Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 16 novembre 2013

La diaspora della luce e la discesa del giusto. Sul ciclo Lamed Vav di Francesco Parisi





Il testo che segue è stato pubblicato nel libro: Francesco Parisi, Opere grafiche dalla raccolta del Museo dell’Opera di Guido Calori, 2013.

Or zarua‛ la-saddiq, insegna il Sefer Zohar, il Libro dello Splendore Radiante, tesoro aperto e sigillato della mistica ebraica: “la luce è stata seminata per il giusto”; la luce del Primo Giorno della creazione, inafferrabile ai sensi carnali offuscati, alle menti contratte e immiserite, è stata disseminata, dispersa per il giusto, per lo saddiq, nel mondo futuro, nel tempo dell’attesa e dell’attenzione messianica. In principio è una diaspora (una disseminazione) della Luce: la Genesi è un cammino accidentato per l’esegesi rabbinica, perché le cose prime sono un abbozzo delle cose ultime, realizzate insieme da Dio e dall’uomo, dal cielo e dalla terra, nella quotidiana teurgia dei precetti sacri.
Il giusto, lo saddiq, è infatti il pilastro che regge l’universo, che consente il dialogo tra l’alto e il basso: fra le dieci manifestazioni supreme di Dio, le sefirot, la nona è Yesod, il Fondamento, o Saddiq, il Giusto, il Benefico, il Santo. Così, nel ritmo delle generazioni, la creazione è mantenuta in esistenza da alcuni giusti nascosti, velati dalla loro umiltà, sigillati da un giuramento, da un patto eterno – Trentasei Giusti, secondo il numero simbolico che la tradizione estrae da un versetto di Isaia (1).
Il cabbalista che più amorosamente ha seguito le tracce della luce dispersa, i sentieri della sua diaspora, è stato forse Yishaq Luria. Nei suoi scritti densissimi, così simili a narrazioni gnostiche passate nel vaglio fitto e inesorabile della dialettica ebraica, leggiamo che En Sof, il Senza Limiti, il Divino anteriore a ogni determinazione, si è contratto (simsum), ha aperto nella propria infinità uno spazio vuoto (vuoto di Divino) affinché l’universo potesse esistere, letteralmente potesse aver luogo. Secondo Luria, nel seno dell’En Sof si ‘incidono’ i confini di questo spazio primordiale, il tehiru: come le lettere della Torah sul monte Oreb; come i caratteri dell’alfabeto sacro con cui Dio ha creato le cose. Il primo gesto di differenziazione, di determinazione nel Divino è un’incisione.
Con il tehiru, lo spazio primordiale, caotico, si apre la possibilità di un mondo: con il tehiru si apre la breve serie di incisioni che Francesco Parisi ha dedicato al mistero dei Trentasei Giusti, i Lamed Waw. L’immagine iniziale fa emergere con intensa sobrietà lo sfondo archetipico immutabile della turbolenta narrazione lurianica: il tehiru è circolare, caotico, femminile; è l’enigmatico tohu della Genesi, il senza-forma che lascia intravedere, in controluce, il profilo della serpentessa babilonese, Tiamat, il drago originario da cui Marduk ha tratto i cieli e la terra. La femminilità genesiaca è una diade di corpi femminili nudi, che si toccano sprofondati nel sonno indifferenziato anteriore alla parola discriminatrice e ordinatrice di Dio, al fiat da cui sprizza la luce. Ai suoi piedi, nella parte inferiore dell’abisso, striscia il drago, il serpente, freddo e umido all’apparenza, carico di potenza distruttrice – e, come Tiamat, fonte sigillata della materia che Dio e il Giusto utilizzeranno nella loro comune opera di trasmutazione e rigenerazione, l’opera che finalmente farà del mondo un cosmo, e che Luria chiama tiqqun.
Nelle tre incisioni successive, che costituiscono la serie vera e propria, il tempo dell’attesa si dispiega nei suoi momenti essenziali, mischiando e permutando un minuscolo mazzo di arcani, con una discrezione nella manipolazione degli strumenti simbolici che ne esalta l’essenziale ricchezza. Anzitutto, lo shofar, il corno d’ariete, che la tradizione ebraica fa risalire al montone rimasto impigliato fra gli arbusti del monte Moria, sostituto di Isacco sull’altare. Il corno ritorto, simile al vortice della creazione, alla spirale del tempo, apre l’anno liturgico, il rinnovamento periodico del Giubileo e quello definitivo della redenzione messianica: viene suonato per risvegliare i dormienti, i morti, ovvero le scintille della Presenza divina, la Shekhinah, sommerse nel lungo sonno della galut, l’esilio o diaspora dell’universo. L’insistenza sullo shofar ricorda l’immagine sul frontespizio di uno dei capolavori dell’ermetismo occidentale, il Mutus Liber, dove un angelo soffia in una tuba per destare Giacobbe addormentato sulla pietra – per destare le pietre della terra e trasformarle in sostanza celeste. Le incisioni di Parisi sono un Mutus Liber ridotto all’osso, una pietra graffiata nel deserto del tempo, un fossile, una scheggia della pre-eternità scagliata sull’abisso che separa e congiunge la Genesi e la Resurrezione.
