Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 27 maggio 2012

Riflessioni su Narciso/ riflessi di Narciso



Narciso nasce dallo stupro della naiade Liriope, “colei che bagna il giglio”, da parte del fiume Cefiso.
Il giglio, fiore dell’albedo, è il ritrarsi di Maria davanti all’Angelo, il suo prendere rifugio nel dio interiore contro la prosbolè dell’immagine. 
Narciso si conosce nell’immagine: come Maria nella visitazione di Gabriele, come anche Gesù nello specchio della sua ecclesia, dei suoi amici e traditori. Si suicida squarciandosi il petto, il cuore: così la spada della profezia attraversa l’anima di Maria e la lancia del soldato il fianco di Gesù. Il cuore spezzato è la mente tagliata in due dal Verbo, dall’esperienza spirituale che è la morte, la tragedia dell’anima. Il sangue di Narciso è l’essenza del fiore narciso come Jesus patibilis suspensus e ligno (nella teologia manichea, la sostanza del Gesù psichico è crocifissa in ogni pianta: il regno vegetale è il più puro, il più sattvico, il più luminoso del cosmo caduto). Effondendo il suo pothos suicida come fiotto prezioso, Narciso rinasce come dono, immagine pura, il fiore che è Selbstdarstellung (Portmann) della terra. Ed è il fiore che stupisce, che addormenta, che dà il thauma dello specchio e della morte (Kore che viene rapita da Hades mentre coglie narcisi). Narciso muore sulla riva del fiume, al di qua dello specchio: la sua iniziazione è il consumarsi del (nel) pothos, un martirio al cospetto dell’immagine distante e più intima a sé di se stesso, intima come il volto che si porta. Eraclito dice che facciamo perire ciò che vediamo, mentre ciò che non vediamo lo portiamo su di noi, in noi.
Narciso è cacciatore, come tutti gli artemidei, i devoti della solitaria pienezza lunare: è Artemide stessa a condurlo alla fonte che l’oracolo apollineo gli aveva predetto letale. Mentre altri artemidei famosi, come Ippolito, vengono straziati dal contatto allopatico con la divinità antagonista (il terribile eros incestuoso di Fedra), Narciso vive una passio del tutto artemidea, ancor più di Atteone, che ha qualche affinità segreta con lui. La visione di Artemide, cui Eraclito ha dedicato il suo Perì physeos, la visione della physis che kryptesthai philei perché il suo volto, come nella meditazione di Novalis, è il volto stesso del ricercatore-cacciatore, è appunto la contemplazione stupita del proprio riflesso nello specchio lunare, nello speculum naturae: il meditante vedantico vede il serpente nella corda, Bilqis vede l’acqua nel pavimento di cristallo di Salomone, Narciso vede un altro (un’altra, la sorella morta, l’anima che è noi-non noi) in sé e sé in un altro.
La narcosi di Narciso è affine alla ḥayra (perplessità) di Ibn Arabi: stupore dinamico di fronte alla coincidentia oppositorum, che è anche oppositio coincidentium. Si tratta della soglia ambigua dell’immagine, dello specchio: muro e porta; crepuscolo, cortina tremula del lethe che può condurre al tamas notturno dell’insensibilità oppure alla bhakti, alla devotio sympathetica verso l’immagine, all’aisthesis come esclamazione di meraviglia con cui accogliamo il mondo, riflesso del nostro io che è a sua volta riflesso del mondo. L’istruzione iniziatica è la stessa di Goethe: sapere che la Natura inganna con le sue immagini, e lasciarsene saviamente ingannare. (Tale consapevolezza avrà la natura di Eco, l’amante respinta di Narciso, aura del pathos stesso, riflessione inerente al pathos come suo riflesso, sua vocalità sottile). Cecco d’Ascoli nel suo poema riconosce: Io so Ella, io stesso sono la Donna del mio amore spirituale, e ciò rende l’amore più ardente anziché spegnerlo (o meglio lo rende ermetico, serpentino, spiraliforme, fa fiorire un sorriso di kouros sacrificato e liberato al fondo dello strazio erotico).

