Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 17 novembre 2013

Qualche riflessione sul mito di Prometheus Pyrphoros





per il Conte Zarganenko

Il titano Prometeo, “saggezza anticipatrice”, colui che ha plasmato gli uomini, è la mente umana, demonica e non divina, volta al futuro e all’esterno, sognatrice della potenza per impotenza. Nel mito greco, come in quello indiano, gli dei hanno un legame di phthonos, un conflitto radicale con gli uomini, che trattano come loro bestie sacrificali o comunque fonti di nutrimento: impastati di argilla terrestre, attendono il fuoco celeste con la passività dei bruti, e uno stupore-timore ancor più essenziale. Prometeo lo ruba per loro: il suo gesto è di philanthropos, eppure danna gli uomini, come quello del serpente nel racconto ebraico della Caduta. Possessore del fuoco, della potenza divina, l’uomo espia per sé e per il cosmo: è il sacerdote, il sacrificatore universale, dà la morte, ma può darla in modo da rigenerare, da preparare la vittima mondana al fulmine che la divora, assume e trasfigura.
Prometeo trasporta il fuoco in un narthex, un fusto cavo di silfio, pianta afroditica e afrodisiaca, medicinale, abortiva: lo agitano le menadi nell’ebbrezza dionisiaca, con una pigna instabilmente confitta sulla cima. In entrambi i casi, abbiamo un chiaro simbolo dell’asse cosmico e del suo corrispettivo nel microcosmo umano, la colonna vertebrale: un’altra sua immagine è quella della canna vuota che si fa flauto, syrinx. Peter Kingsley osserva che Parmenide usa il termine syringmos, sibilo simile a quello di un serpente o di un flauto, per indicare il fischio emesso dalle ruote del carro che lo sta traendo dalle tenebre alla luce della conoscenza: si tratta probabilmente di un termine tecnico per l’avvio dell’esperienza estatica, affine al simbolo indiano del risveglio della kuṇḍalinī, l’energia divina immersa nel sonno dell’oblio e dell’inerzia, avvolta intorno alla base della colonna vertebrale.
Per essere imago Dei, l’uomo sarebbe dovuto uscire dal dilemma: attesa passiva del fuoco divino – furto del fuoco divino; avrebbe dovuto lasciare che fiorisse, sprizzasse in lui come risposta al lampo celeste, nella sua forma sensibile di luce e calore solari e nella sua forma sottile ed esoterica di spiritus mundi, agente della rigenerazione e trasmutazione dell’universo. Il divino seme di luce, secondo la dottrina pitagorico-platonica, invece di circolare liberamente nel cranio umano, manifestazione microcosmica della volta celeste, si è appesantito ed è disceso lungo i centri sottili posti in corrispondenza della spina dorsale, diventando immaginazione animale, sessuata, sul piano invisibile e sperma feccioso sul piano grossolano. La pena che Zeus impone a Prometeo è trasparente: unaquila gli divorerà ogni giorno il fegato, che però ricrescerà di notte. Il fegato è il ricettacolo della fantasia, ed ha un rilievo profetico immenso, come mostra l’aruspicina etrusca: il giorno lo divora – l’uomo, mente titanica, è scisso, il mondo dei sensi, dell’esperienza diurna lo allontana dal mondo dell’immaginazione, mentre la notte ve lo riconduce con il sogno, spezzando però la continuità della veglia.
  L’alchimista sa che la stessa cosa è accaduta agli esseri di tutti i regni della natura – animali, vegetali, minerali. Sa che il fuoco divino, lo spirito divino, è il balsamo solare che va in direzione contraria all’entropia, alla morte, è l’oro elementare sepolto come un seme in ogni cosa. Se l’uomo è in una posizione mediana e mediatrice, sacerdotale, anche attraverso il rito (la teurgia) della generazione, i minerali sono immersi in un oblio mortale, in un tamas profondo, la loro vita si è bloccata, sono simili a escrementi, ad anime contratte nel tempo e nello spazio dannati degli inferi. L’artista ermetico cerca il seme aureo, la fonte d’acqua luminosa e vivificante nascosta all’interno del metallo, così affine all’uomo e alle sue titaniche passioni: come racconta Massimiliano Palombara, l’autore della Porta Magica, nessuno riesce a trovare la grotta da cui nasce la fonte mercuriale perché la sua entrata è ricoperta di canne e di rovi. Anche qui, il fuoco divino è nascosto da e in una canna, immagine della colonna vertebrale, del flauto, del serpente sibilante. Il marchese Palombara ricorda come però, al suo passaggio, gli zeffiretti della primavera agitassero misericordiosamente le canne, consentendogli di intravedere la prodigiosa caverna. Anche qui, un fischio, una vibrazione leggera, udibile in modo sottile, segnala un sottile risveglio: la kuṇḍalinī si svolge e comincia la risalita (platonicamente l’epistrofè, il ritorno); il flauto, sospirando di nostalgia, stabilisce un legame erotico con l’unità divina da cui l’uomo è stato esiliato (nella mistica persiana il flauto, il ney, è l’anima umana che, simile ad una canna strappata dal suo canneto, lamenta l’assenza e, cantandone il lutto, la valica consumandosi) – l’energia serpentina, mercuriale, il seme solare e aureo latente nel metallo si sprigiona, risponde al richiamo d’amore, al magnetismo profondo che compagina l’universo. Come Ercole libera Prometeo dalla sua pena, dal suo samsara purgatoriale-infernale, così l’operatore ermetico, armato dei suoi strumenti e della sua volontà, della sua fede, redime il portatore del fuoco, il frammento di materia spirituale, di terra celeste crocifisso nelle solitudini della caduta.

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