Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 31 dicembre 2013

Marginalia vergati scivolando in un fossato (per la Veglia di san Silvestro)



Fotografia: sogno positivistico della riproduzione della realtà così com'è, proiezione tecnica di una fantasia gnoseologica ormai ben impiantata nella psiche occidentale – e al contempo la cattura di fantasmi, di ombre (ombre, junghianamente, della forma mentis positivistica ortodossa). Foto di freaks, di morti, di poveri (freaks anche loro), di selvaggi (pure). La posa imponeva o plasmava maschere bronzee, con ancora qualcosa della teatralità del ritratto, biografia classica coagulata.
Fonografo, capta le voci come un medium. Tele-grafo, tele-fono, materializzazioni riproducibili, democratiche, messianiche, di operazioni magiche, occulte.
Cinema: la lanterna magica delle fiere, resa più illusionistica dal rituale preparatorio (la sala buia, la sessione comune che esalta l'isolamento). Inizi comici e pornografici: la meccanica applicata al vivente, la marionetta umana ancor più disincarnata come ombra-automa.
Radio: anni '20, l'era dei totalitarismi, dell'isteria di massa manipolata dai grandi demagoghi. La voce della guida, del duce, del piccolo padre entra nel focolare, è l'unico vecchio del paese autorizzato a raccontare le sue storie, e sono discorsi magici, seduzioni e coiti, concepimenti di golem immani, ordini di mobilitazione generale, totale.
Televisione: era eisenhoweriana, secondo dopoguerra, era del totalitarismo morbido e sagace, consumistico: sfrutta l'esperienza della radio, ma la potenzia grazie all'immagine, che cattura completamente l'utente, mutando per sempre il senso della sua casa, della sua vita immaginativa, percettiva, sociale, culturale. L'uomo come ricettore di merci e fatture pubblicitarie, luogo di transito – nemmeno di digestione – di desideri modellati dalla grande industria. Passività quasi perfetta: le lotte degli anni '50, '60 e '70 nascono al di fuori della sua magia, cercano di rivitalizzare gli slanci epici della lotta al fascismo durante la guerra, ma necessariamente dovranno assumere un carattere terroristico, come l'epoca nel suo insieme (Guerra Fredda, dittatura larvata, double bind eretto a sistema), o narcisistico-individualistico sotto le specie del collettivismo ('68), aprendo così la strada al narcisismo come grande patologia della generazione successiva (idea di Federico Gizzi).
Computer: anni '80, crollo del blocco sovietico, fallace ridefinizione del capitalismo (l'energia insufflata dal decrepito attor giovane, Reagan, il liberismo autoritario della zia arcigna, Margaret Thatcher): il computer è una proiezione tecnica del nous, una macchina del nous. Come ogni invenzione, porta con sé l'ambivalenza prometeica: strumento di liberazione dalla passività propria del macchinismo otto-novecentesco, ma anche ulteriore parodia della caverna platonica, il prigioniero in catene che si sente mago, il paradosso patologico del narcisismo giustificato, self-righteous. La nascita della Rete Mondiale, dopo la caduta del muro di Berlino, e infine dei Social Network, dopo l'11 settembre, rende ancor più fascinosa l'ambivalenza: la 'solitudine interconnessa', una rete magica sempre più pervasiva e invasiva, e una possibilità di intervento, di azione diretta, di riscatto dalla passività della televisione e del videogioco – si parla di rivolte di piazza giovanili nate o per lo meno promosse, moltiplicate e documentate dai social network, di democrazia diretta tramite il Web, vi si innestano temi concepiti in tempi culturalmente diversissimi, l'anarchismo, il comunitarismo, il situazionismo... Come Chesterton nutriva qualche speranza, con saggia riserva, nello sviluppo dell'industria automobilistica, così Ellul nella diffusione di massa dell'elettronica, anche lui ovviamente con la riserva che il 'sistema tecnologico' non se ne impadronisse: da qualche tempo si iniziano ad agitare i fantasmi di un controllo capillare tramite la Rete, una sorta di 'Stasi morbida', che però perpetuerebbe l'atmosfera culturale e politica di prima dell'89. – Ma la paranoia complottistica nata e coltivata dopo l'11 settembre è diversa da quella anteriore: prima si temeva la spia, proiezione oscura, ombrosa del mondo militare, oggi si teme da un lato, senza troppa convinzione, il terrorista come nuovo barbaro che minaccia la civiltà occidentale, dall'altro il controllo di un sistema senza volto come arcanum imperii della 'sicurezza', della pax oeconomica successiva all'Armageddon del '45.
L'avvento del computer richiede (in senso sia letterale che traslato, o piuttosto sia forte che attenuato) una sorta di diffusione, di democratizzazione autentica del pensiero e della pratica magici: impossibile dominare un 'non-strumento', un 'post-strumento' simile, senza una consapevolezza quasi sciamanica delle sue immani implicazioni. Inoltre, se è vero che la macchina non elettronica, come dice GKC, 'vuole' utenti macchinali, servi, e non consapevoli adoratori, per il computer, per la macchina elettronica (sempre più incline ad assottigliarsi oltre i limiti della macchina) vale quasi il principio opposto – vuole e invoca con gemiti inenarrabili un mago, non aristocratico, non isolato, che sappia assorbirne il riflesso in sé come un uomo. E siamo ancora ben lontani dal trovarne uno, perché nell'illimitato crepuscolo ermetico del computer la lanterna dell'Eremita non riesce ancora a scorgere profili e contorni di volti.

In un'epoca apocalittica lo Spirito divino non chiama né le genti e i popoli, disgregati dal tossico del tempo, né i singoli profeti-inviati (la loro nascita e maturazione richiede ed è richiesta da un'epoca di vera crisi, di corruzione del seme nel limo terrestre, dev'esserci il mito di una tradizione semisepolta e l'impeto di un'eresia fecondatrice): il debito è condiviso in una interdipendenza che il secolo XX ha iniziato a mostrare in modo sempre più chiaro e dunque enigmatico; di qui la turbolenta stanchezza – ansiosa, depressa, anestetizzata-narcisistica – delle sue ultime generazioni, che ora, nella stagione della interconnessione elettronica (in cui la messa in scena dell'interdipendenza è ancor più filosoficamente perfetta, quintessenziata), è attraversata da fremiti oscuri, ciecamente profetici – apocalittici, appunto – di comunitarismo magico, esoterico, l'occulto auspicio di creare un golem noetico, acquariano, una noosfera. L'antica opera dei figli di Hermes cerca, nell'apocalisse, rimescolamento di tutte le forme, di tutti i varna, una ambiguissima democratizzazione – insieme caduta nel fango e liberazione dall'orgoglio, confusione delle confusioni e semenzaio sospeso tra cielo e terra, sterminato accampamento di candala e goffo bocciolo della candida rosa.

sabato 21 dicembre 2013

Lettera ad un canonico regolare del XII secolo


 

Daniele Capuano saluta con amore benedicente il suo Amalrico di Chartres.