Le tre morti di Narciso.
Il tuffo nello specchio d’acqua, ad inseguire l’immagine riflessa: qui Narciso è proprio Zagreo bambino, Dioniso bambino, col suo stupor cosmogonico che è creazione del mondo nell’anima e caduta dell’anima nel mondo. Oltre lo specchio, come nel mito gnostico, Sofia-Anima proietta il proprio lethe, la propria narcosi, nelle distese illimitate di Hyle; e al contempo, attraverso la morte-iniziazione, la teshuvah-epistrofè, ritorna all’archè, alla madre, nella forma condensata di un fiore – il suo sacrificio prende la forma di un fiore, di un pensiero alacre e dormiente della Dea, sogno della terra che è pura manifestazione, corpo sottile-angelico offerto a tutto e a tutti come colore e odore.
Il suicidio per languore sulla riva, al di qua dello specchio. Questa è la morte più esoterica, più sottile: il pothos per l’immagine consuma il corpo e l’anima attraverso la distanza – la mediazione –  dello sguardo, del riflesso.
Il suicidio violento, la lama di pugnale che squarcia il petto. Qui il sangue viene effuso dalla mano stessa del giovane, la sua essenza interiore dev’essere estratta con pena, con il dolore di una scissione interna, di una iniziazione crocifiggente, brutale.
Eco salva Psyche, ma non Narciso: lui l’ha respinta nella sua lunare e fragile pienezza, ora nella morte la loro distanza è colmata dalla voce di lei, riflesso sonoro, specchio acustico – che raccoglie il prezioso dolore della morte iniziatica del suo amato per effonderlo nelle cose; è lei il tramite della sua metamorfosi. Due distanze, due pothoi accostati, resi paralleli dal destino, generano il fiore che stupisce, la droga che aliena, l’estasi che mette in comunicazione i due mondi, la morte e la vita.

  Amando l’immagine riflessa Narciso ama davvero un altro, e al contempo se stesso: ma nell’estasi erotica, nel salto della nascita-morte l’identità è dimenticata, perduta, offerta, e risorge come il torpido aroma di un fiore. Per diventare frutto, Narciso oltre all’eros dovrebbe sperimentare l’obbedienza, la hypakoè. L’obbedienza è l’ipocrisia suprema: supera l’incantesimo erotico dell’occhio – al livello del quale l’ipocrisia è “pittura”, trucco superficiale – con la profondità dell’ascolto (hyp-akoè) tutto proteso al Verbo. All’inizio l’uomo la sperimenta come doppiezza: il Verbo è una spada a doppio taglio che separa l’anima dallo spirito, ma come nella Genesi, per imprimere al caos della falsa immediatezza (l’immediatezza caduta) la direzione del kosmos, in cui interno ed esterno si corrispondono armoniosamente (come profetizza la preghiera di Socrate nel Fedro, culmine della rivelazione erotica). In tal modo si è semplici come colombe – volti a un telos che tutto unifica, spiritualmente monogami – e astuti come serpenti – capaci di aggirare omeopaticamente la doppiezza del Serpente con il taglio operato in noi dall’obbedienza.

Alla fine Narciso si identifica con l’albedo della madre, la riconquista, la assimila: cacciatore lunare, per ottenere la Luna, per essere Luna, deve patire lo strazio della metamorfosi, la rivelazione – alienante, estatica – dello specchio.  

Narciso e il sonno che Elohim fa cadere su Adamo per trarne Eva. In ebraico è tardemah, che indica quasi sempre il sonno profetico: i Settanta traducono ekstasis, la Vulgata sopor. Elohim giudica che non è bene per l’Adamo androgino essere solo, levadò, e decide di fargli un aiuto che gli stia di fronte, che gli si opponga, kenegdò. Eva, la Donna, era latente nell’Adamo, o piuttosto – secondo il midrash – attaccata alla metà maschile dell’Androgino per la schiena. Al di là dello stupore, del sonno profetico in cui cade, Adamo trova il proprio specchio in Eva, il proprio sé nell’altro-altra, ed è caduta e imitatio Dei insieme: beatrix culpa. La morte di Narciso è qui la morte dell’Adamo-Uno, dell’Androgino prelapsario: il fiore è l’eros stesso, l’agnizione erotica nell’alterità, nel tempo (“Stavolta, ha-paʻam, costei è osso delle mie ossa…”), impossibile nell’unità raccolta e sferica dei pura naturalia, che del resto “erano” puramente potenziali.

L’eros, il pothos che consuma sulla riva, è (come) la dialettica: una via che, attraverso la purificazione, conduce ad un’autoconfutazione. Oltre quella soglia albeggia l’esperienza misterica dell’uni-diade, dell’androgino ricostituito.

Quanti di noi sono disposti ad abbassarsi tanto da specchiarsi in Narciso – nel narciso? La nostra immagine dormiente nel fiore è inafferrabile: si può solo esserla morendo a se stessi, o meglio sapere di esserla come si sa di dormire, come si sa di essere radicati e offerti.

“Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso” (Wittgenstein). Non si può dire: il mondo è il mio riflesso – ciò si mostra. L’immagine non significa nulla, non ha un “dorso”, come l’angelo: è ostensione di sé, manifestazione. Quando Narciso muore, si riduce a un punto, a un seme: allora può rinascere, può essere il mondo, ritrovarsi nel mondo senza riconoscervisi preliminarmente, egoicamente. Il suo stupore è demiurgico: è lo stesso del Demiurgo – fa essere il mondo, lascia essere l’essere. Lo lascia fiorire.

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