Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 30 maggio 2010

Illusioni sull’Illusione: India e Occidente


Kafka si sentiva agghiacciare quando sfiorava la spiritualità indiana, quasi sicuramente per la sua mancanza di calore tragico. In effetti quando ci accostiamo ai Veda per lo più li troviamo intollerabilmente dionisiaci, quando leggiamo Shankaracharya lo troviamo intollerabilmente dissolvente, svuotante, e così via. Ma il punto è che non possiamo installarci nella verità dell’India, nella sua conoscenza saporosa, inseparabile da una peculiare visione dell’immaginazione e del mondo immaginale, del fondamento poetico dell’universo. Così l’India profonda ci è irraggiungibile, come l’Occidente profondo, la sua tragica frontiera sempre spostata, è irraggiungibile al dolce e divorante sincretismo dell’India, radicatissimo e fluidissimo insieme.


L’Epilogo de’ dogmi politici del cardinal Mazzarino è un capolavoro inquietante dell’illusionismo post-rinascimentale: sembra di vedere gli sfregi e le rughe della Caduta tramutarsi nelle striature di sangue della Passione, ma per il sortilegio di una nuda e sommamente affinata potenza, invece che per amore.
In Calderón, la buona volontà che si incarna in atti di giustizia dovrebbe installarsi in una prospettiva terza rispetto alla dualità sogno-realtà, così relativizzandola e superandola. Ma l’intuizione “tutto è sogno” in Occidente ha quasi sempre una portata corrosiva, dissolvente, perché ci è impossibile recuperare, causa la frattura introdotta dal logos, la sua remota scaturigine sciamanica.

venerdì 28 maggio 2010

Salmo 137


mentre le truppe angloamericane
si avvicinano a Baghdad

al popolo iracheno, a noi

“La guerra travolge l’antica Babilonia”.
(titolo del Corriere della Sera, 3-4-2003)



‘al naharòth Bavel
sham yashavnu gam-bakhinu
bežakrenu et-Tziòn

‘al ‘aravìm betokhàh
talinu kinnorotenu

ki sham she’lunu
shovenu divré-shir
wetolalenu simchà
shirù lanu
mishshìr Tziòn

ekh nashìr
et-shìr-Adonay
‘al admàt nekhàr ?

im-eshkachèkh Yerushalaim
tishkàch yeminì

tidbaq-leshonì lechikkì
im-lo ežkrekhi
im-lo ’a ‘alé et-Yerushalaim
‘al rosh simchatì

žekhòr Adonay
livné Edòm
et yom Yerushalaim
haomrìm ‘aru ‘aru
‘ad hayesòd bah

bat-Bavel hashshedudàh
ashrè sheyeshallèm-lakh
et gemulèkh shegamalta lanu

ashrè sheyyochèž wenippètz
et-‘olalaikh el-hassala’

I

Al naharoth Bavel
sui fiumi
di Bavel, sui correnti
sfuggenti
cogli sfuggenti nomi insostanziali
(evoca remota ferocia il Tigri, fraternità
subdola l’altro, alle nostre
orecchie trasognate)

ci siamo accampati
coi nostri fuochi addomesticati
da serafini d’acciaio vegliati
e dai loro fiammanti portati
lì ci siamo seduti e abbiamo pianto
per simpatia coi luridi sfuggenti
coi fiumi miserabili di Bavel
la porta informe di un dio tenebroso
di un piccolo dio dalle vuote
occhiaie smisurate
soffiato via, da una speranza
nomade, da un barlume di nomadi,
fra le smaniose larve
e le essenze umiliate
fra i loro gemiti sempre di nuovo
come gas e olio infiammabili.

ricordando Sion la maleamata
la troppo amata, il porto di tutti,
il ventre insaziabile, la
troppo pensata e ricordata
per troppo ricordo abbiamo appeso
ai salici di Bavel le lire
sebbene un poco resti da dire
cioè – fiore del grido – da cantare.

Lì.

Iniziamo da lì, da dove siamo
finiti, da dove
i ciechi arconti del piccolo dio
ci chiedono a schiaffi e calci in cuore
e gli occhi vuoti roteando al cielo
cantate ci chiedono dateci gioia
ai noi larve smaniose di ascoltare
il sangue che vi batte sulle tempie
il vecchio ritmo crepuscolare
cantate cantate deportati
uno di quei canti che usavano
quand’eravamo vivi e voi crisalidi
o larve di speranza nel deserto
che usavano a Sion la beneamata
nei giorni della sua vita veloce
di alla speranza eterna condannata.

NOTE:
“Correnti/ sfuggenti”: vedi l’esegesi di Agostino nelle Enarrationes in Psalmos.

“Vuote/ occhiaie smisurate”: sono le occhiaie degl’idoli mesopotamici, le enormi divinità soffiate via dalla brezza del Dio di Elia.


II

Come canteremo la canzone
che Dio poetò quando noi eravamo
nomadi bolle grumi di non essere
quando il piccolo dio mangiava forte
e fingeva l’oriente di guardare
dalle sue vuote occhiaie amoroso
e Sion era dolce come il sangue
impura ancora e raggiante di spasmi
come in mano alla levatrice?
Come canteremo ciò che Dio ha inventato
al admàt nekàr, sulla terra
dell’adamo esiliato
che del suo orrore e delle sue speranze
come la pioggia del cielo ha impregnato?
Cantare, per forza (ci sono
le verghe dei morti di Bavel, c’è
quella non meno urgente del pastore
che ci porta al macello): e anche che cosa,
sappiamo (sebbene
troppo pensato e troppo ricordato
per saperlo davvero) – ma come?
Chiediamo alle mani ammanettate
nei polsini giusti
delle divise mimetiche,
chiediamolo alle manette
mentali, chiediamolo
alle mani.

NOTE:
“Manette mentali”: the mind-forg’d manacles (W. Blake, London).


III

se ti scordo Gerusalemme
si scordi la mia mano destra
che leva l’idolo a lungo nutrito
di triste fuoco addomesticato
se ti scordo la mia destra
si scordi e penzoli
senza tenersi all’osso dell’idolo
come in preghiera povera inutile

mi s’attacchi la lingua
al palato
come quella d’un nemico assetato
come chi nel deserto va a guardare
e gli scoppia di sabbia il respiro
e allora vede e crede, le ferite
gli stanno aperte davanti e d’intorno
e smaniano prenderlo, come un rifugio
ha sete d’un rifugiato

se non ti ricordo
si scorda la mano
la lira si scorda
se non mi metto sul capo
Gerusalemme come una corona
sul capo della mia gioia,
senza di lira di grido e di canto
sulla mia gioia che respira sabbia
sulla testa in cui cerca rifugio
la gioia – io metto
Gerusalemme come un elmetto

NOTE:
“L’idolo a lungo nutrito/ di triste fuoco addomesticato”: sono le moderne, ipertecnologiche armi da fuoco.