Nella mia ultima lettera, carissimo amico e fratello, ti ho promesso una breve e necessariamente manchevole descrizione del modo di vivere degli uomini della mia età. Dovrò raccontare cose a stento credibili per chi, come te, è avvezzo a costumi quali oggi nemmeno i pochi chiamati ad una vita di perfezione possono seguire senza una costante veglia del cuore e una ininterrotta fatica dello spirito.
Nel secolo in cui sono nato, il ventesimo dell'era cristiana, quasi tutti gli esseri umani erano persuasi che il fine della vita fosse la permutazione di merci e di denaro, e il compimento delle antiche speranze su questa stessa terra, attraverso l'invenzione, la fabbricazione e la diffusione presso il massimo numero di persone di strumenti sempre più raffinati. Non mi è facile spiegarti cosa intendo qui con la parola 'strumenti': noi diciamo 'tecnica', un termine di origine greca che indica, come sai, l'arte umana, l'applicazione dell'ingegno umano alla materia creata da Dio. A un certo punto la sazietà verso le dottrine dei Padri, che proponevano una ragionevole felicità in questo mondo come mezzo per raggiungere la pienezza della beatitudine nel mondo celeste, è stata accompagnata da una straordinaria ebbrezza per le possibilità che si aprivano sulla terra, una volta allontanata l'immagine del Regno divino, che in verità molti dei vostri filosofi e teologi avevano già resa, se non proprio indegna di desiderio, almeno remota e quasi inattingibile. Questa ebbrezza, però, come il naturale slancio di una adolescenza prodiga, lieta d'essersi liberata dalla servitù della casa paterna, si è col tempo mutata in una ardente disperazione: a volte generosa, piena di giovanile bellezza, come in quelle rivolte guidate da idee di origine divina che noi chiamiamo 'rivoluzioni', intendendo con questa parola un volgersi dell'uomo su se stesso, intorno al proprio asse – ed è qualcosa di simile a ciò che nel vangelo è detto conversione o metanoia – per girare armoniosamente intorno al Sole della Verità e della Giustizia (ti ho già raccontato del ciclo dello spirito che fu inaugurato, circa cinque secoli fa, dagli studi meravigliosi degli astronomi, paragonabili a quelli che condussero i magi persiani alla mangiatoia di Betlemme). Ma un fuoco non custodito si spegne, e lascia un letto di ceneri grige: così quel giovanile fermento, poi divenuto giovanile disperazione, si inacidì presto in una senile stanchezza. Mi potrai obiettare, saggio come sei, che nelle ceneri si cela pur sempre il sale di una palingenesi: non sarò io a negarlo, ma i miei antenati, pur non potendo rescindere completamente i legami con gli insegnamenti perenni, ne mantennero per lo più una reminescenza oscura, che andò a fecondare visioni profetiche non nutrite, però, dalla terra buona della contemplazione e della testimonianza spirituale. Quella stanchezza, quel disgusto sia per la vicina e perduta giovinezza che per l'antico ordine ormai sfigurato e infranto, venne chiamato da alcuni saggi 'nichilismo', ovvero, potrei dire, scienza del nulla, sapere del nulla: ma ti prego fin d'ora di non applicare a questo nuovo parto del fallibile spirito umano le misure del tuo tempo, forse più semplice, certo meno torturato dai dubbi e ancor meno da risposte puramente umane ai dubbi stessi. Non era, non è (ancora la mia età si dibatte fra le spire di queste controversie) una mera resa al demonio, all'orgoglio della disperazione che la tua teologia ben discerne: potrei paragonarlo, in modo assai imperfetto, con l'unico fine di avvicinarlo al tuo intendimento, all'inconsapevole attesa che bruciava nel petto dei pagani poco prima che nascesse Cristo, o ancor meglio ad un'angoscia di morte simile a quella che volle gustare Cristo nel Getsemani, ma un istante prima della decisione redentrice. In breve, c'era e c'è in quel 'nichilismo' qualcosa dell'apocalisse o rivelazione delle cose ultime con cui termina la Scrittura e quindi il dicibile umano e divino: d'altronde, il nulla è la materia da cui Dio trae le creature, a meno che non ristagni nell'anima, diventando il trono dell'Avversario, l'abisso della morte eterna. Non è un caso che un testimone cristiano di quegli anni parlasse tanto di angoscia, di quel poter essere e non essere che toglie il respiro, ed oltre il quale non c'è che il Respiro divino, lo Spirito, o l'annegamento.
Già da molto tempo le terre cristiane erano dominate da quelle passioni contrarie alla legge di cui ti facevo cenno all'inizio: la fabbricazione di strumenti sempre più raffinati, la loro diffusione presso tutti gli uomini come pegno della liberazione dalla miseria, dall'aspra necessità, lo scambio delle merci e del denaro, che per te sono come minimo attività pericolose, da limitare e frenare; e quell'idea così diabolica, così antica, ma che solo allora guidò popoli interi come un codice, ovvero che l'avidità dovesse spegnere la fraternità, che l'accrescimento dei propri beni dovesse soffocare il ricordo di ciò che è piccolo e umile, dell'immagine divina nel prossimo. Anzi, e so che questo ti riuscirà quasi incomprensibile, a meno di non intenderlo come un'astuzia dei potenti della terra per angariare i deboli in tutta sicurezza e impunità, molti sapienti dicevano secondo la loro coscienza che il soddisfacimento sfrenato delle passioni individuali – all'epoca si parlava soprattutto della passione di avidità – avrebbe condotto col tempo al maggior bene comune, anche se questo doveva comportare la rovina e la miseria di numerosi fratelli. Vedi, amico, come il potere dell'intelleto disponeva liberamente della carne degli uomini – proprio perché di essa non si curava già mentre dava forma alle sue idee.
Nel secolo in cui sono nato i cristiani hanno dichiarato due guerre straordinariamente brutali, in cui anche gli altri popoli hanno versato il loro sangue, e che hanno mostrato qual era la capacità mortale degli strumenti sempre più perfetti fabbricati nei decenni precedenti. Non sono state guerre simili a quelle che si combattevano ai tuoi tempi: non gli uomini guerreggiavano, ma gli strumenti bellici (ho ritegno a chiamarli armi) manovrati dagli uomini; e i loro reggitori non erano sovrani o senati o altre assemblee, ma tutti muoveva quella permutazione universale, la stessa in cui erano afferrate le merci e il denaro. Il che dà ragione, io credo, del successivo e sempre crescente senso di impotenza non solo tra le plebi, ma anche tra i loro chierici e i ricchi e i dominatori, un'impotenza che rendeva inutili e vane tutte le differenze di conoscenza, di opulenza e di potere: e non ti paia incoerente con quel che ti ho brevemente raccontato una volta, ovvero che proprio in quegli anni certi tiranni riuscirono a incantare i popoli cristiani e pagani accendendo in loro passioni smisurate e funeste. Non vi è nulla, infatti, che attragga e quasi evochi uno stregone o un demagogo come l'impotenza delle genti, come l'intima sensazione che tutto sia inesorabile: e un bene inesorabile non è che un male moltiplicato.
Dopo la seconda di quelle guerre, che imitarono la passione sterminatrice di Gog e Magog senza però mostrare all'orizzonte le armate del Secondo Avvento, non fu più necessario incantare con la violenza: la stanchezza dei vinti e l'orgoglio dei vincitori congiurarono nel creare un ordine sociale e civile in cui l'impotenza generale potesse distendersi come su un pagliericcio tiepido e confortevole, e non si parlò d'altro che di sicurezza, di pace, di comodità, di 'sviluppo' – questa parola che a te suggerirà l'estrarsi da un viluppo, da un impaccio, il pieno manifestarsi di un'entelechia, e invece significava per noi tutti un allargamento dei confini di questo ordine sicuro, pacifico e inalterabile. Come senz'altro già comprendi, carissimo amico, non era più il Regno dell'Uomo sorto dalla perturbazione dell'ordine antico, quell'adolescenza dell'uomo cristiano a cui si dava volentieri il nome di 'era moderna' (altro termine che i Padri riferivano al secolo nuovo abrogatore del gentilesimo) e di cui ti ho scritto sopra. Mi chiederai come mi piaccia chiamarlo. Non te l'ho ancora descritto a sufficienza, ma provo a spiegarti che, se il Regno anteriore pretendeva di essere il regime dell'individuo, separato dall'ordine e dalla comunione dei suoi padri, il nostro Regno potrebbe dirsi il regime di una comunione senza individui e senza persone: in cui la libertà di agire secondo l'immagine divina è consegnata alla tutela di padroni che nessuno incontra mai; l'eguaglianza proclamata dalla dottrina è rivendicata come parità nell'ottenimento di comodità e sicurezza, cui provvedono le merci, gli strumenti e le istituzioni preposte; e la fraternità del corpo di Cristo non viene più celebrata toccando le sue membra, come il Samaritano, ma lasciandone la cura a un oste pagato da tutti e da nessuno.
Nella prossima lettera cercherò di narrarti, con l'aiuto di Dio, i giorni dell'uomo in questo regno che non tocca più l'uomo. Ma ora parlami di te e dei tuoi giorni, Amalrico: dimmi del chiostro, del mattutino e di compieta, fammi sentire il rumore delle vostre scodelle e delle vostre spade, l'odore del vostro incenso e del vostro sangue, la voce delle vostre donne e dei vostri bambini, il vostro latino.

Gastric Flu Notes



Il bambino che gioca con la bambola sta compiendo un embrionale apprendistato alla magia: devolve la propria fede immaginale, la proietta su un ricettacolo materiale che gliela restituisce, lo allucina, lo incanta. In questo modo può creare un mondo, e anche ovviamente restarvi intrappolato, come ogni demiurgo.
Può il bambino sapere ciò che fa con la bambola, può l'adulto sapere ciò che fa con le immagini della cultura e della religione, con gli idoli e le icone degli dei e degli eroi? Può saperlo solo in modo dionisiaco, alla maniera dell'attore: se la sua consapevolezza non è umida, ubriaca, l'idolo è spezzato, ma anche l'embrione del dio muore. D'altro canto, però, se non vi è doppiezza, riflessione, senso del rito, la bambola vampirizza il suo operatore e demiurgo, il dio si erge in un'alterità che è il riflesso luminoso, ma altrettanto bruciante, della tenebra diabolica. Il diavolo, infatti, è l'idolo della potentia, potenza pietrificata: non può consistere, se non nell'anima divina di un uomo; e nella religione dualistica, che non rinuncia all'ego, l'ombra dell'ego, l'ombra satanica che è l'ego, ha la sua parte indiscussa e indiscutibile. Solo le ironie del sacro, che modulano la serpentina, ermetica doppiezza di Sofia, vedono in trasparenza il Serpente, lo tengono lontano e al contempo ne aprono il ventre, dove si celano tesori.

