Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 21 novembre 2014

Storia del povero che trovò un diamante nell’argilla. Breve commento a una parabola di Rabbi Nachman di Breslav




Rabbi Nachman raccontò:
C’era una volta un poveruomo che si guadagnava da vivere estraendo l’argilla e vendendola. Un giorno, mentre scavava, scoprì una pietra preziosa, che ovviamente valeva parecchio. Poiché non aveva la più pallida idea del suo valore, la portò da un esperto affinché la stimasse. L’esperto rispose: “Nessuno qui potrà permettersi una pietra del genere. Va’ nella capitale, lì riuscirai a venderla”. L’uomo era così povero che non poteva nemmeno permettersi il viaggio. Vendette tutto quel che aveva e andò di casa in casa a raccogliere fondi per la traversata. Alla fine ne racimolò abbastanza per arrivare fino al mare.
Poi andò a imbarcarsi su una nave, ma non aveva più un soldo. Si recò dal capitano e gli mostrò il gioiello. Il capitano lo accolse immediatamente sulla sua nave con tutti gli onori, credendolo una persona degna di fiducia. Assegnò al poveraccio una cabina speciale di prima classe e lo trattò come un gran signore. La cabina del poveruomo aveva una vista sul mare: lui si sedeva lì, contemplando continuamente il gioiello e traendone gioia. Gli piaceva farlo soprattutto durante i pasti, perché mangiare di buon umore fa molto bene alla digestione. Poi un giorno si sedette per pranzare, col diamante davanti a sé sul tavolo dove poteva goderne la vista. Mentre era lì, si appisolò. Nel frattempo arrivò l’addetto alla mensa e sparecchiò, scuotendo la tovaglia nel mare e facendovi cadere le briciole insieme col diamante. Quando l’uomo si svegliò e si rese conto di cosa era successo, per poco non impazzì dal dolore. Tra l’altro il capitano era un uomo spietato, che non avrebbe esitato a ucciderlo per il costo del viaggio. Non avendo altra scelta, continuò a comportarsi da persona felice, come se niente fosse stato. Il capitano era solito parlare con lui qualche ora ogni giorno: quel giorno l’uomo si mise di buon umore, così che il capitano non si accorse che qualcosa non andava. Anzi gli confidò: “Voglio comprare una grande quantità di grano, che potrò rivendere nella capitale ricavandone un immenso profitto. Temo però di essere accusato di rubare dal tesoro del re. Perciò farò in modo che il grano venga acquistato a tuo nome: ti pagherò bene per il tuo disturbo”. Il poveruomo acconsentì. Ma non appena arrivarono al porto della capitale, il capitano morì. L’intero carico di grano era a nome del poveretto, e valeva molto di più del diamante.
Rabbi Nachman concluse: “Il diamante non apparteneva al poveruomo, e la prova è che non lo mantenne. Il grano invece gli apparteneva, e la prova è che lo mantenne. Ma egli ottenne quel che gli spettava solo perché restò felice”.

L’uomo, adam, tratto da adamah, la terra fertile, che muta continuamente la morte in vita, riparando la ferita perpetua della maledizione originaria, l’entropia della Caduta – vive scavando e vendendo la propria argilla, partecipando al circolo sacrificale della materia vivente-morente. Un giorno trova un gioiello dal valore incomparabile: scopre il luz, la pietra preziosa a fondamento della colonna vertebrale, seme della resurrezione, e ne fa l’esperienza terrestre come gioia e consolazione, a cui tutto il resto viene subordinato. La grazia divina, l’estasi spirituale trovata per puro dono divino negli strati dell’argilla umana, induce spontaneamente alla rinuncia: il maestro avvisa che la perla, il diamante può essere venduto solo nella Capitale, oltre il mare – nel Regno che è al di là del viaggio mortale e della morte. Così il poveruomo fa il voto del pellegrinaggio celeste, e raccoglie quel tanto che possa condurlo fino al porto: ma quando si tratta di imbarcarsi, non ha nulla – il veicolo spirituale non gli spetta per le sue azioni, per i suoi meriti, non ne è l’effetto dovuto, immediato. Allora mostra la primizia della sua fede e della sua gioia al capitano, il principe di questo mondo, il custode della natura caduta e della soglia fra la terra e il cielo: vi è qui un primo inganno, perché il poveretto non ha i soldi per la traversata, e la vista del gioiello persuade il capitano che il passeggero è un gran signore, cui non bisogna chiedere nulla. La regalità della grazia spirituale seduce la natura, attira anche i doni terrestri, le consolazioni abbondano: ogni pasto è un sacrificio lieto e luminoso, ci si lascia cullare serenamente dalle onde del tempo, dediti alla contemplazione e alle sue dolcezze. Ma può accadere, e di fatto prima o poi accade, che dopo un breve sonno, da un istante all’altro, senza accorgersene nemmeno, la pietra preziosa venga perduta: un angelo la spazza via, finisce nel gran mare del tempo e dell’oblio. Ci si sente perduti con essa, cui ci si era identificati: tuttavia l’uomo, ricondotto al suo nulla – non ha più ciò per cui aveva venduto tutti i suoi beni mortali – non può cedere alla disperazione, ritornare su di sé, smarrire sé insieme all’esperienza divina, alla grazia divina del passato, perché altrimenti il capitano scoprirebbe il bluff e lo ucciderebbe. La natura, se non le si esibisce il gioiello, la gioia, distrugge il corpo terrestre e insieme l’anima celeste dell’uomo con l’oppressione della melanconia, che diventa disperazione e dunque dannazione se ci si identifica con essa: è la prova suprema della creatura spirituale. Allora l’uomo perfeziona per necessità il proprio inganno: simula la gioia davanti al capitano – alla natura e al mondo – e in fondo anche davanti a sé. Tale il bluff più alto, l’inganno sacro della fede, che è più vero della realtà di perdita, assenza e notte oscura: il gioiello è dissolto, quintessenziato, riportato alla sua scaturigine invisibile ed efficace, il seme alla radice della colonna vertebrale, il luz da cui tutto l’uomo risorgerà. Così non solo il principe di questo mondo continua a mantenere in vita il poveretto e a beneficarlo, ma gli concede addirittura il guadagno supremo: il carico di grano che vorrebbe acquistare con un atto di peculato, rubando dal tesoro del re, usurpando una prerogativa regale. È il raccolto della vita eterna, che il mondo non può arrivare a mietere: lo farà l’uomo di fede, cui verranno intestate le carte della compravendita – il povero, il mite è colui che eredita la terra, e una volta al porto della Capitale il capitano muore, il mondo finisce, mentre tutte le sue qualità originarie si ridestano nell’uomo redento e trasfigurato, risorto, che ora è ricco di tutti i doni. Rabbi Nachman commenta che il gioiello è stato perduto perché in realtà non apparteneva all’uomo: era comunque una primizia, una grazia, uno stato dell’anima e non un possesso definitivo; il grano invece è un acquisto, un’acquisizione dell’uomo attraverso l’inganno mistico della fede. “E così accade con tutte le cose. Se non sei felice, comportati come se lo fossi; la felicità verrà dopo. Così accade anche con la fede. Se sei disperato, comportati come se fossi credente; la fede verrà dopo” (I. B. Singer, Un consiglio).