“Sul capo della mia gioia”: v. 6, letteralmente: “se non faccio salire Gerusalemme sulla testa della mia gioia”.


IV

Ricordati,
Dio. Ti ricordi?
Ecco ho letto, a salti, svagato,
qualche commento al tuo poema
che quando ero nulla hai poetato
settanta volte trascritto
nel nostro tiepido idioma
fino alla diluizione
fino alla misericordia:
e più raramente
ho di te ascoltato
un’eco confusa
nelle reni, come Yov:
e quanto ho pure
di te succhiato
ancora denso e vivente
nel latte di mia madre –
qui a Bavel che mi vale?
Con la tristezza dei fiumi
la necessità del deserto.

Ti ricordi
i figli di Edom?
Ti ricordi
Gerusalemme?
Se lo fai, io credo, non è certo
con la nostra sdentata ossessione
con l’unghia della nostra distrazione
se lo fai, io credo, tu covi
il ricordo e la spessa
dimenticanza che lo stringe mordi,
come le madri degli animali.

Ti ricordi:
gridavano (sono
più bravi di noi, sembra meglio
della poesia, non lo puoi
appendere ai salici, quel grido,
come in croce una tenera spoglia)
gridavano
Aru aru snudatela impalatela
aru coventrizzatela
aru hiroscimizzatela aru
e quando non resterà
che il fulgore del coccige
per bene pestatelo
altrove seminatelo
reliquia non ne facciano
ad hayesod
zekor Adonay
ricorda Signore
ricorda il Signore

NOTE:
“Nelle reni, come Yov”: vedi Giobbe 42,5.

“Aru aru”: vedi v. 7: “Spogliate spogliate”.

“Il fulgore del coccige”: yesod vuol dire base, petra fundamenti, parte inferiore del corpo (il coccige è il luz, il seme della resurrezione).

Ad hayesod/ zekor Adonay”: Fino al fondamento/ ricorda Signore.


V

Figlia di Bavel
Madre di Roma
e degli dèi stanchi
Madre dei salmisti
Sorella dei leviti
o tu chiamata allo sterminio
alla desolazione della grandezza
al cieco tormento della terra
nell’asciugarsi e nel trasmutarsi
sotto la mazza regale
e i detti delle stelle
e gli oracoli del corpo
e il logos palindromo dei casi
beato chi ti stuprerà
restandoti fedele
chi farà la pace
mimandoti sulla carne
i gesti del tuo sogno
beato chi
placherà la tua larva
giustiziandoti con amore
beato chi farà un fascio dei tuoi lattanti
dei salmisti dei cesari degli arcangeli
e li sbatterà sulla roccia
e non li seppellirà nella sabbia
nel limo dei tuoi fiumi
e li spaccherà sul dorso del reale
consentendo feroce a rischiare
di rompersi l’osso fino al coccige
di perdersi con tutto il suo diritto
davanti al Dio che è fuori dell’uomo
sulla faccia del Dio
sul dorso della roccia.
Beato. Giusto. Santo. Solo lui
lo può. Figlia di Bavel, prega
per il tuo e mio redentore.
Madre di Roma, prega
per il nostro pacificatore.
Che venga il suo, di Regno.
A Gerusalemme.
Prega Madre dei morti
sorella del tempio
cugina di Sion
signora del tempo
lontanante,
dell’alba nera sopra i deserti,
del grasso fango dei fiumi,
delle croci dal sangue fecondate,
madre dell’Occidente
sorella nostra.

NOTE:
“Madre di Roma”: nel Talmud (e nell’Apocalisse) Babilonia, e soprattutto Edom, sono figura dell’Impero Romano.

“O tu chiamata allo sterminio”: hashshedudà può voler dire sia “sterminatrice” che “sterminata”.

Nei versi 8-13 si allude: al mito di Marduk e Tiamat, ai culti del ciclo della natura (Dumuzi-Tammuz), all’idea di regalità astrologica e sacra, ai salmi di malattia, alle sorti annuali.

“Chi farà la pace”: sheyeshallèm lakh: “chi ti renderà” (la radice è Š-L-M, pace, pienezza).

giovedì 27 maggio 2010

Dal testo di un Diwan con cui a Nishapur un mongolo pulì gli zoccoli al suo cavallo


Niente è abbastanza. Ma tu dammi una tazza di vino
– puro – non per incantare con un po’ di follia
il mio desiderio di lei. Forse
questo lume severo, che nel vetro
sa discorrere, lascerebbe qualcosa
della sua furia meridiana al sole
quando declina dolcemente, e porterebbe
la lentezza e la sperdutezza
di quelle oche brune migranti
a quest’ora di bronzo, la più ripida.

Non credere di curarmi, ti dico, la distanza: è
lasciar morire un vivente. Stasera
voglio che viva e parli, come le è dato, la mia
piccola morte, la mia primizia, questa bimba
esperta di ricatti: salutare
da lontano la sera del possibile
ricongiungimento nelle cose che vedo
e sento effettivamente, nel poco di vero che ho.

mercoledì 26 maggio 2010

Il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo


Il passaggio ad un piano diverso dell’essere implica un salto, una rottura, una morte. Entrare nel mondo dell’immagine, dell’anima, è morire al mondo dell’estensione (l’anima vincolata al corpo), e in quella soglia, in quel transito si sperimenta la crux, l’aporia (Zenone, ad esempio), la contraddizione. Così dal mondo delle immagini e della psychè si accede all’intuizione, al nous, alla sintesi attraverso una sperimentata aporia (Hölderlin): attraverso la porta del tragico – la cui apertura non va però identificata con la lacerazione/ferita (il tragico non va letteralizzato), perché c’è una dimensione ermetica che è forse anche più ampia del tragico stesso (vedi il proemio di Parmenide, i malachoi logoi, i “dolci”, i “molli”, i “delicati discorsi” delle fanciulle figlie del Sole). Evitare l’oggettivazione dualistica del nous è la scommessa più grande del platonismo – come pure integrare l’intelletto teoretico e quello pratico in un’unità non plastica, non costruita, non astratta (Aristotele-Platone e Wittgenstein-Newman): ragione-intelletto e fede. È sempre il vecchio enigma del logos lanciato ai mortali.

martedì 25 maggio 2010

Gnosi dello scandalo (Tosiftà a “Davanti alla legge” di Kafka)