L'uomo acquariano sarà mago? Vedrà in trasparenza, e dunque scioglierà intimamente, le coagulazioni della tecnica tardo-pesciana? Chesterton osserva, con finezza, che il devoto estatico della tecnica non può esserne un buon utente: ma il mago non è identificabile con il bhakta. Di solito lo sciamano emerge carico di trucchi dalla solitudine tenebrosa di una caverna, di un ritiro disadorno, bestiale: proprio perché ha tagliato i legami passivi con la magia collettiva può essere attivamente mago. Ma sul piano culturale, epocale, è pensabile un recupero della sensibilità magica, dell'aisthesis che coglie le aure, gli archetipi manifesti, le immagini? L'ingorgo dei nostri giorni induce a credere che urga un impulso segreto, che stia per gorgogliare un fermento incontenibile negli otri vecchi del mondo delle merci, con la sua magia soffocante, avvilente, totalitaria.

Plutone come dominatore del secolo capitalistico-consumistico. Il gelo del narcisismo, la vampirizzazione da parte dei modelli-merce, in cui ci si trasfonde, liquefatti e rifatti come Narciso*. Il denaro come potenza ctonia incoercibile, flusso informe di vita scaturente dalla morte, dalla dissoluzione illusionistica del gioco finanziario, dai vincoli karmici del debito con le generazioni passate (verticalmente, nel tempo) e presenti (orizzontalmente, nello spazio). Plutone svergina Kore, l'anima ingenua, Cappuccetto Rosso ammaliata dai narcisi, e ne fa Persefone, la regina dei morti, luna sotterranea, oscura, centro di gravità depressivo, richiamo distruttivo e iniziatico. Hades è lo stesso che Dioniso, insegna Eraclito: nel pianetino gelido c'è la scintilla alcoolica del rivoluzionario, del bisessuale, dello scuotitore di case e di città.
Nella tensione tanatica del consumismo, sul rovescio del suo stampo, c'è forse un desiderio di essere di nuovo iniziati alla magia, alle arti della vinculatio.

[*Il nesso tra Plutone, in particolare la scoperta del pianetino lento, e il narcisismo come patologia collettiva è stato suggerito da Federico Gizzi].

Il mondo contemporaneo è pieno di sacro come un cartellone pubblicitario è pieno di colori. I colori dello spot sono, appunto, spots, macchie disposte secondo un disegno insieme anarchico e sofisticato, come una vinculatio che consiste nella sequenza o nel polifonico intreccio di nomina barbara insensati e precisi.
Di fronte al potlach sanguinoso del Quindici-Diciotto, un’ecatombe azteca è come un passo di danza classica di fronte allo scatenarsi di orgiasti. Di fronte alla giornata di un uomo-massa in una megalopoli retta da Mammona, il tessuto di obbligazioni, riti e griglie mitologiche che innerva la quotidianità di un Dogon è come un racconto di Esopo di fronte a un midrash di Kafka. Certo, nella megalopoli manca un Ogotemmeli: l’esoterista del tramonto dell’Occidente, di solito un economista non ignaro della multidimensionalità del suo oikos, ha la scientia, ma non la sapientia. Il punto è questo, come si suol dire con profonda banalità.
Il testo più esotericamente fecondo su questo punto mi sembra un aggrovigliato frammento di W. Benjamin, Der Kapitalismus als Religion. Vi si trova, con quella conjunctio di disperazione malinconica e arroventata proiezione rivoluzionaria che è tipicamente ebraica (penso a Shabbatai Zevi, da Shabbatai-Saturno, pianeta della contemplazione, della rovina storica e della catastrofica genialità messianica), l’oracolare intuizione di una insuperabilità del capitalismo-religione nell’orizzonte del sacrum e della Erlebnis: il capitalismo è una religione che affonda le radici nelle profondità plutoniche, dunque nel sacrum più prossimo all’Urgrund e all’Ungrund, e il suo essere la prima religione puramente cultuale della storia (quindi una religione in cui il rito diventa agito, complesso autonomo della psiche promosso a esperienza spirituale comune delle moltitudini, di tutti e di ognuno, di ognuno e di nessuno) fa sì che assorba e assimili ogni conatus di esperienza alternativa, a qualunque livello di essoterismo e di esoterismo.
Le fratrie sorte dopo la dissoluzione dell’ordo medievale per preservare il seme aureo e trasmutatorio nel pozzo dell’esilio sono condannate a una ordalia perpetua: o dissolvono ogni slancio operativo ed esperienziale nel mestruo ermetico dell’interpretazione permanente, dell’ironia che è il fermento rivoluzionario nel tempo delle God’s spies, oppure sui loro tentativi pendono gli ambigui, accecanti versetti del Dao-de-jing – non puoi maneggiare il vaso dell’impero, non puoi governare il popolo, non puoi agire (né sulla scena visibile-tangibile, né su quella sottile). Le radici possono essere coltivate, non fatte. Lo stesso insegna un taoista vigile come scolta fra alba e tramonto, che tanto è esoterico nel suo magnum opus narrativo, tanto è petulante e unilaterale nella sua predicazione religiosa – Tolstoj. Guerra e pace è una compatta e articolatissima meditazione sull’inutilità e l’impossibilità dei piani, degli interventi, dei disegni, occulti o mondani, esoterici o militari: si tratti dei massoni più addottrinati o degli strateghi prussiani più intelligenti e dotati. Lo spirito del popolo, il vero esoterikon, vive nei proverbi e nelle filastrocche di Platon Karataev, nell’indolenza medievale di Kutuzov, tanto succosa e carica di spessore culturale e spirituale da sembrare vuotaggine decadente, l’eterna caricatura della resistenza passiva dell’orientale, della sua oppiata pesantezza di movimenti e di volizioni.

lunedì 9 dicembre 2013

Meditazioni orfico-dionisiache (agosto 2013)



"I cadaveri vanno espulsi con più urgenza degli escrementi" (Eraclito). Lo sfondo è indubbiamente orfico: il corpo grossolano, il corpo-oggetto, nato dal nutrimento, è un cadavere, perché non è legato intimamente al principio della sua vitalità; il contatto con un morto rende impuro il vivente, che dunque dovrebbe liberarsene con la stessa prontezza con cui si sente la necessità di sgravarsi degli escrementi, il residuo o caput mortuum dell'assimilazione. Tuttavia l'enigma va inteso alla luce della sophia eraclitea nel suo complesso: il sole è nuovo ogni giorno, ogni istante, le cose apparentemente stabili, l'apparente continuum dell'esperienza ordinaria è un flusso, un fiume costantemente rinnovato. Quindi l'Efesino ci sta esortando ad espellere il corpo che dura più di un istante, l'illusione cadaverica di una continuità materiale passiva e permanente: così facendo ci si libera dall'escremento, si è vuoti e leggeri, si vive fluidamente, dionisiacamente, invece di titanicamente e duramente-durevolmente morire.

In un affresco medievale Adamo ed Eva sono ai piedi di una enorme Amanita Muscaria. L'albero della conoscenza del bene e del male è un fungo stupefacente: coincide con l'albero della vita, la differenza sta nel modo dell'assunzione – la droga che conosce il bene e il male è la coscienza riflessa come caduta nella dualità, stupore che separa dall'integrità divina. Così il vino nel dionisismo orfico è l'umidità che appesantisce l'anima ignea, che la rende ebbra e barcollante, ma bevuto ritualmente è il farmaco della risalita, del ritorno o epistrofè, la sua azione dissolvitrice nei confronti della coscienza ordinaria, del continuum di coscienza quotidiano, apre il varco della trasmutazione, manda in putrefazione la psiche e fa scoccare la scintilla ardente di uno spirito corporificato, fluido, androgino, senza opposizioni. Nel mito aristofanesco del Simposio Zeus dice agli uomini dimidiati, sessuati, che se sfideranno ancora il divino in modo titanico, prometeico, li taglierà di nuovo a metà, rendendoli unidimensionali come i contadini che, durante le feste dionisiache, praticano il rito festoso dell'askoliasmos, il tentativo di mantenere l'equilibrio con una gamba sola su un otre di vino coricato: la Pentecoste dionisiaca agisce anzitutto come una perdita della relativa integrità umana, il coribante ebbro è un danzatore zoppo, un acrobata sul punto di inciampare e crollare nel fango, feccia del mondo, privo di consistenza e orientamento, scisso e lubrico. Lo Spirito glorifica mortificando, il cenacolo degli apostoli privi del loro capo – hanno perso la testa, in tutti i sensi – è un komos di deliranti, esposto a ogni truffa, parodia e primizia della pienezza finale. Dioniso è il re fanciullo del ciclo più amaro del kali-yuga, e proprio per questo è lui, lo scuotitore di case, l'appestatore di città, a promettere la dolcezza più ricca e appagante, che sazia e placa ogni combat spirituel.

