Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 11 febbraio 2014

Sull’avere – ed essere – un’anima



Caro * * *,

mi chiedi qualche riga sull’immortalità dell’anima. Cerchiamo anzitutto, per quanto possibile, di capirci. Se per “anima” si intende il principio divino, niente che esista può esserne privo, perché essere vuol dire essere dal divino e nel divino: e dunque, da questo punto di vista, tutto è animato, tutto è in tutto, e il più fulgido dei sapienti non lo è più del ciottolo sulla strada. Se invece si intende la consapevolezza di essere in quel principio, la coscienza della destinazione spirituale del cosmo, il possesso di ciò che in tutti gli esseri e in ciascuno è potenziale, virtuale, un seme, un germe – se chiamiamo “anima” questa presenza a ciò che è, questa realizzazione o attualizzazione di ciò che è latente, sepolto, questa resurrezione di ciò che è morto o risveglio di ciò che dorme, con la conseguente “costruzione” di un corpo luminoso in grado di superare intatto e trasfigurato la cosiddetta “seconda morte” – allora sì, solo in pochi “hanno” un’anima.
Ed è vero che “qualcosa è andato storto” en archê: ma è stato – ed è anche adesso – un dramma intradivino, qualcosa di interno ed esterno al divino insieme; i sapienti antichi lo paragonano ad un essere perfetto che si guarda allo specchio, si smarrisce per un attimo nello stupore e in quell’attimo sorge il mondo come coscienza alienata del divino stesso, caduta del divino nelle acque del tempo e dello spazio, smembramento-disattenzione, morte-oblio. Tutto è perduto, eppure tutto è (ritorna) come sempre, perché noi siamo una brutta giornata di Dio, diceva Kafka (noi in quanto noi, in quanto io separato da Dio, noi se e quando pensiamo “io-sono-nel-mondo” e non “il-mondo-è-in-me”). La caduta però è stata anche un tuffo – qualcosa di simile a una sbronza, a un innamoramento, a un gioco d’ombre sul muro: diventandone consapevole, il divino diventa se stesso, trascende se stesso, si individua come un uomo – perché è l’Uomo Originario, la Persona suprema, Puruṣa.
In Paolo, come in tutta la tradizione ebraica, l’idea greca dell’immortalità dell’anima non è di casa. L’ebraismo è profetico e teurgico: predica la resurrezione dei corpi, la glorificazione. Per questo si parla tanto di vesti nuziali, di tende, di città celesti-terrestri, e la nudità è immagine di impurità e dannazione. Da questo punto di vista, sono d’accordo con te: a Paolo interessa il corpo glorioso, l’anima stessa è una regione mediana, un tramite, uno strumento. Ma non c’è bisogno di esaminare gli ardenti e difficili passi paolini: basta meditare le parabole evangeliche. Quella dei talenti, ad esempio – terribile ed enigmatica.
Un maestro che ho conosciuto mi ha detto, e non l’ho mai dimenticato: stiamo molto peggio e molto meglio di quanto crediamo. Questa breve narrazione lo illustra in modo esemplare. Il talanton è una moneta antica: molto grossa, visto che il suo nome indica il peso che un uomo può arrivare a trasportare con le sue forze. Si tratta del destino spirituale dell’uomo, dell’immagine divina in lui: come la moneta reca impressa l’effigie di chi l’ha coniata, così l’uomo reca impressa l’immagine di chi l’ha creato. In questo senso, tutti abbiamo un’anima, l’immagine di Dio in noi. Eppure non tutti arriviamo a possederla: chi ha ricevuto un solo talento va a seppellirlo in attesa che il signore ritorni – si lascia vivere, dà per scontato che avere equivalga a possedere. Ma non è così: il signore lo punisce, lo caccia fuori dal palazzo, nelle tenebre, fa disseppellire il talento e lo affida a chi ne ha (possiede) già dieci.
Tutti, tutte le cose hanno un’anima, virtualmente: poche persone, pochi esseri arrivano ad esserne consapevoli, a farla loro (“l’anima/ che combatte per farsi anima tua”, dice il poeta greco Ghiorgos Seferis), in questa vita. Non lo dico come se disponessimo di molteplici vite, o come se esistesse una separazione tra questa vita e un’altra. La vita ha molti strati, molte facce, perché tutti siamo uno, nel divino. Il servo che ha sepolto il talento viene espulso nelle tenebre, ma il talento viene salvato e arricchisce un altro servo. Se il talento è l’immagine di Dio, l’anima in potenza, il seme dell’anima, possiamo interpretare così: niente va perduto, ma l’io del servo, che non esiste senza il talento, diventa ciò che è, nulla (=le tenebre) – mentre il suo intimo, vero sé, la sua scintilla divina, rimasta sepolta, dormiente, morta in questa vita, ritorna comunque nel divino, ma al di là della coscienza di questa vita, assunta da un altro destino spirituale. Quel destino terrestre ha fallito, ma la sua essenza, il suo senso, il suo volto profondo, è salvo – anche se viene salvato in un altro destino. Il mondo è una sorta di laboratorio alchemico, le individualità sono punti di vista, prospettive di un unico essere, l’Adam Qadmon della qabbalah, l’Uomo. L’Uomo non può che salvarsi tutto insieme o perdersi tutto insieme. L’essere torna all’essere, il non essere “torna” al non essere: è l’esito della rivelazione manichea.
Qualcosa è andato storto, en archê: eppure, proprio per questo, l’essere più ilico, più smarrito nelle passioni, nelle tenebre della Materia, è un’eco dello stupore primigenio di Sofia, che è uno dei volti del Pleroma. Così, io credo, quell’essere, anche se non prenderà mai consapevolezza del divino e di sé, anche se non “possiederà” mai un’anima, sarà parte del Pleroma in quanto già lo è stato e quindi, essendo il Pleroma l’eterno presente, già lo è. Ciò non nega la libertà, le dà uno sfondo: tutto è collegato a tutto, tutto è in tutto, come dicevo. L’espressione più perfetta e misteriosa di questo legame reciproco mi sembra essere il tempio, in cui ogni essere ha il suo posto, dal tenero viticchio che si avvolge intorno al pilastro, al mostruoso e tormentato demone che lo sorregge. È vero che, da un certo punto di vista, il demone non è nel tempio, perché non ne è consapevole o perché non lo accetta: ma la sua volontà corrotta, la sua conoscenza offuscata è qualcosa di limitato, di frammentario appunto, qualcosa che ha a che fare con la famosa brutta giornata di Dio, mentre il suo essere, il suo “corpo”, il suo talento, è eterno come il sole dietro alle nubi, come il sorriso del teschio dietro alle mille smorfie della faccia di carne.
Forse non sono riuscito a spiegare bene i miei sentimenti confusi: di questo si tratta, perché la verità non si spiega, non è la risposta a un enigma. Io credo che entrambe le posizioni di partenza abbiano una loro legittimità, se bene intese: ognuno è nell’anima, ma non tutti hanno quell’anima, non tutti la conquistano. Niente va perduto, di ciò che esiste: la sensazione più umbratile e pigra che mi ha sfiorato ieri, il pensiero sciocco e passionale che ora attraversa (forse) il mio vicino di autobus, l’ultimo palpito della mosca schiantata contro il vetro, la vita dispersa e disseminata nel vetro stesso, mondi dentro ai mondi. Tutto è un unico essere, per questo ha senso lottare per la luce e con la luce, riconoscersi figli della luce e non schiavi della tenebra. Da quello che leggo degli gnostici, anche loro pensavano – e vivevano – qualcosa di simile.