Forse è nel Talmud una soluzione che discende sul nodo gordiano del midrash di Kafka come la spada di Alessandro: vi si legge che i santi sono “coloro che entrano senza chiedere il permesso” (trattato Sanhedrin). Ma perché bisognerebbe chiedere il permesso?
I perushim, i farisei, sono i “separati” non tanto per il loro letteralismo della santità, quanto perché, tenendo le chiavi (=l’interpretazione), non entrano loro e non fanno entrare gli altri (cfr Lc 11, 52): come il guardiano del racconto. Il sacerdote-interprete del Processo non gli dà torto.
La Legge, una volta uscita dalle mani di Dio, istituita, dice: forse puoi entrare, ma non ora. Svanita la fretta messianica, una chiesa non può che alzare una siepe, amministrare l’attesa, volgere le spalle alla luce della Legge e il volto agli uomini. La sua mediazione ripete, e complica, quella del Testo sacro, che è un velo tra il mondo e il Regno. Il guardiano della porta prende sulla sua carne la carne del Testo: e anche la corona di spine dell’autorità, alleggerita dalla consegna fraterna, dalla comunione. È una figura tragica e comica.
L’uomo di campagna vede la luce messianica della Torah perché muore interrogando. L’Adesso vado a chiuderla del guardiano vuol dire: adesso vedi il bagliore, ma sei, come tutta la storia, sulla frontiera di Moab con Mosè. “È venuto il mattino, e anche la notte. Se volete interrogare, interrogate. Ritornate, venite” (Is 21, 12). Se il guardiano si identifica con ciò che dice al moribondo, se non ha la stessa astuzia di serpente con se stesso in quanto guardiano, è dannato. Ingannato, dice dolcemente, gnosticamente, Kafka.
Il Tribunale “ti accoglie quando vieni e ti lascia andare quando vai” solo se è concrocifisso con colui che crocifigge: ma nel tempo dell’attesa, della mescolanza (la mixis degli gnostici), l’impossibilità di discernere il grano dal loglio è lo scandalo.
Fondato per raccogliere coloro che attendono, per lucrare l’attesa, il Tribunale visibile crea l’attesa perché ne ha bisogno. I banchieri della fede diventano gli strozzini della fiducia.

lunedì 24 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sul popolo


Caro Mard,

è difficile comprendere cosa sia popolo: può essere malinconia d’intellettuale, può essere un’idea che si realizza, per lo più, in una sorta di asciutta e noncurante attenzione, non senza trafiggenti ironie – il rapporto con le radici, con l’invisibile scaturigine, è sempre governato da ironie –; oppure può essere il nome laico della Chiesa.
Qui, nel mio quartiere, guardo gli uomini viventi sforzandomi di non percepirli come un’unica faccia gettata nello specchio della molteplicità, in modo da perpetuare ad ogni fuggevole incontro la banalità della sorpresa e la sorpresa della banalità: o irritanti, o impregnati di un numinoso triste perché irradiante da un passato (mio) non combusto dall’ascesi del destino, o meramente sconfortanti per la preliminare cancellazione del messaggio sempre di nuovo atteso e il cui tenore man mano intuiamo, per contrasto ma anche con un peso di immediatezza crescente, nell’inesorabile addensarsi del desiderio, della fame del cuore. Qui, dal mio quartiere, prendo quasi ogni mattina un autobus, che ho chiamato l’autobus dei poveri, non ricordo quando. Qualche indelicato – non certo tu, mio Mard, che pure di queste cose hai conoscenze troppo limpide e sperimentali per capirmi del tutto – potrebbe alzarsi ed esclamare che è addirittura un’ovvietà, certo, come altrimenti chiamare un autobus pieno di lavoratori stranieri miserabili, di ladruncoli, di ubriachi, di proletari da sobborgo leggermente impolverati ma con l’allure di una decenza un poco arrogante, e così via? Se c’è qualcosa di ovvio, per te e per me, è che quel nomignolo deve significare qualcos’altro: non qualcosa di meglio, ma di più strano, di più nostro – di più umano, temo.
Da molto tempo mi diverto a correggere il verso lungamente strattonato di Terenzio: homo sum, humani nihil a me alienum puto. Io dico: homo sum, inhumani nihil a me alienum puto. Nell’inumano, ovvero nell’umano al colmo della sua opacità archetipica, impersonale, maniacale, scorgo una trasparenza speciale, tradimento della consegna del silenzio o, meglio, punto dolente e cruciale dell’enigma insolubile dall’uomo in quanto uomo – da me in quanto me: le allusioni teratologiche, le rughe di delirio, la superficie così dura e fragile dei contatti fra umani, tutto il persistente albume di magie, il liquido amniotico fatto di mente sospesa, di mente che non sa di attendere – tutto questo mi toglie e mi dà il popolo, sull’autobus che prendo ogni mattina. Ho iniziato, mesi fa, quasi subito prendendone l’odore: l’odore di quell’autobus, l’odore dei quartieri che attraversa; solo così mi è stato concesso il diritto di confondermi con la sua povertà e di guardarla con cautela e passione. Il povero non è, ovviamente, il rumeno folgorato di fatica alle sette e mezzo del mattino, né la piccola drogata, né il borseggiatore – né, né, né: il povero è lo sguardo che cerca, con ansia disperata, da incubo non ancora culminante, di farsi attenzione, di imbroccare la propria giustizia, la giustizia collettiva, capace di redimere l’autobus intero, ed anche di tracimare oltre i vetri; poveri, nell’autobus, sono i percorsi magici dei desideri, delle intenzioni, sonde e bacchette di potenza stellare, che l’orologio tutto mentale e automatico della città avvince ad un ritmo meschino, a qualche saltello nella penombra degli sfioramenti – occhio e vestito, occhio e guancia, occhio e plastica, occhio e vetro, occhio e albero, occhio e occhio –. Il povero sono io, ma non in quanto io: io, in quanto io, sono peccatore – le due nozioni sono senz’altro legate, e strettamente, ma non bisogna perderne il peso specifico, il valore e la forza puri e semplici – il povero sono io in quanto parte irredenta e irredimente di quell’autobus, io in quanto tristezza dell’autobus, serialità e circolarità urbane, perenni, dell’autobus. Per questo, forse, Mard, la sete di apocalissi nella città è così profonda, così intensa, e così sospetta – direi soprattutto per la sua incapacità di spezzare il cerchio, che non si lascia affatto spezzare, ma solo consumare in una danza di fuoco verso l’alto.
Per oggi non ti descrivo l’autobus. Mi è sufficiente evocartelo. Ma tu, Mard, sei troppo agile e assorto per accorgerti della povertà di quegli sguardi, della povertà del mio sguardo nelle mattine suburbane.