Olimpiodoro: il nostro corpo è dionisiaco. Corpo glorioso, ma la sua gloria, il suo ganos è inerente alla caduta, mescolato alla fuliggine del corpo titanico.
Il corpo di resurrezione emerge come nei testi shivaiti: di istante in istante, quando la scossa passionale si esaurisce in se stessa, si dissolve in movimento, vibrazione, gioia.

Melancolia e akedia, accidia: il demone meridiano come duende che seduce l'eroe dell'askesis, il meditante. Peste che distrugge a mezzogiorno, zaharim: nell'ora dello zahir, dell'assenza di ombre, Sirio indebolisce la violenza virile e rende folle l'energia femminile (Alceo). Tema nicciano: la verità come ostensione della parvenza, mezzogiorno della storia spirituale.
Enigma orfico-dionisiaco di Sileno a Mida, il sovrano dell'anti-Cuccagna, dell'età dell'oro letteralizzata. Sileno dice: perché vuoi sapere ciò che per te, uomo, è sommamente funesto? La cosa prima, la migliore, per voi è non esser nati, la seconda, una volta nati, morire al più presto. Dioniso è il re dei morti, colui che fa del mortale un grappolo d'uva: la gloria della zoè 'indistruttibile' (Kerenyi), dell'aphtharsia, risplende sull'abisso orfico della caduta originaria, lo scempio titanico. Equivoco dei nichilisti: mè phynai non è mè einai, non-nata è a-ja, la natura-capretta, l'aion che sempre fluisce.
Si può riscoprire il nesso silenico fra accidia melanconica nel panico mezzogiorno ed ebbrezza-mania trasfigurante, divinizzante? Dioniso va lasciato entrare, va accolto: allora la sua possessione non è l'ottenebramento distruttivo dei miti, ma è la dolcezza mielata della vita al confine. Non ermeticamente, attraverso la phronesis, la metis (intelligenza ermetica), ma attraverso il pathos stesso. Bachofen: Dioniso media tra il demetrico, il diritto materno, conservato dall'orfismo, e l'apollineo, il diritto paterno. Rivoluzionario, straniero, veniente, traghetta i doni dell'archè nella notte del transito, nella mera dissoluzione della krisis (Hoelderlin). Oggi i fenomeni riconducibili all'archetipo dionisiaco mancano di questa consapevolezza notturna, simile a una fiaccola portata sui monti e per le valli, la percezione di una gloria corporea della melancolia, della 'depressione'. Eraclito: Dioniso e Hades sono heautos, "il medesimo"; se manca questa consapevolezza, gli oggetti venerabili, indicibili del rito vengono manipolati senza aidos, l'happening è mera carnevalata, Saturnale, sul tiaso hippy e sulla parata del Gay Pride mettono le mani i Pentei ormai avvisati, trasferiscono quella seduzione alle loro merci (Anders), alle loro istituzioni asservitrici. La celebrazione diventa autocelebrazione narcisistica, rituale sterile dell'età dei consumi. L'ombra rimane staccata, inconscia, Manson non viene inserito nel mito ma espulso, l'AIDS non è pandemia, peste artaudiana che si fa teatro ma vergogna da occultare, ennesimo pharmakos.
Incombe il timore, da Nietzsche in poi, di ricondurre Dioniso a Cristo, anche nella forma del Paraclito, del Terzo escatologico: evocare la Croce introdurrebbe l'ascesi nel rituale orgiastico, mutilandolo. Ma questo perché la depressione, come insegna Hillman, è vista solo all'interno dell'orizzonte cristico, non più tragico-giocoso ma 'spirituale': e il paradigma apollineo-erculeo falsifica la coscienza dionisiaca, ipocrita, 'bisessuale', policentrica, fluida, in 'percorso di integrazione'. Impossibile, però, tornare alla visione rinascimentale della melancolia, tutto sommato legata al modello umanistico: il 'melanconico' di oggi è un 'dissidente' del mondo dei consumi, un ribelle del tutto inconsapevole. Il sorriso ozioso ed ebbro di Sileno non ha nulla a che vedere con il ghigno del drogato prima borghese e poi massificato. L'I prefer not to del depresso contemporaneo è più silenzioso e più violento al contempo.

Omar Khayyam: di nuovo pessimismo ed ebbrezza. Epicureismo mistico. L'istante di ebbrezza mistica e il disprezzo per il mondo della morte e dei morti viventi, per i vincoli sociali e confessionali. Quietismo, ma non letteralizzato: una dolce esultanza, un ebbro abbandono che fa vedere doppio, che indossa una maschera inafferrabile (è un sufi o uno scettico? Un monoteista o un dualista, un manicheo?). Ciò che Penteo teme di più, in quel ciarlatano dai lunghi capelli, morbido ed evasivo, è la sua indeterminatezza politica: dionisiaco è il democratico entusiasta, il demagogo dall'occhio febbrile, il fondatore di comunità di eguali o di pari e l'autocrate istrionico, inconsistente o delirante. D'altronde, il lato iniziatico, misterico del dionisismo assume aspetti ben diversi se fa sentire la sua creatività 'politica' in tempi di piccole comunità fiere, combattive e libere oppure di imperi che si reggono sul sostegno delle plebi e incantano, con il terrore e/o l'inganno, i senati e le assemblee 'aristocratiche'.

Orfismo e interpretazione noetico-spiritualistica del dionisismo. La Rivelazione abramica nasce dal rifiuto dialettico dell'immediatezza dionisiaca, legata a Cam: così va letta, secondo la Weil, la proibizione di cuocere il capretto nel latte della madre (lamina dell'esoterismo orfico: capretto caddi nel latte). Forse anche il divieto noachide di mangiare l'animale con dentro il suo sangue è diretto principalmente contro lo sparagmos del dionisismo mediterraneo, fermento camita.
Mito di Aristofane nel Convito, dialogo tra maschi che assumono il sangue di Dioniso temperato con la fredda acqua 'giunonica' o 'orfica' o 'apollinea'. Gli uomini integri primordiali, se uomini-uomini, hanno una stirpe e dunque un eros solari: l'omoerotismo apollineo, aristocratico, l'iniziazione maschile, guerriera. Se donne-donne, sono terrestri: la 'comunanza sororale' di Antigone? Comunque l'omoerotismo femminile come iniziazione ctonia e demetrica, misura del diritto materno. Se uomini-donne, androgini, sono lunari: dionisiaci. Dioniso, secondo Bachofen, media tra il demetrico e l'apollineo: tra Sole e Terra, nous e corpo. Come l'anima. Dioniso ha molti nomi, è hygros (umido) come l'anima incarnata, 'molti-e-uno', riflesso inebriato, caduto, dell'uno-molti del Nous e dell'uno-e-molti dell'Anima Mundi (che forse è Dioniso nel suo stato celeste, principiale).

Hoelderlin e l'elemento patrio: bisogna ritornare ad esso, convertirsi ad esso – epistrofè – attraverso l'elemento opposto, che diviene un anti-self, una maschera. Dioniso, il proprio, ritorna sempre come Straniero: potenziale nemico e ospite (hostis-hospes). I Greci avevano come elemento patrio l'orientale, l'aorgico, per questo per esprimersi si affidarono all'elemento della sobrietà giunonica e della distanza apollinea, indulgendovi troppo fino all'artificiosità ellenistica. Noi, occidentali, esperidi, abbiamo come elemento patrio la sobrietà giunonica, il limite, tendiamo perciò allo scatenamento aorgico – ma, sembra dire Hoelderlin, per lo più inconsciamente. Differenza tra l'instaurazione della democrazia ad Atene e la Rivoluzione Francese.