I Giusti di Parisi sono anime e corpi nudi. La nudità è un segno ambiguo nella Torah: indica la privazione di gloria, la distruzione, l’umiliazione. Il verbo ‛arah, denudare, spogliare, significa anche effondere, svuotare, esporre al pericolo. Isaia dice, del Servo di Adonai, del redentore silenzioso e disprezzato, Giusto nascosto: “Poiché ha esposto nuda (he‛erah) l’anima sua alla morte” (53, 12). Secondo alcuni esegeti, è da qui che prenderebbe le mosse il paolino ekenosen, l’idea dello svuotamento, dell’annientamento volontario di Cristo. Il giusto si espone all’abisso, si denuda, è un geroglifico di carne che oscilla fra cielo e terra in una crocifissione tutta segreta, in un fluttuare di feto nel grembo del tehiru.
Lo spazio dell’attesa, tra Alfa e Omega, è un deserto: deserto come luogo della nudità e della devastazione in cui però è dato udire la Parola (midbar, “deserto”, è legato a davar, “Parola”), l’appello dello shofar. Lo shofar dei Giusti di Parisi sembra silente come il deserto, o forse risponde con un soffio rauco di anima apparentemente sconfitta al sibilo del canide immondo, la iena che irride la santità come i lesim della Bibbia, che spia gli orizzonti in cerca di cadaveri da divorare. La iena è la qelippah di Luria, il “guscio” della materia caduta dalle altezze divine: il suo corpo è ombroso, un intrico di latebre vergognose, è avvolto su stesso in una rabbia intimamente impotente. I corpi degli saddiqim sono semplici, fragili, mitemente ricettivi alla luce.
Il paesaggio del caos ha una sua eloquenza, concentrata, screpolata e indifesa come la materia di questa creazione in fieri, della creazione che è tutt’uno con la redenzione. Nelle sue piante spinose resta impigliato il seme della Luce genesiaca, come l’ariete di Abramo. Le sue pietre sono lacrime celesti coagulate, condensazione di dolore umano-divino in cui si incide un messaggio segreto e feriale insieme: una Torah di intecessioni, una sismografia di passioni e compassioni che nella loro sperdutezza vincono silenziosamente la gravità della perdizione, la meccanica della caduta.
Le tre immagini di Parisi, si diceva, compongono una triade gnostico-ermetica discreta, la cui nudità – nudità dei corpi, nudità del deserto – è velo di pudore e riserbo. Il primo momento del tiqqun, della riparazione-redenzione, è femminile: la donna sospesa fra cielo e terra è la Shekhinah, la Presenza di Dio, perché il risveglio deve partire dal basso, dalle acque inferiori della materia immersa nel suo sonno e nel suo sogno. Così nell’opera alchemica tutto parte dalla Donna, dal Mercurio. La figura femminile dell’incisione di Parisi sembra guardare la iena negli occhi: sembra voler estrarre la scintilla divina dal guscio, dalla qelippah, direttamente attraverso lo sguardo della belva, che è furente e ipnotizzata insieme.
Nel secondo momento è l’uomo – lo saddiq che è riflesso di Yesod, il Fallo divino, il Fondamento dell’universo – a richiamare l’anima, rispondendo con le volute arietine dello shofar alla curva del corpo femminile, guizzante come una lettera sacra, trasognata e veggente, in un’aria piuttosto amniotica e lunare che solare e sabbiosa. L’uomo risveglia la donna, la Shekhinah – l’Androgino comincia a ricostituirsi: l’arco che li congiunge non è il qeshet, l’arcobaleno che benedice l’alleanza divina con Noè, ma un secco arbusto piegato come il dorso di uno schiavo, e che sembra tuttavia aver conservato la flessibilità, il ricordo e la traccia dell’umidità celeste. Così, nell’alchimia, nasce il Rebis, l’Uomo-Donna, la Coppia filosofica. Qui la iena grida ancora contro la donna: come nella maledizione genesiaca, tra la Donna e il Maligno viene posto un legame perpetuo, perché la salvezza nasce dal desiderio delle acque femminili, dal ridestarsi dell’anima intorpidita, folgorata, avviluppata nel proprio oblio (2).