Daniele

sabato 22 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sulla generazione


Caro Mard,

l’Uomo del Sottosuolo può credere di trovare il proprio limite, la propria forma, nelle nozze e in particolare nella generazione della prole: ma per dare la vita deve lasciarsi uccidere in quanto Uomo del Sottosuolo. Non può continuare ad esistere non esistendo: eppure non deve – questo è meno ovvio – rinunciare a quanto ha sperimentato nel ventre dell’illimitatezza, allo stigma d’infamia metafisica che ha segnato per sempre la sua presenza nel mondo. Forse non sto parlando di malheur nel senso di Simone Weil; adesso penso soprattutto a Dostoevskij, il vagabondaggio della mente e dell’anima mi riporta al suo modo di vivere il rapporto fra limite e illimite. Voglio essere ancora più piccolo e preciso: sto parlando di me, del cuore demonico della mia gioia e della mia sofferenza, della mia incalcolabile necessità, della mia spigolosa contingenza.
Una coppia concepisce un figlio: la sua conoscenza di questo evento coincide con la sua ignoranza; la sua conoscenza e la sua ignoranza di questo evento sono subito afferrate dalla conoscenza e dall’ignoranza collettive, comunitarie, universali – dal riconoscimento sapiente/stupido (nel senso di colmo di stupore, che sempre tracima dallo stupente) di quella concentrazione di realtà, di forza, di significato, di quel conquistare un esatto ma inafferrabile spazio, di quell’entrare in casa o espandersi intrecciando spirali di forme e nomi. E questo è già un fatto giuridico, una pietra giuridica, un fatto mistico e profetico, una pietra di rivelazione: dura-cedevole presenza, celebrazione e pròblema.
Un uomo e una donna stanno insieme, forse vivono insieme, ad un tratto si dice che lei sia incinta, compaiono dei segni sul suo corpo: dopo qualche mese nasce un bambino. La testimonianza di una comunità lega tra loro tutti questi fatti (più radicalmente, ne fa dei fatti), stabilisce delle inferenze, sancisce delle realtà: ma, come in tribunale, la collezione di indizi si fa ragionevole prova solo in virtù della parola, ponderata e decisiva, di un organo giudicante, la cui presenza e immanenza è sin dall’inizio riferita ad uno scarto e ad un’assenza dal corpo della legge o dalla nuda consensualità – anteriore, sottratta all’illimite e alle transazioni, sacra – di un corpo comunitario. La maya si aggioga al logos, alla mediazione, negandosi per principio, concependo se stessa in rapporto a una durezza petrosa, a un intero: in un certo senso produce il logos, lo fa nascere, lo incorpora nell’apparente continuum della contingenza (che così risulta curvato, riportato all’uno come da un vortice di danza), ma non lo crea e pretende di non crearlo.
Come vedi oggi ho bisogno di parlarti delle cose grandi e ordinarie, Mard, ma in un modo sghembo e crepuscolare: il mio di oggi, appunto, questa intersezione fra la mia morte benedetta e la mia morte insensata. Io sto per sposarmi, Mard.

Daniele

venerdì 21 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sull’amore


Caro Mardekucek,

ti parlo, poco volentieri, dell’amore.
Non ti starò a raccontare quello che già sai. Proverò a dirti quello che io stesso non so.
L’amore è un lavoro; ma è più piccolo del destino, quindi dà una fatica di sogno più strana, più slabbrata, più discontinua. Questo perché, devo supporre, ha una vocazione a superare il destino e, quindi, potenzialmente, a distruggerlo: ma se lo distruggesse – se fosse dismisura – non sarebbe appunto più amore.
L’amore fa finta, qualche volta – a qualche svolta più ardita, in cui la trama perde perplessità e acquista lucida vertigine di pienezza – di coincidere con la vita; ma non regge. La vita non lo regge – non più di tanto: perché la sua vocazione, devo inferire, è ulteriore alla vita, e la relativizza. Ma se la assumesse in sé – chissà, magari avrebbe la forza di farlo – non sarebbe più amore: sarebbe un nome magico, il più corrivo, della morte.
L’amore ride di paragrafi come quelli che sto abborracciando. Paolo di Tarso ha preso l’impensata parola greca, agape, parente lontana di ahavah, ed ha evocato dalla quiete bruciante di una lunghissima meditazione quell’inno immortale, quella musica di idee e fatti che ha decisamente il suo tono, la sua firma – così meraviglioso ed irritante doveva essere, Saulo il Piccolo, di Tarso. Ma che se la rida, l’amore. L’amore di cui parlo non è agape, non è dilectio, non è caritas, non è ahavah, non è nemmeno eros. L’amore dei miei giorni non è ancora verità, perché ha una vocazione straziante, una vocazione feroce: e niente, per il momento, gli basta. Per il momento – fa’ attenzione, Mardekucek: altrimenti, sarebbe stato il tarocco della morte – una bella giocata, ma una fra le molte, uno dei molti tarocchi. E la morte non gli basta: forse basterebbe a me, il che non è un’obiezione.
L’amore attende, ma non è paziente – perché non è, non del tutto, spirituale. Ho detto che è un lavoro: un lavoro è, anzitutto, maledizione. Poi parliamo del resto: partiamo dai fatti. I fatti che un qualunque scriba sacro conosce, anche se poi li dimentica (con sapienza più luminosa della mia), perché il finire in gloria del salmo è un’ironia di Chi ha dato il terribile impulso a pizzicare la cetra, ad alzare il braccio e la voce. L’amore non è un sentiero. Partiamo dai fatti: poi verrà il sentiero, ci sarà un sentiero, o forse non ci sarà. Fin qui mi fa sporgere la sua filosofia.
L’amore è troppo malmesso per darsi delle arie da vagabondo. Devo contestare Platone e i sufi. Sarebbe capace di darsi un tono rispettabile senza nemmeno un filo di snobismo. Ripeto, non è proprio del tutto spirituale. Non è del tutto in sé. Non è del tutto: queste metafore deliziose e terribili – il meglio che l’uomo abbia saputo, amando molto, escogitare – alla lunga lo fanno fuggire. Perché se uno è malmesso (qui l’analogia ancora funziona), ma malmesso davvero, comm’il faut, non sopporta, alla lunga, tutte queste finezze così tristi, così lineari. Hai presente i sussulti di rozzezza in un’anima stanca di patire bene? È solo una pallida immagine.
L’amore è troppo semplice e comune per essere davvero amato. Il che non significa che non sia corrisposto – lo fosse di meno, poveretto! L’amore è troppo corrisposto per essere davvero amato così com’è. E magari non vuole nemmeno essere amato così com’è – perché non è del tutto in sé, non è propriamente in sesto. Ma basta con i platonismi: l’amore è ordinario come la veglia, come il risveglio, e chi lo trova interessante farebbe bene ad andare a dormire a mezzogiorno, tanto non potrà mai combinare niente di diverso. L’amore può stancarsi – lo ripeto, tanto per intonarmi al concetto – e in questo prende le distanze dall’anima, che si illude soltanto di essere stanca. L’amore è oltre verità e illusione: sono faccende dell’anima. L’amore ama l’anima, sicuro, e quindi ama molto anche le sue faccende e le sue manie, ma è – anche – a un certo punto, almeno – stanco di manie, stanco di anima. Crocifisso tra anima e spirito, le sue sofferenze non vanno colorate di pathos umano: capiscimi, le sofferenze umane sono le sue, ma il pathos è alquanto diverso. Certe volte non sembra nemmeno soffrire con pathos: ma soffre, soffre. E io credo soffra della propria inavvertita, insospettata completezza, che è al di là di ogni superamento. Non dire mai, Mard, che l’amore comprende e supera i contrari: se fosse semplicemente così, sarebbe tutto più facile.
L’amore non è facile. Ma solo perché è un lavoro. Solo perché è quotidiano. E il quotidiano gioca un bel tiro al tempo: gli spalanca un abisso di possibilità che non saprebbe mai, lui, il devoto titano, immaginare. Ora, però, Mardekucek, voglio che mi parli di te – ho bisogno di sentirti. Parlami di qualcos’altro – anche l’amore ha i suoi limiti, la sua stravagante giustizia.