Sofocle è il "più tragico": esprime secondo Nietzsche il sentimento popolare ateniese, l'idea – distante dalla teodicea dell'iniziato Eschilo – che la dismisura tra l'uomo e il dio coglie come sventura e dolore l'incolpevole, Edipo, trasformandolo con il pathos in un essere benedicente, una figura di debolezza e trasfigurazione, dionisiaca. Il suo pathos misterico è più essenziale e profondo proprio in quanto non esplicito: l'intuizione sapienziale della 'nullità' umana, congiunta a quella della sua deinotes (lo sradicato è deinos, è 'smisurato'), trascende persino quella religiosa di colpa.

Non bisogna letteralizzare la crudeltà nei miti e in alcuni riti dionisiaci (soprattutto fuori dall'Attica): si tratta di diventare bacchoi, attori, l'identificazione va vissuta con la doppiezza dell'occhio teatrale, della maschera.

Nell'Era dei Pesci il dionisismo si è scisso fra l'excessus mentis della mistica e il carnevale delle danze sacre-iniziatiche e feriali-popolari (vi è già una anticipazione nel giudaismo, ovvero nella rivelazione semitica più antica). La festa dei folli e quella degli asini sono appunti sospensioni carnevalesche: i sacerdoti si allontanano, lasciano il campo agli avvinazzati. Si nota qualcosa di simile già nel periodo ellenistico, questa lunga preparazione al nuovo impero spirituale. Noi siamo sempre meno adatti ad accogliere l'epidemia nella trasognata consapevolezza di un rito: forse Dioniso era ed è, soprattutto, un invito al trasognamento, a una coscienza liminare, sobria-ebbra, androgina (Hillman).
L'India postvedica ha fatto di Shiva un 'asceta erotico' (Doniger), la Grecia presocratica ha fatto di Dioniso un alleato di Apollo, uno xenos che riplasma la comunità invece di distruggerla.
Dialettica post-nietzscheana: non si può contrapporre del tutto Dioniso a Cristo; non siamo in un epoca post-cristiana, ma apocalittica (Illich); il 'terrorismo morbido', il double bind del tardo capitalismo ci rendono quasi impossibile celebrare nelle crisi di questo sistema una parousia dello Straniero, che richiama le donne lontano dalle città e confonde le angosciate sicurezze del potere. Il Grande Pan è morto, possiamo coglierlo solo nei frammenti, nelle rovine, nelle persistenze sfigurate. Il Dioniso pre-acquariano dovrebbe forse essere carnevalesco, funebre, eccessivo, un fiorire di happenings apocalittici?

Se manca "l'elemento ebbro-vegetativo" e quello "ctonio" (G. Zacharias), ovvero se "il Grande Pan è morto" (o non è mai nato), il dionisiaco tende a manifestarsi come infrazione gnostico-esoterica. Il dionisiasta lascia che l'ebbrezza l'accompagni ad una coscienza di confine, ad una esperienza di trasfigurazione sulla soglia fra i vari regni della natura – una sorta di Regno Messianico ma non conquistato con un'ascesa (e un'ascesi), bensì lasciandosi sedurre, abbandonandosi.

Il duende sale interiormente dalla pianta dei piedi (come il ch'i taoista), non viene da fuori come l'angelo e la musa, va risvegliato dalle stanze oscure del sangue. Apre la ferita, vive sul suo bordo, e solo lui la guarisce.

Affinità e differenze tra Dioniso ed Hermes. Hermes dio dei confini, dei crocicchi, del tertium come traghettamento incessante, come erm-eneutica: dio polymetis, della saggezza che elude il dilemma, che irretisce e trova mechanai; dio dell'esoterismo, dell'iniziazione che fa uscire dal grex, dalla magia sociale. Dio dei crepuscoli, ladro, truffatore, ipocrita. Anche Dioniso è ipocrita: ma piuttosto nel gesto, nel drama; dio del pathos, dei confini sperimentati in sé, della liminarità trasognata, dello strazio e della ferita (che può alludere ad una mechanè ermetica, l'aporia come 'apertura' a dimensioni ulteriori), del lutto e della risata; se Hermes rende versuti, ricchi di sale, psico-logici, Dioniso rende attori, ricchi di succo, hygroi, sul fondo fluido e sdrucciolevole della valle del fare-anima.
Dioniso porge Hermes, Hermes porge Dioniso. Apollo è Dionysodote, ricompone Dioniso smembrato, Dioniso è congiunto ad Apollo.

Vino e melancolia nello pseudo-Aristotele: la droga dionisiaca come l'umore oscuro legato a ghè e chthon, Dioniso come Hades. Se temperati, danno la complessione eroica, geniale. La bevanda fermentata, sacramento con cui si assimila l'universo (vedi Crisippo, una goccia di vino, il pyr phronimon, è diffusa nel cosmo), è succo vegetale, acqua lunare da cui sprizza il fuoco alcoolico. Luce oscura, fiume del Lethe: oblio del passato che fa discendere le anime dalla luna, attraverso la porta degli inferi o Cancro, le fa sorgere ignoranti come il puer, Zagreo, Krshna, astorico, aion che gioca. Le nozze di Dioniso e Arianna: la Signora infera delle anime, abbandonata dall'apollineo Teseo, l'eroe, riceve nel suo lutto e nella sua attesa, in mezzo al mare, il dio della zoè, della trasmutazione lunare, vegetale-animale, il puer aeternus.

Il fermento dionisiaco, quando irrompe nel sogno della storia, è il massimo dell'ambiguità, intossica e sollecita all'iniziazione: può manifestarsi come il tumulto della rivolta, con la sua sospensione esaltante e accecante dei limiti morali e politici, o come lo Streben superomistico di Alessandro, Achille infelice, sovrano cosmico infelice, ipnotizzato dall'illimitatezza dello spazio terrestre; o di Nerone e di al-Hakim, semidei folli, lievi e micidiali, che cercano con il popolo un rapporto immediato, di isterica partecipazione. Il potus deorum, il vino che illumina e allieta gli dei, quando si fa potus animarum, vincolo oscuro delle anime, chiede la morte, la putrefactio, che può lievitare in rigenerazione solo attraverso il contenimento del rito, a cui Dioniso è incline con la sua stessa pastosa umidità: è il dio della follia rituale o telestica, secondo Platone, e a differenza di Zeus, l'avventuroso Padre degli Dei, lui, l'effeminato, il bisessuale, conosce un solo legame nuziale, quello con Arianna, l'abbandonata.

martedì 26 novembre 2013

Altre riflessioni sull'alchimia


In alcuni testi la 'sequenza' delle pietre filosofali segue quella arcaica degli elementi (legata ai 'luoghi elementari'): acqua-terra-aria-fuoco.
La pietra vegetale è collegata all'acqua: la sua preparazione è spagirico-filosofica, va assunta come medicina e utilizzata nell'opera minerale-metallica. Il lavoro propedeutico è svolto soprattutto con la rugiada e il tartaro.
La pietra minerale-metallica è collegata alla terra: l'ermetismo arabo la chiama pietra 'esterna', barrānī. Si tratta della preparazione filosofica dell'elisir minerale, in parte attraverso la prima pietra, quella vegetale. Anche qui si ottiene una medicina – dei metalli – che può essere specificata per il corpo umano.
La pietra animale è collegata all'aria: l'ermetismo arabo la chiama 'interna', jawwānī. Forse qui il 'vaso' è soprattutto interno, si tratta una forma di neidan. I prodotti lavorati all'esterno vengono fatti circolare nell'athanor del corpo, e il lapis 'interno' potrebbe essere una fisiologia illuminata, trasmutata, come quella dell'adepto taoista.
La pietra universalissima corrisponde al fuoco, al mondo angelico-celeste: l'operatore giunge all'acquisizione dei poteri magici, alla completa trasmutazione dell'essere umano, diviene adeptus, "colui che ha conseguito". In molti casi viene ottenuta senza passare per le tre tappe precedenti: è la spiritualizzazione, l'angelicazione dell'umano. Lo Spirito Universale, Ruach Elohim, è l'energia sintropica (secondo la teoria di Fantappiè, l'unica contemporanea in grado di nominare in qualche modo l'antico Spiritus Naturae), che non si può 'produrre': l'uomo può solo riceverla e coltivarla in sé e fuori di sé, nell'athanor interno e in quello esterno. L'uomo può solo produrre fenomeni entropici, di decadimento e morte: ma tramite l'epiclesi magica diventa un sacrificatore, dà morte vivificante, fa risorgere.
La chiave di tutte le pietre, che sono una, è l'attrazione di questo Spirito, la sua "corporificazione" o fissazione. Esiste un magnete per l'oro astrale, per l'energia solare, per il sale di natura presente nell'atmosfera? I fenomeni di trasmutazione, in natura e in laboratorio, a basse temperature attestano la possibilità di captare questa energia plasmatrice che si muove in direzione opposta rispetto all'entropia, alla causalità meccanica. Triturare, dissolvere, distillare e al contempo 'dinamizzare': così il ponderabile si fa ricettivo, trasparente all'imponderabile, alla quarta dimensione i cui effetti cogliamo solo come sezioni bizzarre nello spazio-tempo tripartito, entropico.
Essendo il magnete uno speculum naturae, la prova che ha assorbito lo Spirito o Sale di Natura è che su di lui-in lui cominciano a manifestarsi gli eventi di una cosmogonia, il caos si anima, la vita si genera – andando controcorrente rispetto ai fenomeni consueti, entropico-meccanici. L'alchimia è l'esoterico della profezia, secondo la gnosi sciita, perché l'Artista prepara un'ostia gnostica, dall'efficacia sperimentale-sperimentabile – di cui il rito comune serba una virtualità che solo la fede può risvegliare. La sua posizione è dunque sommamente pericolosa e decisiva: è un imam che saggia se stesso come pietra di paragone.