Addito salis grano


Importanza dell'allenamento della fantasia veicolato dal linguaggio. La parola stress indicava il logorio dei metalli durante la lavorazione industriale: si parlava anche di "logorio di nervi", "esaurimento nervoso", espressioni emerse dal tohu wa-vohu del tardo Ottocento, positivistico e occultistico in uno; e la suggestione fantastica che le ha generate sopravvive nella maggior parte di noi. Ma se io dicessi: "stamattina sono andato a lavorare in automobile e la mia immaginazione si è riempita di detriti e cartacce", la prospettiva muterebbe in modo radicale. Anch'io sono in grado di ripulire decentemente la stanza, il palazzo o il campo dell'immaginazione: ma per rafforzare, rammendare o riforgiare un filo metallico o un nervo logorato ho bisogno di chiamare un esperto.

Se ritualizzassimo le azioni quotidiane, l'oscurità della nevrosi, ingannata, diventerebbe l'oscurità del rito, che è feconda e germinale come quella terrestre. Ovviamente il rito dovrebbe custodire una scintilla di consapevolezza dell'atto nella sua specificità: sedersi al computer, collegarsi alla Rete mondiale non è come sedersi alla macchina per scrivere o scegliere un libro sugli scaffali di una biblioteca. Piuttosto, è qualcosa come porsi di fronte ad uno specchio magico: e nessun operatore ermetico, stregone di villaggio o regina malvagia resterebbe dodici ore con gli occhi piantati nello spazio sospeso ed enigmatico cui si accede lasciando che la superficie riflettente si animi. Il rito ci offrirebbe così, com'è suo perpetuo ufficio, equilibrio e finezza, senso e intuizione delle proporzioni, fluidità e potenza.