Daniele

giovedì 20 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sulla casa


Caro Mardekucek,

ti scrivo dalla mia casa. Già questo inizio – questa sorta di inizio – mi getta in una disperazione speculativa: perché cos’altro è una casa se non una tenda per nomadi, un frammento di spazio che permette – che può permettere – di abbracciare tutto lo spazio, e insomma un’ironia ben poco animale, un’ironia molto, molto umana?
Tempo fa progettai un raccontino su un manicheo (di Gerasa, che trovata décadent) che decide di sposarsi. Un manicheo vero, eh, un credente e filosofo manicheo del quarto secolo – e che decide di sposarsi sul serio, eh, mica trascinato dalle pulegge del samsara, dalle morbide e imperiose suggestioni di skotos. Va bene, va bene, c’è dell’autobiografia, Mard, mi sembra già di sentirti: dell’autobiografia scoperta, poco elegante – e quindi tanto poco manichea... Te lo concedo: anzi, direi di più e di peggio – un gioco di riflessi ben poco spirituale, quasi uno sfogo in mezzo al traffico, una pausa di lavoro dominata dall’ansia di essere pausa. Sì, quel geraseno potrei essere io: un intellettuale, che ha anche un bisogno di devozione quasi lancinante, e lascia che il suo logos solitario e spezzato lo torturi per non vederlo e non sentirlo nemmeno, silenziosamente felice che la luce torni alla luce senza che la tenebra possa afferrarla; la sua sensibilità è indubbiamente dualistica, ma non si tratta solo di costituzione psichica, è il suo daimon, il suo destino a chiamarlo sempre di nuovo su quella frontiera, dove poche anime rischiara il crepuscolo del mito gnostico, con la sua giustizia ambigua. Eppure proprio quella sensibilità lo muove, non meno, semmai più energicamente, alle nozze: e non alle nozze spirituali dell’esoterismo valentiniano e manicheo – ché da quelle invece lo allontana una strana timidezza di vertigine, quella sì davvero complicata e quasi diabolica – ma alle nozze di carne anima e spirito con una donna da lui incontrata nel più comune e dolce e simpatico dei modi. Le nozze, il matrimonio. Un desiderio di totalità e superamento, che il buon credente psichico giudicherebbe una specie di folle arrière pensée e il contemplativo pneumatico un capolavoro di tortuosità ordito da Hyle, spinge il mio fidanzato manicheo ad usare il proprio intelletto per inedite e ardite interpretazioni. Sulle prime gli viene da dipingere il matrimonio – questo matrimonio, questo irripetibile esperimento nuziale – come la possibilità più alta, il tentativo di portare la solitudine ineffabile della luce nella ferialità delle leggi cosmiche, nella loro presunta regolarità, nella loro ironicissima norma. Ma si rende conto abbastanza presto che è un tipico arabesco mentale da neofita, da catecumeno del destino: pensieri e parole non esprimono altro che la loro (tutto sommato divertita e divertente, oltreché profondamente giusta) distanza dalla piena verità dell’esperienza. E allora ha un’idea ancor più strana: che l’accettazione del kosmos e delle sue ottusità, ripetizioni e fin troppo esibite (per esser tali) fissazioni – proprio l’accettazione che gli gnostici deprecano nella Comunità degli psichici, nell’Ecclesia del mondo – nasconda un qualche segreto la cui enorme semplicità imbarazza gli intelletti e le anime di tutte le creature, specialmente degli uomini, specialmente dei dotti, specialmente degli gnostici. Ed è una semplicità che esime il geraseno perfino dal rinunciare alla gelosa sensibilità manichea: perché è pur vero che, nella grande Chiesa costituita dai piccoli del mondo, il sonno e l’ignoranza sono l’ambiente normale e quasi il liquido amniotico, ma a motivo di quella semplicità e in rapporto ad essa, non in un contrasto che chiunque potrebbe comprendere – anche uno gnostico, per dire. E se da quel sonno debba fiorire un’alba, se in quell’utero stia fluttuando qualcuno, non è dato – per nostra tragica ventura, per nostra mirabile avventura – sapere.
Ti saluto, dalla mia casa, dalla fucina del mio mutamento, dalla stanchezza prodigiosa della mia ventura.

Daniele

mercoledì 19 maggio 2010

Lettera dall’Assurdistan


Caro * * *,

continua l’Apocalisse.

Decidiamo di trovarci nell’era dei candala, degli avarna, dei dalit – il che sarebbe una consolazione neanche troppo segreta, visto che uno yuga (o sotto-yuga) simile non potrebbe che preludere ad una palingenesi. Se ciò è vero, se la forma dominante è quella del senzacasta, si potrebbero riprendere in un’altra chiave le ambigue e strazianti diagnosi nietzscheane ed applicarle alle nevrosi dell’incipiente (?) età dell’Acquario. Infatti il senzacasta è l’immagine perfettamente speculare del liberato in vita: entrambi sono espulsi dalla gerarchia religiosa-sociale, sebbene, ovviamente, lo jivanmukta in modo gratuito e consapevole e il candala in modo sostanzialmente coatto. Qui probabilmente ci sono d’aiuto piuttosto la bhakti e il tantrismo che il Vedanta: nei racconti dello Yogavasistha il re che sogna di diventare senzacasta, o che lo diventa nel più vasto ma non più saldo sogno dell’esistenza, è figura di prova suprema, ma lo scardinamento dell’ordine brahmanico è solo implicito, il re ritorna re – sebbene intimamente svuotato e libero – e comunque non una lacrima di karuna cade sull’accampamento pestilenziale dei candala, immagine di irrealtà al quadrato. Nel sublime vishnuismo medievale, invece, abbiamo casi di stupenda follia devozionale, il brahmano che diventa fuoricasta per amore di una donna intoccabile o per qualche violazione – non propriamente cristica, ma più che altro da santo idiota bizantino – del dharma. Poeti sublimi, che danno qualche lume supplementare, ma non la Luce di cui abbiamo bisogno noi: in presenza di un ordinamento dharmico quei capovolgimenti erano qualcosa di enorme ma anche di regolato dalla loro stessa irregolarità, e come tali oggi improponibili. Mettiamo che oggi un uomo entri in un allevamento di polli e si metta in gabbia a subire i calcolati tormenti dell’industria avicola – sarebbe immediatamente riconosciuto, gli sarebbe diagnosticata una ‘follia aviaria’ o qualcosa di simile e le strutture psichiatriche della sua città gli offrirebbero non la vecchia detenzione borghese-totalitaria ma cure di reinserimento.