La pietra animale è qualcosa come il sangue di san Gennaro, una conjunctio operata nell'athanor del corpo sottile per trasmutare la fisiologia. Alla fine l'adepto diventa come quel sangue, è non-morto, si ritira nel mondo immaginale come Elia, Khidr, Idris, Gesù e il Dodicesimo Imam, vive come un guardiano dei mondi, come un agente della resurrezione.

Elia, modello degli alchimisti: la sua meditazione secondo Ibn Arabi è quella ʻunsurī, "elementare"; assume in sé progressivamente le caratteristiche dei vari regni naturali, diventa uno sciamano. Ciò può avvenire con o senza upadhi (sostegni visibili): ma poiché il suo culmine resta comunque indicibile, persino nel codice esoterico, la Pietra Universalissima dev'essere in qualche modo senza upadhi. Forse questa pietra di fuoco è il corpo stesso dell'Imam.

martedì 19 novembre 2013

Note sul racconto-cornice delle Mille e una notte



Le prime righe delle Mille e una notte sono scandite dalla rima -an, che in arabo indica il nominativo duale: il libro inizia dunque sotto il segno della dualità, del rispecchiamento, della complementarità asimmetrica. I due sovrani fratelli, Shāhzamān e Shāhrīyār, hanno avventure parallele, con esiti simili eppure inconfondibili. Entrambi manifestano l'archetipo del maschile: fragile, vincolato alla parola esterna, scritta o comunque solennizzata, del giuramento, del patto; assetato di garanzie, di puntelli, davanti alla meravigliosa mostruosità del mondo, alle profondità attraenti e inquietanti del mistero divino. Shāhzamān, “sovrano del tempo”, è il maschile sottratto al tempo, anche se già scisso, unilaterale, esiliato dall'androginia delle origini. Quando scopre il tradimento della moglie con il servo negro, la uccide: l'infedeltà viene colpita da una parola regale, legale, da una spada discriminante, e la ferita, il vulnus del mondo si richiude, l'angoscia per l'ordine minacciato, periclitante, si placa. Shāhrīyār, invece, “sommo sovrano”, non sa richiudere la ferita, che sanguinando chiede altro sangue versato: la serialità delle nozze mortali (la sposa decapitata dopo la notte della consumazione) è la ruota d'Issione della psiche del re, la maschilità tradita avvia il ciclo samsarico della violenza riparatrice che non ripara ma approfondisce le dimensioni e la gravità della piaga. Il re ha visto la donna, il mondo, la molteplicità, dall'alto del suo trono: ma cosa ha davvero colto il suo sguardo? Immondizia, infamia: una regina che si trastulla con gli schiavi, la divina Shekhinah che si compiace del fango mondano, che mostra il volto terribilmente iniziatico della prostituta gnostica. L'archetipo maschile irrigidito nell'unilateralità decapita il femminile, lo riduce a presenza corporea passiva e muta.
Colei che curerà il re e il regno è Shahrazād: l'assonanza tra i nomi è significativa ma ingannevole, perché Shāhrīyār è re (shāh), mentre la figlia del vizir è “la liberazione della città (shahr)”. Ha letto tutti i libri della biblioteca paterna, ora si fa alveo e letto di quel fiume di parole e narrazioni, portandolo nel palazzo reale, nel talamo del suo signore: ogni storia viene captata nell'aria avvolgente dell'anima comunitaria, il discorso infinito delle generazioni (“mi è giunta voce”, “si narra”). Il racconto notturno, la parola femminile, è l'opposto complementare di quella diurna, maschile: differisce la morte, traccia un labirinto, mostra una sala di specchi che alla fine si svela essere una matrice, feconda ed elusiva insieme – la māyā che crea e irretisce, che offusca e libera. Il maschile unilaterale, caduto, malato, può essere curato solo dalle amplificazioni gnostiche, dalle narrazioni che, come i midrashim ebraici, fanno parlare i vuoti della Scrittura, aprono una bocca oscura e maliosa, una radura di allusioni, nell'intrico apparentemente continuo della rivelazione profetica: così Sofia è ricollocata nella sua posizione centrale e mediatrice, la posizione dell'anima e dell'immaginazione. Ricordiamo che alla coppia dei fratelli sovrani corrisponde la coppia delle sorelle del vizir: i racconti di Shahrazād sono rivolti al re alla presenza di Dunyāzād, “liberatrice del mondo”; la parola notturna viene consegnata a un uomo, che la visione del tradimento ancora ossessiona, e a una donna che è pura testimonianza e presenza, che filtra le correnti sottili in un silenzio di per sé terapeutico, immagine di mite fermezza, di costanza e attenzione.
Alla fine il maschile, malato di unità, si riconcilia con la molteplicità femminile, con la māyā che è matrice e restituisce al mondo l'armonia di vita e conoscenza. Le nozze sono feconde, dopo tre anni di terapia notturna il regno risorge con tre figli, tre principi luminosi scaturiti dalla tenebra.

domenica 17 novembre 2013

Archetipi tra anima e spirito in Zolla e Hillman [Annotazioni]


L’anima è intermediaria, mediatrice – è prospettiva: da un lato rivolta verso l’alto (ano), al nous, alla luce dell’intelletto, dello spirito; dall’altro rivolta verso il basso (kato), alle tenebre, all’opacità di hyle, della materia: è il colore (che nasce nella tensione polare fra luce e tenebra), l’immagine.

Zolla e Hillman sono i Dioscuri del Secondo Novecento, tempo di esilio: i due volti di Hermes, amicus cuiusque segregati (amico di chiunque si sia separato dal grex, dalla mimesi sociale), i due crepuscoli, orientale e occidentale.

[L’anima]
In Zolla l’anima è uno specchio prensile, volto verso la luce del nous, è il cristallo del versetto coranico che si lascia attraversare dallo splendore dell’intelletto divino;
in Hillman l’anima è caduta (non ha subìto o agìto la caduta, è coinvolta in essa), ombra e umidità, initiator initiandus.
Tale opposizione speculare si manifesta nei rispettivi stili di scrittura-pensiero. Stile-retorica di H.: invischia, impania, illumina e fa fermentare come un vino in una botte, è uno stile misterico-iniziatico, drammatico (nel senso di drama, evento, fa accadere gli eventi). Arietino, marziale, dotato in sommo grado di vis polemica, che apre la terra (pseudoetimologia di aprilis, il suo mese natale), la via, e incita al contempo a non conformarsi alle proprie posizioni dialettiche (così anche Nietzsche).
Stile di Zolla: Luna, lucore delicato e distante, dolce e radicale, malinconia misericordiosa, l’epifania di Iside in Apuleio; cristallino e tagliente, a volte morbido, fluido, poco strutturato.

[Archetipi]
Da Platone a Jung e oltre, nell’idea e nel termine di archetipo si congiungono visione e patimento: l’archetipo è l’impronta originale da cui derivano le copie individuali, ma proprio in quanto impronta, typos, è qualcosa che è stato impresso con un colpo (greco typtein, da cui tympanon, tamburo e timpano auricolare, e typas, martello). Capitolo fondamentale di Zolla: “La percezione emotiva degli archetipi”.
In Archetipi equilibrio fra i “due” periodi fondamentali di Zolla: un equilibrio carezzevole come quello di un platonico di Persia, di un miniaturista, prima di volgersi verso il buddhismo tibetano, sciamanico-tantrico.
Zolla “zingaro” (C. Campo): francofortese radicale e libero in Eclissi dell’intellettuale, moralista adamantino e ascetico in Volgarità e dolore, antropologo e psicologo-critico culturale nei Letterati e lo sciamano, guenoniano intelligente e già presago di altri lidi in Che cos’è la tradizione, grande erudito secentesco (ma anche scienziato-poeta goethiano, cultore della Naturphilosophie romantica) nelle Meraviglie della natura. Esodo dall’Europa dei conflitti ideologici verso l’America individualista, folle, già acquariana. Archetipi scritto a 55 anni (1981), età della maturità, di Giove.
Riscopre la metafisica, la philosophia perennis, poi si volge allo sciamanesimo e al buddhismo tantrico, tibetano, al Giappone e alla sua aisthesis, alla Cina taoista.