Il terzo momento è il più sperduto, ambiguo e decisivo. Il Giusto, nella sua androginia riconquistata, sembra precipitare sulla sabbia del deserto, dove lo attenderebbero le fauci della iena; un’ala angelica pende dal firmamento, sontuosa e pesante, ma non sembra essersi staccata dalle spalle dell’uomo cadente. Che non è dunque Lucifero, e nemmeno Icaro: ma è carico, nella sua leggerezza, del peso di maledizione proprio di ogni intercessione, di ogni espiazione vicaria (maledire, qalal, vuol dire anche ‘rendere leggero’, in ebraico). Difficile distinguere, in questo corpo che la gravità ha quasi sopraffatto, il vivo dal morto, lo saddiq della tradizione dal messia nichilista di Shabbatai Sevi, che deve e vuole confondersi con il peccato, sposare l’abisso, compiere l’inaudito. Tuttavia il Giusto non ha ali perché i giusti sono superiori agli angeli, così insegna il Talmud e ripetono tutte le religioni abramiche: gli angeli non possono discendere nella materia, non possono salvare perché non devono salvarsi. La catabasi dell’uomo è la discesa stessa della Misericordia divina, che si è contratta per creare il mondo: un abbassamento che trasfigura, una caduta che tinge di sangue le pietre, che le trasmuta. Così, nell’opus ermetico, l’ultima fase è quella del Sacrificio, della Rubedo che compie ogni fatica.
Mostrandoci la schiena, in arabo zahr, l’uomo, l’androgino, è totalmente consegnato all’apparenza, zāhir, che viene dalla stessa radice verbale: ma proprio per questo forse è attivo come mai, come il seme quando appare morto, disfatto, putrefatto, come la luce sulla soglia del Solstizio d’Inverno. Ce lo suggerisce, con una sorta di brusca e rugosa delicatezza e trafitta reticenza, il tratto di Parisi: la levità di questa caduta non è maledizione, il suo ‘quasi’ (quasi sconfitto, quasi schiantato a terra) e il suo ‘forse’ (forse redenzione, forse dannazione) sono carezza messianica, silenzio imbevuto di una vocalità segreta, come una quintessenza del grido, ancora più forte e fecondante del suono dello shofar, dell’annuncio del Grande Giubileo. Di fronte a questa caduta di misericordia la iena sembra ripiegarsi su stessa, ritornare al suo stato potenziale, annullarsi.
Il Giusto, nel suo fluttuare, nel suo precipitare, è simile ad una lettera della Scrittura Sacra, incisa sulla pietra dell’Oreb, bocca che apre la pietra graffiandola, incidendola, interrogandola: l’uomo, facendosi mediatore nell’umiliazione e nella gloria, ha voluto, una volta per sempre, essere questo segno muto, nascosto, che solo gli altri, assenti sulla scena simbolica, potranno captare, raccogliere dalle spine degli arbusti, distillare, mangiare e bere come manna. “Se volete interrogare, interrogate: ritornate, venite”, invita la sentinella di Isaia, nell’Oracolo del Silenzio (21, 11-12). A tali meditazioni ci invita, sulla soglia visionaria tra il sonno e la veglia, l’opera di Parisi, incidendo, nell’utero caotico del tehiru, l’alfabeto sacro della compassione redentrice, della giustizia occulta, leggendo nelle lettere della Rivelazione la conversione della pietra che si riga, si fende e lascia affiorare la Parola (3).

Note:
(1) “Abaye ha detto: ‘Ci sono nel mondo non meno di trentasei giusti (saddiqim) in ogni generazione su cui poggia la Shekhinah; poiché sta scritto: Beati tutti coloro che sperano in Lui (lo), Isaia 30,18. L’ultima parola ha il valore numerico di trentasei (lo=lamed waw)’” (Sanhedrin 97b). Sperare in Lui, attendere Lui, è attendere i Trentasei che lo aiutano a ricongiungersi alla Sua Sposa, la Shekhinah esule nel mondo insieme al popolo di Israele.
(2) La tradizione ebraica collega la iena all’androginia: il maschio della iena, zabua‛, una volta ogni sette anni diventa femmina. Ma si tratta piuttosto dell’ermafroditismo dell’indifferenziato, del caos, mentre l’androginia umana è realizzata proprio attraverso la differenza sessuale della coppia, attraverso la mistica dell’amplesso nuziale.
(3) “La scrittura di Elohim fu incisa sulle tavole (Es 32, 16). Rabbi Yehoshu‛a ben Lewi ha detto: ‘Non leggere incisa [harut], ma libertà [herut]’” (Pirqe Avot 6, 2).

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