* * *

Gli occidentali non riescono a comprendere perché il dharma dia uno statuto di paradossale realtà ai reietti, perché li riconosca non riconoscendoli. Nietzsche si illudeva di comprendere, ma non comprese: e se non ci riuscì lui, figuriamoci i teorici del razzismo imperialistico, o magari i tradizionalisti militanti di qualche generazione dopo. Un simile gesto conoscitivo-giuridico sembra, alternativamente, una grande misericordia del pensiero religioso e un delirio di crudeltà sistematica. Forse molto dipende dal fatto che i candala siamo noi, non gli avarna delle Leggi di Manu: o meglio che, pensando i candala, fatalmente noi pensiamo noi stessi. Si ripropone, ad un livello indicibilmente più profondo e complesso, la dialettica del pensiero sulla schiavitù: quando era giuridicamente e culturalmente riconosciuta come una possibilità dell’esistenza umana, si era sensibili all’aspetto qualitativo, reale della libertà; dopo la sua condanna religiosa e la sua abolizione giuridica, è stata rimossa e quindi potenziata. Eppure – e qui è l’aspetto più prezioso della faccenda – il pensiero orientato all’azione, al “che fare?”, il pensiero occidentale, non trova alcuna via, e termina nel tragico: perché è assurdo pensare alla reintroduzione della schiavitù come ad una soluzione, è assurdo lasciare le cose così come stanno, ed è assurdo appagarsi della “perpetua vigilanza democratica” come antidoto alle forme “striscianti” di illibertà del mondo contemporaneo (come se il loro essere “striscianti” non le rendesse – legge del pensiero magico, alchemico, religioso e in fondo del buon senso dei popoli – ben più “concrete” di qualunque “fatto concreto”!). Così con i candala: assurdo pensare di “rifondare” il dharma, assurdo far finta di non essere candala, assurdo pensare che il sapersi candala sia medicinale – anche perché, non siamo forse candala in rapporto ad un ordine dharmico infranto? Come sempre, all’occidente resta solo il pensiero tragico – ma un pensiero tragico che non va a sbattere contro il muro di ferro dell’ananke (contro leggi reali) è tragico solo per uno spettatore altro – è scena tragica e non pensiero tragico. La bidonville dei candala non è davvero tragica: il suo rapporto col dharma è di mera esclusione – e tuttavia è un rapporto. Le nostre città-metastasi sono ancora meno tragiche: o meglio, sono tragiche solo in rapporto ad uno spettatore futuro, imminente – e qui si capisce che Heidegger abbia pensato a un dio come all’unico possibile agente di salvezza, ed anche che il pensiero apocalittico riservi così numerose tentazioni, a partire da quella di un messia letterale o spirituale.

* * *

Il dio profetizzato dal Danton di Büchner è il Nulla: non un dio da poco. Da due secoli siamo gli scribi (o i farisei) di questa rivelazione. Il dio invocato da Heidegger, invece, non ha ancora corpo e bocca di profeta: la saggezza del Cerchio ci suggerisce che non può non venire, la follia della Linea ci invita, forse più saggiamente, a giocarci tutto nella catastrofe, che non ha necessariamente la falsa assolutezza della Fine – anzi, ha o può avere la giusta, totalizzante misura di dissoluzione dell’Eschaton. Ma oltre a Cerchio e Linea tertium datur, ed è la Spirale, che non è né saggia né folle perché, come ogni intuizione mistica, lascia trapelare nel linguaggio sintomi ansiogeni o insipidi, o entrambe le cose (appunto): ci dice che la fine è fine di un ordine e fine di tutto, che un nuovo inizio ci sarà, ma non ci sarà se non perché già c’è, e c’è solo nella misura in cui è in me – ma non può essere in me se non è in tutti etc. etc. Insomma: il mondo è già redento, ma questo è ancora il problema, non la soluzione.

* * *

Qualche osservazione molto piccola. Fra vent’anni i volti dei nostri contemporanei sembreranno interessanti. Carosello, che dava spasmi di disgusto a Pasolini, oggi fa tenerezza. Il cinema per noi è già una Decima Musa, rispettabile e morta, ma Kafka, Benjamin e Zolla lo consideravano una perniciosa novità affatturante dell’era delle masse. Questa non è solo una riflessione qoheletica: del resto, Qohelet è un rotolo sacro, e la sua presenza nella Bibbia lo contamina di profezia, di insaziabilità e di storia. Il fatto è che ogni generazione è all’incrocio, e i raffronti, specie se puramente morali o addirittura quantitativi, vengono pur sempre tratti dall’armadietto degli ansiolitici. Non è questione di peggioramento, di caduta, di decadenza: Esiodo, oggi, va riletto con tremenda nudità di sguardo. Manzoni dice che l’indignazione presuppone un sistema. Già Nietzsche, parlando di svalutazione, è infinitamente equivocabile: non è, come ha sostenuto con argomenti perfetti Heidegger, l’estrema efflorescenza del pensiero del valore che è la manifestazione dello spirito occidentale, dello spirito della tecnica? Ma allora, se non è decadenza e non è svalutazione dei valori, quid est? Se, in profondo, non è nemmeno dolore – perché il dolore in questo caso è sentire il nulla (ricordi Elena Bono?), ed è quindi interno, intimo al nulla, pur rappresentando sicuramente uno dei pochi resti di nobiltà e libertà che il nulla non può non concedere –, se non è nemmeno, addirittura, un’avventura dello spirito e della conoscenza – non solo, almeno, e questa eccedenza è legata all’impossibilità di scindere spirito e cultura, cielo e terra –, vuol forse dire che il niente non lascia niente, o piuttosto che il suo lasciare comunque qualcosa è il segno di tempi di nascondimento quasi perfetto, di catacombe dell’anima e dello spirito in cui l’antica dotta ignoranza della fede è sostituita da un’oscurità nuova di tipo puramente messianico?

Un saluto e un abbraccio. Posso dirti addio (a-Dio)?

Prosopon


Non ho ancora tue immagini,
tranne il fumo negli occhi delle foto.
Giustizia dello sguardo, acerbità
del cuore. Tu sei,
e non ti vedo. Come
si somiglia l’amicizia
con gli appena morti, gli appena nati:
pensi nei miei pensieri, scalci
nelle mie gambe. Il mio lamento
è la tua voce.
Per questo non ti comprendo
e ti amo, figlio mio.
L’indegnità che mi stringe
alla tua aurora perfetta
già fonde nel buio
un’altra concezione, una nascita
di condivisa fragilità,
di indivisibile luce.

martedì 18 maggio 2010

Trittico baroniese: Pochi minuti a Galtellì


Quest’anno l’annuncio dal suo esilio lunghissimo
s’è accostato a Maria nel giorno della Croce.
Il sole misura la memoria come il centro
si getta sui punti del circolo, mentre
soffre la luna ondeggiando variamente,
in un principio di danza.

