Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 5 novembre 2013

Le donne e la gloria





 

Stupendo passo del Talmud (dal trattato Tamid) commentato da Lévinas: Alessandro Magno arriva in Africa, oltre “le montagne delle tenebre”, e trova una città di sole donne, probabilmente un popolo dove ancora vige un regime matriarcale. Chiede una pagnotta, gli portano un pane d’oro su una mensa d’oro. Sbalordito, il più inquieto dei conquistatori le interroga: “Gli esseri umani mangiano forse pane d’oro?”. Gli rispondono: “Se è del pane comune che vuoi, non ne esiste forse nel tuo paese, dal momento che sei venuto sin qui a cercarne?”. Alessandro, prima di partire, scrive sulla porta della città: “Io, Alessandro di Macedonia, ero uno stolto prima di venire in Africa in questo paese abitato da donne e aver ricevuto i loro consigli”. Giustamente il filosofo lituano vede stigmatizzate in queste righe tutte le guerre coloniali, prive di gloria, mosse dall’esecrabile fame dell’oro. Tuttavia credo sia opportuno estendere il derash: prima di diventare simbolo e poi segno del desiderio illimitato, idolo ammaliatore e antropofago, l’oro è desiderabile per se stesso, per il suo bagliore solare, per la sua potenza di simbolo sacro – e proprio per questo è stato scelto per ricevere l’impronta del prestigio regale, restituendola moltiplicata. Qui, in questa piccola leggenda, è colto il passaggio dal diritto materno al diritto paterno, fondato sulla guerra e la conquista: Alessandro, come Mosè, ha corna arietine, domina – con il suo Streben di maschio inappagabile, maledetto – la ferrea Era astrologica dell’Ariete. Crede di chiedere alla comunità sacerdotale delle donne un pane demetrico – la propagazione della vita dalla terra del grembo, il suo mantenimento con la custodia del fuoco domestico, della pasta da lasciar lievitare nella penombra dell’attesa. Ma le donne sanno che il maschio chiede loro un pane d’oro, un ricordo della gloria dell’Età dell’Oro, in cui tutto era sacro: le sagge matriarche hanno compreso che quel pane duro e splendido è il loro stesso corpo, è la presenza, la Shekhinah femminile stessa che il patriarcato santifica e mette sotto chiave, come un oggetto liturgico, separato dalla mischia sanguinosa del quotidiano.

In una delle più antiche e diffuse storie del mondo, un poveruomo (nella versione araba, un cairota) sogna che la sua fortuna è in una terra lontana (ad Isfahan), e si mette in viaggio per cercarla. Giunto nel luogo indicato dalla visione, per caso viene sospettato di un furto e i randelli dei gendarmi lo riducono in fin di vita. Quando si risveglia tra i ceppi ed è costretto a raccontare, con un amaro sorriso che vince il riserbo, il suo viaggio di piuma sballottata dal soffio di un’immagine notturna, il capo della polizia scoppia in una greve risata e gli confida che anche lui ha sognato un tesoro, ma nella città del Cairo, e gli descrive il giardino, l’albero, il luogo esatto in cui scavare. Così il sognatore, che ha riconosciuto nella descrizione del capitano la propria stamberga, torna al punto di partenza e diventa ricchissimo. Tale è ogni ricerca: il bisbiglio di un sogno, di una visione personale, ci getta nel mondo, nella distanza, nella separazione; finché il randello della necessità, di Ananke, colpendoci per puro caso, ci fa sbattere contro la dura superficie dello specchio, e con linguaggio chiarissimo ed enigmatico ci confida: “Tu sei partito dal tuo sogno, e anche questo è un sogno – un sogno sognato da migliaia di esseri, da un unico essere pieno di saggio e infantile stupore. Il cerchio dell’immagine sognata si chiude a casa tua, nella tua baracca alla periferia del Cairo”.

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