Hillman scrive Il sogno e il mondo infero a 53 anni, nel ‘79. Nell’80, voce “Psicologia archetipica” dell’Enciclopedia del Novecento Treccani. Per lui, l’esodo è dall’America fondamentalista e sradicata verso l’Europa – un Europa continentale che sogna il Meridione, come nel Secondo Ottocento, e la Grecia, come in tutto l’Ottocento.
Dai mysteria junghiani, per lui una metafisica della psicologia o metapsicologia, emigra verso una psicologia radicale dell’immagine, della manifestazione, della necessità, del tragico, dell’arte, della comunità.

[L’Uno e i Molti, lo Spirito e l’Anima]
Zolla inizia il suo aureo libretto con l’Uno (“L’esperienza metafisica”) e termina con la Visione della Rosa. Amante ermetico, vagabondo di Sofia, insieme bhaktico e vedantico: segue Ramakrsna, il devoto della Devi che, su consiglio di un advaitin, ha tagliato in due con la spada del discernimento l’immagine della dea foggiata nella mente. Sorriso di sfinge, unione di misericordia e libertà metafisica, vuoto (shunyata): l’immagine viene coagulata e dissolta a volontà, con una percezione delicata dell’opportunità, del kairos metafisico (che il credente ingenuo scambia per opportunismo). Zolla senex torna al Daodejjing che lo aveva eletto puer, a sette anni. Il saggio-santo taoista non è tradizionalista, è anarchico, pragmatico, umile idiota di villaggio e incurante sovrano nascosto, senza vincoli di fede.
Storia del fantasticare: libro ascetico, inquisitorio, che corrode con acidi intellettuali sia la fantasticheria che la rêverie (celebrata invece da Bachelard e, più sinuosamente, da Hillman). Anche la psicoanalisi è ridotta, ricondotta all’ascesi patristica (antologia La psicoanalisi del 1960).
H. ha un approccio più affine allo zen, alla vipassana, al distacco partecipe (ironia) dell’artista romantico.

H. invita ad essere artisti della vita, daimonici. Per lui lo spessore storico – opera e setting dell’anima – conta più che per Z. – ma anche H. è ermetico, perché l’artista del soul-making è strabico, duplice, vede in trasparenza, recitando interpreta, riflette.
In H. non c’è un oltre sostanziale che unifichi la poiesis, la cosmogonia, la scena tragicomica di anima (la “base poetica dell’anima” è un terreno vivente, ed è un Un-grund, vedi frammento di Eraclito sull’anima che non ha confini): l’Uno è esperito come ciasc-uno, come epifania-di-sé, non può essere oggetto o contenuto di un’esperienza separata, privilegiata.

Centrale in entrambi il tema del destino: l’astro, astrum in homine, l’imagine del cuor. Zolla, dal punto di vista dello spirito, sottolinea l’ascesi come disciplina negativa, mentre Hillman, dal punto di vista dell’anima, sostiene che la disciplina è già implicita nei pathe, già inerente alle sofferenze di anima.

Ripresa di motivi della critica di Nietzsche. Zolla: potere, truffa del profeta, del sovrano (Blake: I must create a system or be enslaved by another man’s). Hillman: la Grecia psichica, il destino, l’eterno ritorno, il superamento del dualismo verità-apparenza, la giustificazione estetica dell’esistenza.

Cuore pulsante del libro di Zolla: Politica archetipale e Poesia archetipale. Il primo saggio dissolve duemilaseicento anni di storia occidentale, da Romolo e Remo a Yalta, in un bagno mercuriale freddissimo da cui riemergono pochi tarocchi, poche carte da gioco continuamente rimischiate. Gli archetipi che stampano il loro riflesso sul prensile specchio di anima si proiettano poi, di anamorfosi in anamorfosi, sulla scena delirante, più-che-onirica, della Storia, dove diventano cartoni ossessivi, parodie micidiali. Zolla osserva lo spettacolo con divertito sgomento, e ci consegna una sfera di cristallo mite e crudele con cui possiamo disincantarci. In Poesia archetipale mi sembra contenuto, in a nutshell, il lascito metodologico e filosofico quintessenziale del libretto: la poesia, la narrazione sciamanica primordiale, si serve del linguaggio quotidiano, comunicativo, binario, con la stessa spregiudicata misericordia che il tantrika riserva alle immagini: lo svuota dall’interno facendone una cassa armonica per dhvani, per la risonanza, per l’aura della parola, per il suo incanto essenziale e non-binario, non-duale.

[Approccio profetico-metafisico e pagano-politeistico]
Paganesimo: si vive alla luce dei molti dèi, delle intuizioni divine, mentre l’iniziazione (all’Uno) è esoterica, velata. Invece sia le religioni profetiche che la metafisica rendono essoterico l’Uno, con il rischio di letteralizzarlo: ma l’intento è costruire un recinto, un contenitore al libero gioco dell’interpretazione, dell’anima.
H. ermeneuta e fenomenologo appassionato. Z. rimane, di distillazione in distillazione, un metafisico, un sophos.
H. pagano ed ebreo: l’accostamento all’Uno, allo spirito – il mysterion – resta esoterico, velato, eventualmente negato.

Sul piano ermeneutico (psichico), spirito e anima sono due prospettive (immaginabili come parallele, o come i due serpenti che si intrecciano sul caduceo, o come due facce di una sola realtà, o in ordine gerarchico etc.). – L’anima sticks to the images (Lopez-Pedraza): lo spirito emigra dalle immagini e se ne riappropria, è intimo e distante, distaccato, è nunc stans e lampeggiamento discontinuo, sposo-signore dell’anima, creazione e distruzione.

Zolla ha ragione – gli archetipi sono messaggeri dell’Uno, e nella loro unità, nel loro insieme, sono, costituiscono l’Uno manifesto; ma l’approccio ermeneutico (psicologico) di Hillman è più discreto: l’uomo radicalmente caduto non può accostarsi all’Uno se non restando radicalmente, alchemicamente fedele alla sua caduta. Inoltre la molteplicità degli dei – dell’anima – non è riducibile all’Uno: l’Uno irraggiungibile si manifesta come molteplicità, e oltre la manifestazione “non c’è nulla” (prospettivismo, relativismo, catottrica di Corbin, degli iranici etc.).
Lo spirito in H. è l’eros a cui l’anima ritorna attraverso i suoi pathe, in un moto serpentino di caduceo, spiraliforme. Lo spirito non letteralizzato, non isolato e fissato come dogma o testo, sempre di nuovo dissolto nell’umidità mercuriale di anima, è il dinamismo stesso del fare-anima, il suo telos tutto intimo al pathos, al drama, e che pure sempre lo eccede. Psicologia poetica di H. come riflesso speculare o stampo o rovescio notturno dell’esperienza spirituale.

[Dimensione profetica di entrambi]
Sia Z. nel suo orientamento, nel suo finale esodo dall’Occidente, sia H. che, più psicologicamente, esorta a restarvi, com’è pur necessario, vigilando però sulla frontiera tra i mondi, in anima – sono due traghettatori dell’esilio occidentale, dissolvono radici abbarbicate, incancrenite, per additare il luogo in cui la coagulazione – la creazione di un nuovo mondo, che è la nuova creazione del mondo – sia di nuovo possibile.

In Z. non viene mai meno la spinta gnostica a moksha, a soteria, a rompere il tetto della casa o prigione, al chorismos, a uscire dal mondo: è il viandante di C. Flammarion [vedi immagine alla fine]. Esercizi di respirazione embrionale sul letto di morte. (Ritorno al Tao).
Ultima intervista di H.: sembra un adagio mahleriano, una meditazione di Rilke. Il pathos individuale entrato nel mito, nel logos comune di psiche, nella poiesis del mondo, dell’anima mundi, non è “guarito” o “redento”, non c’è un telos esterno – il telos è-e-non-è l’opus stesso, la poiesis, l’ermeneutica dionisiaco-ermetica di anima è infinita come in Heidegger.