Dovrebbe essere semplice fare di un sodalizio umano, di una lega ideale, che mette in comune intenzioni, pensieri, sentimenti – qualcosa di affine a un ordine cavalleresco o religioso: basterebbe prendere sul serio tutto ciò che l'associazione implica, in linea di principio e nei particolari quotidiani, imprevedibili, fluttuanti, e non nel senso della gravità orgogliosa, saturnina, raggelante, ma del serie ludere antico. Le regole di un gioco sono talmente trasparenti e densamente simboliche al contempo che quasi non si può non tendere più o meno lucidamente alla cavalleria, alla confraternita: le volontà confluiscono nell'unità impersonale eppure riescono esaltate nella loro individualità; le immagini iniziano a circolare, diventano efficaci, i segni fioriscono come in una primavera di incontri amorosi tra il destino e l'azzardo, i pensieri sorgono spontaneamente corposi e infuocati, un eros inatteso dai singoli spunta al centro del circolo come l'albero della conoscenza del bene e del male, offre droghe e nutrimento e solo l'attenzione costante al rito, al setting, al corpo delle relazioni riconduce ogni volta le passioni alla loro matrice immacolata – anche se non è sempre certo che sia davvero propizio per il più alto fine dell'ordine.

domenica 9 febbraio 2014

Candelora e C.



Giorni fa chiacchieravo con uno scrittore, di buon talento e di intelligenza non banale, che nel mezzo di una conversazione interessante ha gettato, come un pugno di polvere e sporcizia sulla tovaglia invitante di un picnic, la solita barzelletta di Aristotele che considerava gli schiavi tali per natura. Gli ho risposto che non era vero: come osserva Cornelius Castoriadis, ogni greco aveva imparato l'Iliade a memoria e non poteva dimenticare che Andromaca, la donna più luminosa del poema, non era schiava per natura o nascita che dir si voglia, ma perché gli Achei avevano vinto una guerra maledetta con l'inganno e la brutalità; solo un pazzo o un magnetizzatore di folle (quali sono gli odierni sacerdoti del marketing, della propaganda e dell'informazione) avrebbe potuto cercare di persuaderli del contrario. Lo Stagirita annota, con il suo solito asistematico buon senso, che alcuni uomini nascono schiavi, ovvero incapaci di governarsi, e dunque bisognosi di tutela per tutta la vita. L'essenza della schiavitù non è essere seviziati da una matrona libidinosa e turpe e crocifissi per aver offeso un padrone dispotico, ma lavorare esclusivamente per un altro, che in cambio deve garantire mantenimento – victus et amictus – protezione e una certa condiscendenza, quale sempre si riserva a fanciulli e minorati giuridici (il romano chiamava puer lo schiavo anche quando era uomo fatto). Ciascuno guardi dentro di sé, e si chieda con onestà spietata se non senta, sotto gli strati di una retorica rivoluzionaria ormai estenuata e logora, di essere uno shudra, nel senso vedico originario, uno che deve dipendere da un proprietario, un lavoratore dipendente e garantito. Ho l'impressione che molti di coloro che oggi fanno fuoco e fiamme in piazza (nella piazza di pietra o cemento e nell'agorà impalpabile del Web) sarebbero a dir poco soddisfatti di una soluzione così drastica e colladauta alle angosciose oscillazioni di un piratesco 'mercato del lavoro': anche quando magari innalzano i vessilli della libertà, che non è una condizione meramente negativa, ma una energheia, qualcosa di attivo e positivo, roba da adulti.

Dialogo con un testimone di Geova al capolinea del 105, Grotte Celoni, periferia orientale di Roma.
Sorriso commerciale, lievemente contratto dalla diffidenza per la mia fisionomia e il mio abbigliamento, alquanto diversi dai suoi (è un missionario all'americana comm'il faut, abbronzatura moderata, occhiali quasi alla moda, giacca lucida, valigetta nera).
"Lei fuma la pipa, signore! Sa cosa dice la Bibbia in proposito?"
"Nulla, temo: ai tempi dei Patriarchi quell'amabile filibustiere di sir Walter Raleigh ancora non era andato a rubare il tabacco agli aborigeni. A meno che non abbiano ragione alcuni studiosi, e le navi del re Salomone non siano arrivate davvero fino al delta del Rio de la Plata..."
"Ma anche lei studia i testi sacri! Bene!"
"Qualche volta. E quando vi si parla di fumo, in genere è per via dei sacrifici".
"Conosce quel versetto del salmo 119? Fa' passare i miei occhi dal vedere cose senza valore..."
"Vanità, cose vane, dice re David, mi pare. Ma voglio citarle altre parole dello stesso salmo: Sono divenuto come un otre affumicato, non ho dimenticato i tuoi precetti. Come l'otre si impregna di fumo per diventare più resistente, così l'uomo si impregna del fumo dei precetti divini per diventare saldo e fedele. Vede? Possiamo far dire alla Bibbia ciò che vogliamo. E la mia pipa continua ad esalare il suo fiato, che a differenza del nostro è del tutto innocente".