Muoversi dalla cima va bene, mi sembra,
per scorrere un paese che fu edificato
dal fluire continuo, avanti e indietro,
dei gosos sul suo Cristo, come il mondo
per i sapienti dalle ordinate maree
del canto divino. Ma una volta sfiorato
il suo cuore esultante su dal denso
riflusso dei viottoli, l’ascesa
difficile e bianca di Garteddi,
la sua tensione, la misura il sole,
oltre il grido del monte, più libero ancora,
il sole chiavellato che spicciava
dallo spessore della sua attesa
un sudore di sangue come il fardello del silenzio
da cui si getta alla mèta la corsa del canto.
Dunque, Galtelli è tirata su dal canto
e dal sangue, anche stavolta – dunque
è un miracolo.


NOTE:

Nel paese di Galtellì (in sardo Garteddi) c’è un Crocifisso ligneo (su Santu Cristos) che fra il 1612 e il 1667 ha sudato sangue. La devozione popolare, ancor oggi vivissima, gli ha dedicato stupendi gosos (laude) nella lingua della Baronia, che ha la robusta ed affettiva precisione delle lingue volgari medievali.

Nel 2005, anno in cui fu scritta la poesia, il Venerdì Santo è caduto il 25 di Marzo.

lunedì 17 maggio 2010

Trittico baroniese: Irgoli


Secondo il vento questo luogo
appartiene alla lode e al dolore,
persino più ricchi della fatica,
della dignità, della polifonia.
Io non ho un’opinione. La lingua che ascolto
è certa, fu creata per le feste,
per lunghe marce a santuari e fonti,
prende con generosità le impressioni, che indugiano,
del lentisco, del tufo, dei limoni,
dei fichidindia, del monte, le mette a sedere
su una pietra fantastica, dove conversare
è scomodo, e bello guardarsi attorno.
Quello che appena sembrava
luce di limone, coraggioso profilo
montano, promessa di deserto
nella bruciata delicatezza
di molte forme, è declinato adesso
nel suo verbo natale con musica attenta,
si accampa interamente come faccia
e corpo del paese, come la sua
lietamente infantile architettura
di case e chiese basse, che pure hanno inteso
conservare nel taglio forte ma non crudele degli angoli
il sale di un’intuizione, di un senso maturo e triste,
una solare tristezza di maturità presentita
che amarezza non ferisce e grandezza non acceca.
Secondo il vento delle parole e la lingua del monte
questo luogo è stato fatto per la lode e il dolore.

domenica 16 maggio 2010

Trittico baroniese: Janna e pruna


Qualcuno dalle fenditure
delle rupi si faccia sentire, mi doni
un nome di pietra, o non potrò varcare
con piede di giustizia il temenos rotondo
fino alla celletta essenziale, con ripiani o sedili,
il cui centro (un fuoco sembra, adesso,
soffocato da predoni) doveva apparire vicinissimo
– petrosamente vicino – al meditante,
al sacerdote, al devoto.

Questi fabbri, mercanti, pastori forse erano gelosi,
foggiavano l’immagine circolare del loro segreto
come un volto rovesciato all’interno, le cui finestre
alla visione del tutto siano commessure
delle pietre tagliate simili a lucchetti,
come un corpo che offra lo scheletro
a rivelazione custodendo la luce
della pelle nel naos.

Questi uomini forse avevano un coraggio
umile e furente, di basalto buono,
amavano girare per le acque mostruose
in cerca di contratti e di cose, come altri
popoli dalla maschera fine, dal sorriso tagliente,
eppure guardando il loro istinto templare
segnato in queste ossa appena appena
rivoltate dai tempi, si sospetta
che toccassero il mondo strano, l’ardita
molteplicità, con un più strano, un più
ardito tormento di castità,
un ritegno preistorico, qualcosa di simile
a un nome di pietra ricevuto passando
durante la fuga fra gli anfratti
di queste rupi, fra queste cavità.




NOTE:

Janna e pruna (Porta del pruno) è una località montana della Baronia in cui sta riemergendo lentamente un complesso templare della civiltà nuragica. L’archeologa che veglia con passione sulle rovine ci ha spiegato che, a suo giudizio, i costruttori del tempio, pur coltivando vari ed importanti contatti con gli altri popoli del Mediterraneo antico, hanno deliberatamente conservato una struttura sociale tradizionale, rigorosa e semplice, fondata sulla loro intuizione religiosa del mondo.

sabato 15 maggio 2010

La carne e la parola


Se qualcuno mi chiedesse: “Chi è il tuo Dio?”, dovrei rispondergli: “Il mio Dio è questo”, e dal gesto della mia mano potrebbe capire che solo guardando tutta la mia vita avrebbe un’idea, tra l’altro abbastanza precisa, della mia religione. Ma io posso conoscermi solo nel suo, nel tuo sguardo: e la mia fede è nel movimento lento e irregolare della mia carne, da cui solo il volto di chi mi interroga e provoca può farla sorgere come parola.

Ricordo dello shaykh d’Occidente nelle steppe della Transoxiana


Al lume della tua lanterna
ho seguito i lineamenti
che da sempre disegnano
il volto mio e del mondo.

Nel tuo vetro ho sorpreso
agitarsi le essenze – addensarsi
con fragile e certa lentezza
sulla soglia dei tempi.

All’ombra della tua veste
ho ascoltato le sillabe sparse
d’un nome – il mio, il tuo –
il nome che ci sarà dato
alla nascita nuova e comune.

venerdì 14 maggio 2010

Solo che


Dell’imperfetto film Il sapore della ciliegia, di Abbas Kiarostami, serbo nel cuore con gratitudine un paio di minuti, una piccola scena balsamica, affabile, olio nella barba. Un borghese di Teheran percorre in automobile la periferia della città: sembra un omosessuale in cerca di ragazzi di vita, perché abborda solo giovani maschi poveri a caccia di lavori e lavoretti. Quando finalmente riesce a dare spiegazioni, però, scopriamo che intende suicidarsi (affiora un cruccio segreto nei confronti del figlio) e pagare qualcuno perché lo assista. Dopo i rifiuti diversamente motivati di alcuni ragazzi (spiccano un militare triste e atterrito e uno studente di teologia sentenzioso), la proposta è accettata da un vecchio contadino bellissimo, che ha bisogno di soldi per il figlio malato, ma fino alla fine si sforza di dissuadere l’uomo di città. A un certo punto del suo ingenuo monologo da Platon Karataev iraniano, mentre l’automobile striscia lentissima nell’altopiano semidesertico, il vecchio se ne esce così:
- Lei è turco, signore?
- No.
- Allora posso raccontarle una barzelletta sui turchi, giusto? Bene... Un turco va dal medico e gli fa: Dottore, dottore, mi tocco qua sul petto e sento male, mi tocco qua sulla pancia e sento male, mi tocco qua sulla coscia e sento male, che cos’avrò mai, dottore? E il medico gli dice: Lei non ha proprio niente che non va, solo che il suo dito è rotto! E così è lei, se mi permette, signore. Lei non ha proprio niente che non va, lei è proprio tutto sano: solo che la sua mente è rotta. Per questo sente male dappertutto.
Raramente ho ascoltato parole così apparentemente assurde e così semplicemente vere. Da allora mi ripeto spesso, fingendo di essere sia il silenzioso borghese suicida che il buon contadino loquace: “Lei non ha niente che non va, signore: solo che la sua mente è rotta”. Ma si può entrare nel Regno con la mente rotta, senza prima gettarla via come l’occhio e la mano che scandalizzano?

