rituale) con il telos dell’incontro, che è l’immagine totale, l’Androgino. Così l’interpretazione del sogno dà corpo a un vincolo, a un legame tra la rivelazione notturna e la vita di veglia, ne fa un’indicazione divinatoria – non nel senso di sottometterla alla veglia (la divinazione come strumento dell’ego, della sua caccia di potenza magica), ma indirizzando entrambi, sogno e veglia, ad un risveglio ermetico, terzo, testimoniale.     

L’angelo, forma personale dell’istante, trasmuta la memoria caduta (la materia prima di Leibniz: spessore di oblio, passività, resistenza, chiusura della monade) in memoria dell’aion, presenza all’aion. Parallelamente fa passare da una conoscenza tridimensionale a una conoscenza quadridimensionale: nella prima, ordinaria, la memoria e la ragione cadute aggiungono alle percezioni, in quanto sezioni bidimensionali (immagini), una terza dimensione astratta; nella seconda, attiva e meditativa, le sezioni bidimensionali riflettono direttamente l’angelo come esistenza quadridimensionale, archetipo che si epifanizza. Così non si cerca più un “dietro” o un “dentro”: l’immagine non ammette spiegazione; il nascosto si rende in essa manifesto, si tratta quindi di mutare l’orientamento dello sguardo, di lasciar emergere dimensioni ulteriori dell’unica esperienza. La prosa quotidiana si disarticola in poesia, in specchio lucido e prensile: si iniziano a vedere le cose nella reciprocità dell’eros, scorgendo la luce onirica che le illumina dall’interno; si sente e intuisce che il desiderio e il desiderato sono contigui sulla soglia del cuore, sulla soglia dello specchio.

Evagrio insegna che il pensiero dell’oro può essere angelico (caratterizzato dalla percezione amorosa della corrispondenza simbolica tra oro materiale e oro spirituale), umano (la pura “memoria”, o sati, dell’oro) o demoniaco (caratterizzato dalla brama di possesso che distrugge la contemplazione). Il pensiero umano (dell’uomo terrestre) è purgazione di quello demoniaco tramite la sua riduzione alla pura sezione bidimensionale, all’azzima dell’immagine, prostrata ovvero sospesa: solo così diventa superficie in grado di riflettere la luce infuocata dell’appassionata intellezione angelica.

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