La legge di Murphy (nome opportunamente beckettiano) è la percezione della continua antipatia fra il carattere diurno, acquisito, cosciente, e il daimon, spessore di storia sepolta, genio astrale e astrologico, ade e cielo dalla nostra angusta prospettiva terrestre. Così forse Murphy è un Hermes embrionale, ancora impegnato in un umorismo da forca sapienziale e ammiccante, ma che, una volta divenuto genuinamente e intensamente pessimista, potrà forse passare dagli scherzi nel cortile del Tempio alle sacre buffonate sulla soglia del Naos.

I punti di una religione o di una teologia che più rumorosamente ci fanno ridere o più acidulamente sghignazzare, sono le croci che segnalano la presenza del tesoro sepolto, ampolline deformi e bizzarre in cui è custodito lo spirito, l’esoterico del Grande Carnevale. Questo il senso del Credo quia ineptum di Tertulliano – effato, non dimentichiamolo, di un avvocato romano, ovvero di un essere a metà fra un glossatore kafkiano e uno stregone conquistatore di anime. Le banconote della fede vengono garantite dai dobloni del re: chi voglia investigare, scoprirà che il re non ha nulla, solo debiti – ma nei sotterranei vuoti del palazzo, invece dell’oro rilucente, si può trovare, ormai disperati, oltre l’ultima svolta tenebrosa, la bottega del burattinaio, dell’omino grigio e ridente che regge i fili anche alla marionetta del sovrano.

"Zio" deriva quasi certamente da theios, "divino", perché nel sistema simbolico antico il fratello della madre iniziava il bambino ai misteri religiosi specifici della famiglia. Quindi bestemmiare lo zio non è affatto un'attenuazione, uno spostamento, un eufemismo.

La triplice domanda di Rabbi Hillel, celeberrimo tonico spirituale, osservata in controluce fa emergere l'ombra della dottrina esoterica universale: se non si traffica con il talento, se lo si deposita nell'occulto, la moneta, l'immagine umano-divina, non va comunque perduta – ritorna al Signore, al padrone, ma priva di individuazione, e viene assegnata all'abile accumulatore di un capitale già consistente, che per così dire la redime a sua insaputa e suo malgrado.
Se io non sono per me, chi è per me? Im en ani li, mi li?
Im – "se", può essere letto anche em, "madre", la sefirah della teshuvah, del ritorno a Dio: l'anello della misericordia, della dipendenza reciproca tra il creatore e la creatura. En ani li: ani, "io", ritorna ad essere ayin, en, "non" (termine costituito dalle stesse consonanti); lo yesh o essere determinato si annulla. Se io torno al nulla, se l'io dell'individuazione torna al nulla, si manifesta "Chi", Mi, nome del Dio personale nella sua trascendenza.
Se io sono per me (solo), cosa sono io? Uksheani le-asmi, mah ani?
Se io sono per me, io sono mah, "che cosa?", la domanda che costituisce l'uomo, la richiesta che il figlio idiota, tam (ovvero semplice, integro), pone alla Madre nella notte di Pasqua. L'essenza, la che-cos-ità, mahiyya, è lo stupore della domanda originaria di Adamo che tende a irrigidirsi in risposta, nella determinazione di essenze separate, ad immagine dell'ego sradicato dal divino.
E se non ora, quando? We-im lo ʻakshav, ematai?
Il Talmud comincia con la domanda me-ematai, "da quando"? Ematai si può leggere come emet Y-Y, "la Verità del Signore": verità creatrice, ma anche, secondo il midrash, rigore e purezza della legge divina che si oppone alla creazione dell'Uomo in quanto viluppo di menzogne, colpevole semicosciente della dislocazione dell'universo, della sua inquietudine samsarica. Se non ci si insedia nel nunc, nell'intersezione meditativa tra eternità e tempo, sfolgora comunque, ma non intravista, non gustata, alterità e trascendenza pura, la Verità che tende a distruggere la provvisoria e relativa consistenza umana.