Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 27 agosto 2011

Canto dell'uomo


Ho ricevuto in sorte dal mio dio
sensi meno lucenti
del gatto e della mosca, un brancolare
miope, incessante, tra filamenti
d’ombra, una fame di sentieri
comuni, di ostacoli
e mappe, una condanna
a plasmare immagini di vita
con la mia creta di morte.
Studio gli uccelli, progenie degli angeli,
e in ogni cane ritrovo un principio
ben dispiegato di rettitudine,
un’impeccabile virtù civile. Ma accostarmi
a quel ficodindia non posso
ardire – lo vedi come annuncia,
come mostra se stesso, come lascia
emergere da sé la visione
intellettuale senza le polarità
angosciate del sangue? E non parliamo
nemmeno, impossibile parlarne,
sebbene sia all’apice
di ogni mio discorso, del ciottolo
della strada – potessi per un attimo
restare come lui, come lui obbediente
all’amore segreto, al desiderio
amabile e imperioso. Eppure mi resta
nel punto esatto della mia caduta
una memoria d’orfano, un affanno
di paria e di sacerdote,
eppure ho avuto stranamente in dote
una brama di schiavo e di migrante
confitta al cuore di ogni mia abitudine,
impastata in ogni minimo
anello della mia catena.




Dalle memorie di un filosofo neoplatonico romano


Quando confidai al mio maestro che avevo deciso di suicidarmi, egli mi rispose senza alcun turbamento: “Va bene, ti aiuterò. Ricordati solo che sei mio discepolo, quindi dovrai farlo come ti ordinerò io”. Acconsentii. “Anzitutto, noi siamo filosofi, ovvero cerchiamo con ogni sforzo di distaccarci dal vincolo con il corpo. Quindi il tuo pensiero e la tua fantasia non andranno messi in atto esteriormente, ma interiormente; o meglio, una volta che li avrai portati dalla potenza all’atto nella tua anima, potrai, se lo crederai, trasferirli nel mondo visibile. Stando così le cose, ti ucciderai interiormente”. “Come può avvenire ciò, maestro?”. “Nel modo in cui te l’ho detto: ucciditi dentro di te, poi, dopo aver sottoposto il tutto ad un esame preliminare con retta intelligenza, porta dentro di te le conseguenze del tuo atto. Posso esprimerti la cosa in due modi: muori completamente, senza lasciare alcuna traccia di te, oppure vivi come se ti fossi ucciso con pieno successo”. “Ma se vivo il mio suicidio, non sarà un suicidio”. “Come fai a saperlo prima di averlo messo in atto? Non credere che questa morte nell’anima sia meno grave dell’angoscia di chi, senza aver rettamente filosofato, si uccide, oppure della graduale morte in vita di chi si abbandona ad una tetra fantasia senza volerla, per così dire, guardare negli occhi”. “Quali e dove sono gli occhi di una simile fantasia?” “Guardala, e i tuoi occhi incontreranno occhi. Ora hai la mia consegna, cui sei tenuto per il giuramento di fedeltà che hai prestato quando eri ragazzo”. Mi inchinai, mi uccisi interiormente, e giunsi all’apice del filosofare vivendo la mia morte e morendo la mia vita.

Pensieri del Cane


Si può tracciare una corrispondenza di massima fra le tre ipostasi neoplatoniche (più il corpo o mondo sensibile) e gli stati dell’essere del Vedanta: Hen-turiya; Nous-prajna/sushupti; Psychè-svapna; Soma-jagrata.
Psychè è il sonno con sogni: l’anima pensa/parla, è la creatrice, il demiurgo della propria conoscenza, verum est factum. Dominio del possibile-contingente. La veglia dei sensi e del corpo è la soglia, la superficie dello specchio attraverso cui l’anima veri-fica il suo sogno: l’identità di forma logica tra pensiero/proposizione e realtà (Wittgenstein) postula, per il principio degli indiscernibili, che l’oggetto sia una proiezione dell’anima, ma anche la soglia della sua epistrofè al nous, al tutto. L’impronta della necessità nel possibile – la logica – è l’impronta dell’uno-tutto attraverso la vuota categorialità di ananke. L’anima incontra se stessa nell’alterità (nel mondo, come mondo), l’anima fa se stessa nell’alterità (nel mondo, come mondo). Il nous o sonno senza sogni è la presenza dell’anima alla propria creatività, lo sguardo semplice come spazio-akasha su cui si stagliano le nuvole, le onde del sogno. Il Soggetto-punto fuori dal mondo di Wittgenstein, con cui il mondo coincide. La prospettiva si scioglie in accoglienza, in puntualità e integrità. Cancellato il punto, il nous ritorna all’indicibile pienezza dell’Uno o Zero, che si sperimenta come libertà vivente attraverso tutti i piani ontologici.

Il mondo è il mio mondo, la mia rappresentazione, il mio sogno. Il fenomeno è phainomenon, ciò che si mostra: a liberarlo dall’idealismo kantiano vale la teosofia di Ibn Arabi esposta da Corbin. Il rapporto tra rabb e marbub, tra il Signore divino e il suo servo, il suo “signoreggiato”, è alla radice del rapporto tra soggetto e oggetto: lo sono entrambi, reciprocamente. Il rabb è uno dei Nomi divini, un possibile che si conosce (si epifanizza) e si realizza nell’esistenza individuale del marbub. Così il servo e il suo Dio, la creatura e il creatore, l’uomo e il suo archetipo celeste, la psychè e il nous, congiunti nella presenza (khudur), accedono all’Uno, all’Essenza-Identità divina o Dhat: passano dal sogno al reale attraverso l’atto intellettivo e l’atto della fede-assenso. L’esistenza, il reale è l’Uno, il nesso uni-fico dei Signori e dei signoreggiati. Così il tajalli, la teofania del Reale, identificando conoscenza e manifestazione, dà il giusto spessore metafisico al “fenomeno”. Il mundus imaginalis (alam al-mithal) o “mondo della similitudine”, della metafora, è la retta “spiegazione” della methexis platonica, la “partecipazione” del mondo sensibile al mondo intelligibile, altrimenti – per la ragione – aporetica (si veda il Parmenide). L’immaginazione realizza il nafas al-Rahman, il “soffio del Misericordioso” che dà origine alla creazione-teofania: è maya creatrice, sintesi di uno e molti, “volontà” che fonda il fenomeno-manifestazione, il phainomenon (e in cui è sia la misericordia che l’eros, il kama dell’Inno rigvedico, l’hubb o amore del hadith musulmano e l’agape cristiana, il quia voluit di Agostino che Illich rende con “porqué tenia ganas”: il Femminile archetipico, l’Alterità che ferisce/apre e fonda l’Identità).

Dobbiamo vivere come se al mondo esistessimo solo noi e il nostro Dio, diceva Teresa, citata a suo modo da Leibniz a proposito dell’autonomia microcosmica della monade: è vero, ma il mio Dio manifesta a me, in me, per me il Dio degli dei, il nous, e nel nous l’Uno.