[Conclusione]

Nell’incendio di Troia a Enea fuggiasco adparent numina magna deum. L’uomo della pietas, delle radici, destinato a uno sradicamento oltre il quale potrà traghettarle in Esperia (terra del Tramonto, Occidente), deve sperimentare la loro morte nella loro stessa epistrofè, deve acquisire lo sguardo doppio del mite sapiente zolliano e dell’ermetico artista/attore (hypokritès) hillmaniano.

* * *

L’approccio di Zolla alle immagini mi sembra esemplificato a meraviglia dall’aneddoto su Sen no Rikyu, il monaco giapponese che portò a compimento l’introduzione della cerimonia del tè. Un novizio gli recò in dono dei fiori, che fortuitamente finirono decapitati: i petali caddero sul tatami ai piedi del tokonoma, gli steli restarono in mano al monacello mortificato. Allora il maestro lasciò i petali sul tatami e pose gli steli in un vaso nella nicchia del tokonoma. Poi spiegò: “Quando sei entrato, i fiori erano fiori: la forma è forma. Quando i fiori si sono spezzati, non c’erano più: la forma è vuoto. Secondo la mentalità ordinaria, sarebbero potuti restare così: il vuoto è vuoto. Ma ora abbelliscono il tokonoma e la sala: il vuoto è forma”.
Sull’approccio a spirito-e-anima, credo sia esemplare l’opera di un poeta che entrambi amavano, Yeats, Sailing to Byzantium. Questa poesia celebra la fame, il bisogno senex di spirito, di un’uscita dal mondo: ma la preghiera rivolta ai saggi vigili e ritti nel sacro fuoco di Dio, la supplica di essere ammesso all’“artificio dell’eternità” (sia Zolla che Hillman commenterebbero all’infinito la magnifica espressione), è preceduta da un mirabile ritratto del corpo senile ridotto ad una giacca sbrindellata appesa ad un bastone. Come insegna Hillman nell’ultima sublime intervista, coagulazione e dissoluzione nella morte si accompagnano, sono inscindibili: così la prospettiva morbosa, la patologizzazione di anima, e l’eros spirituale che desidera cantare in un’altra aria, sul dorso del cielo.

Nel film di Weick, Zolla dice, da eccelso sincretista, che Ibn Arabi, Pico e Abhinavagupta insegnano la stessa cosa, e sanno che le tradizioni spirituali insegnano la stessa cosa, l’unum necessarium. Dal punto di vista psicologico (di anima, di Hillman), tutti loro stanno dicendo e facendo cose enormemente diverse. Eppure le dicono e le fanno proprio perché hanno acquisito la doppiezza, lo sguardo strabico dell’attore dionisiaco-ermetico, del pellegrino incantato: Ibn Arabi era, in giurisprudenza, un tradizionalista severo, Pico ammirava Savonarola, Abhinavagupta era uno shivaita devoto. Molteplicità e unità scorrono l’una nell’altra, con semplicità di colomba e astuzia di serpente (ovvero: sull’asse centrale del caduceo, sibilando e strisciando come i due serpenti, come la diade).

Qualche riflessione sul mito di Prometheus Pyrphoros





per il Conte Zarganenko

Il titano Prometeo, “saggezza anticipatrice”, colui che ha plasmato gli uomini, è la mente umana, demonica e non divina, volta al futuro e all’esterno, sognatrice della potenza per impotenza. Nel mito greco, come in quello indiano, gli dei hanno un legame di phthonos, un conflitto radicale con gli uomini, che trattano come loro bestie sacrificali o comunque fonti di nutrimento: impastati di argilla terrestre, attendono il fuoco celeste con la passività dei bruti, e uno stupore-timore ancor più essenziale. Prometeo lo ruba per loro: il suo gesto è di philanthropos, eppure danna gli uomini, come quello del serpente nel racconto ebraico della Caduta. Possessore del fuoco, della potenza divina, l’uomo espia per sé e per il cosmo: è il sacerdote, il sacrificatore universale, dà la morte, ma può darla in modo da rigenerare, da preparare la vittima mondana al fulmine che la divora, assume e trasfigura.
Prometeo trasporta il fuoco in un narthex, un fusto cavo di silfio, pianta afroditica e afrodisiaca, medicinale, abortiva: lo agitano le menadi nell’ebbrezza dionisiaca, con una pigna instabilmente confitta sulla cima. In entrambi i casi, abbiamo un chiaro simbolo dell’asse cosmico e del suo corrispettivo nel microcosmo umano, la colonna vertebrale: un’altra sua immagine è quella della canna vuota che si fa flauto, syrinx. Peter Kingsley osserva che Parmenide usa il termine syringmos, sibilo simile a quello di un serpente o di un flauto, per indicare il fischio emesso dalle ruote del carro che lo sta traendo dalle tenebre alla luce della conoscenza: si tratta probabilmente di un termine tecnico per l’avvio dell’esperienza estatica, affine al simbolo indiano del risveglio della kuṇḍalinī, l’energia divina immersa nel sonno dell’oblio e dell’inerzia, avvolta intorno alla base della colonna vertebrale.
Per essere imago Dei, l’uomo sarebbe dovuto uscire dal dilemma: attesa passiva del fuoco divino – furto del fuoco divino; avrebbe dovuto lasciare che fiorisse, sprizzasse in lui come risposta al lampo celeste, nella sua forma sensibile di luce e calore solari e nella sua forma sottile ed esoterica di spiritus mundi, agente della rigenerazione e trasmutazione dell’universo. Il divino seme di luce, secondo la dottrina pitagorico-platonica, invece di circolare liberamente nel cranio umano, manifestazione microcosmica della volta celeste, si è appesantito ed è disceso lungo i centri sottili posti in corrispondenza della spina dorsale, diventando immaginazione animale, sessuata, sul piano invisibile e sperma feccioso sul piano grossolano. La pena che Zeus impone a Prometeo è trasparente: unaquila gli divorerà ogni giorno il fegato, che però ricrescerà di notte. Il fegato è il ricettacolo della fantasia, ed ha un rilievo profetico immenso, come mostra l’aruspicina etrusca: il giorno lo divora – l’uomo, mente titanica, è scisso, il mondo dei sensi, dell’esperienza diurna lo allontana dal mondo dell’immaginazione, mentre la notte ve lo riconduce con il sogno, spezzando però la continuità della veglia.
  L’alchimista sa che la stessa cosa è accaduta agli esseri di tutti i regni della natura – animali, vegetali, minerali. Sa che il fuoco divino, lo spirito divino, è il balsamo solare che va in direzione contraria all’entropia, alla morte, è l’oro elementare sepolto come un seme in ogni cosa. Se l’uomo è in una posizione mediana e mediatrice, sacerdotale, anche attraverso il rito (la teurgia) della generazione, i minerali sono immersi in un oblio mortale, in un tamas profondo, la loro vita si è bloccata, sono simili a escrementi, ad anime contratte nel tempo e nello spazio dannati degli inferi. L’artista ermetico cerca il seme aureo, la fonte d’acqua luminosa e vivificante nascosta all’interno del metallo, così affine all’uomo e alle sue titaniche passioni: come racconta Massimiliano Palombara, l’autore della Porta Magica, nessuno riesce a trovare la grotta da cui nasce la fonte mercuriale perché la sua entrata è ricoperta di canne e di rovi. Anche qui, il fuoco divino è nascosto da e in una canna, immagine della colonna vertebrale, del flauto, del serpente sibilante. Il marchese Palombara ricorda come però, al suo passaggio, gli zeffiretti della primavera agitassero misericordiosamente le canne, consentendogli di intravedere la prodigiosa caverna. Anche qui, un fischio, una vibrazione leggera, udibile in modo sottile, segnala un sottile risveglio: la kuṇḍalinī si svolge e comincia la risalita (platonicamente l’epistrofè, il ritorno); il flauto, sospirando di nostalgia, stabilisce un legame erotico con l’unità divina da cui l’uomo è stato esiliato (nella mistica persiana il flauto, il ney, è l’anima umana che, simile ad una canna strappata dal suo canneto, lamenta l’assenza e, cantandone il lutto, la valica consumandosi) – l’energia serpentina, mercuriale, il seme solare e aureo latente nel metallo si sprigiona, risponde al richiamo d’amore, al magnetismo profondo che compagina l’universo. Come Ercole libera Prometeo dalla sua pena, dal suo samsara purgatoriale-infernale, così l’operatore ermetico, armato dei suoi strumenti e della sua volontà, della sua fede, redime il portatore del fuoco, il frammento di materia spirituale, di terra celeste crocifisso nelle solitudini della caduta.