giovedì 13 maggio 2010

A l’arbergo de la stella (sonetto romanesco)


Er core nun za gnente: figuramose
la boccia. Me pareva, propio ieri,
d’esse infirzato come un luccio a l’amo
senza guasi avè fiato pei penzieri.

Poro tata diceva: «Nun penzamoce,
ce penza la Madonna tra li ceri.
E manco lei ce penza come famo
noantri cazzimatti brutti e neri.

Lei sta fisa a quer legno indove more
gnisempre er Fijo suo, fijetto mio:
e tu sta fiso a quela picchia bella».

Torto o raggione, quanno er zor dolore
vole na stanza pe’ Dominiddio,
l’allocamo a l’arbergo de la stella.


Nota:

Dormì a l’arbergo de la stella vuol dire dormire all’aperto, all’addiaccio, sotto le stelle, senza un tetto sulla testa. Ma qui c’è anche un’allusione alla stella cui il padre del parlante raccomandava di orientare lo sguardo.

All’anima


Anima mia, non mia, mi vedi
stamattina, stanotte, mi senti
con le tue orecchie di labirinto, con la tua pelle di vento,
mi sfiori, oggi, coi tuoi nervi
di luce lunare, ci sei, anima?
Sorella silenziosa e turbata, sorella
di canto e prossimità
aguzza, ciarliera, indocile,
sorella di fragilità semiceleste,
dimmi qualcosa col tuo volto appena
rilevato dall’angolo del mondo
che mi è chiuso davanti e aperto dentro.
Sei tu l’icona forte e fuggitiva
dell’angoscia che sono: quello strano,
familiare smarrirmi sul sentiero
di tutti i giorni, quel polveroso
e sorprendente sconoscermi
in tutti i volti fiorenti sul tuo.
Anima non mia, mai mia, consolami
apparendo, sparendo: persevera,
ti prego, nel non educarmi. Io
sono io, cioè non sono: tu sei
negazione fiorente, regalo
di sorpresa e di angoscia in tutti i volti.
Amami come sai, mia fuggitiva,
non mia fortezza: sfiorami
oltre la pelle tiepida e dolcissima
dell’orizzonte, in un cielo di pietra.
Toccami nella semitenebra
semiceleste del tuo transito, alitami
me stesso, senza prendermi.
Rispondimi domani, non spiegarmi
nulla: lo sai, anima,
meglio di me, che il mondo spiegato
è un mondo senza pelle d’orizzonte,
un mondo squartato sopra il tavolo
in cui solo chi morto si vuol vivo
vorrebbe vivere. Lasciami
senza mollarmi, come le peggiori
amanti, come gli amici più deboli
e immortali. Stamattina
e stanotte siimi lampada
di verità immortali e deboli,
siimi ancora ostinatamente
anima mia non mia.

mercoledì 12 maggio 2010

Breve commento ad alcuni versi del Canto notturno di Leopardi


“Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?”

A fatica: lo ‛etzev della maledizione di Eva (partorirai be-etzev, faticosamente, laboriosamente) – la vita perde la spontaneità/facilità angelico-divina, la caduta nel tempo è sforzo, frizione tra i contrari, lotta del daimon sulla frontiera dell’oblio. La nascita, la natura-nascitura emerge ora come rischio di morte, nascita alla morte. Il primo sentimento del mondo è “pena e tormento”: è sentimento del vuoto-caduta, del nulla. La prima risposta d’amore dei genitori, officianti il rito della nascita, è consolarci d’esser nati. Consolazione ricca di senso, se e perché padre e madre partecipano alla nascita-morte del figlio. Il “fare core” al nuovo uomo è proprio da intendersi come uno sforzo (“studiasi”) di coltivare il cuore-coraggio del figlio-fratello, il sentimento coraggioso come apprezzamento dell’iniziazione mondana, del destino mortale-immortale.
Qui è il punto. La domanda del pastore-poeta è la stessa del neonato, del bambino: il pianto furibondo dell’infante è lamento inconsolabile, il lamento di Rachele in Rama; nella sua profondità carnale e immaginale è il fulcro dell’iniziazione. La domanda del poeta e del neonato è: perché l’iniziazione? Ma il perché dell’iniziazione – è l’iniziazione. Il mondo non è necessario, e nemmeno casuale. Non è che non ci sia risposta, o che la risposta coincida con la domanda: il farsi della risposta è nell’oscurità della domanda, perché il mondo è continuamente creato, continuamente fatto – oppure, detto non o meno abramicamente, è manifestazione, gioco, scaturisce, fiorisce, ostende sé. Noi rispondiamo a questa domanda domandandola come rito, gesto, destino – tragedia. Pathei mathos: apprendimento nel patimento, nell’esser-mutati. Leopardi, moderno, resta al di qua della soglia oscura e petrosa: ma il pastore-poeta officia proprio quel rito, portando la parola-canto e la parola-pensiero quasi al massimo possibile di tensione e sottile-straziante paradosso. Più parla chiaro e razionale, più arde notturna la fiamma sonora della profonda, della dolorosa/giubilante archè.

Dopo aver assistito a danze popolari sarde


Filosofia dionisiaca della danza: tutto è incarnato nel corpo e nel gesto, il pensiero è l’aura, l’aurora intellettuale dell’immagine in atto, operante come rito nello spazio della festa. La vita nel tempo, il serpente dell’albero della conoscenza, ci ha morsi, ha indotto il nostro corpo spirituale ad agitarsi: il suo chiaro ritmo edenico, il suo tonos animale e angelico, è in tutti i sensi scordato, perturbato. La saggezza del destino ci suggerisce di mimare il passo della morte e dell’inquietudine ad un ritmo diverso, mediatore, ipocrita e sapido: il tarantolato non può riavere la salute piatta e inconsapevole che ha (forse) preceduto il morso, deve ballare il ballo del suo daimon accompagnandone la furia morbosa nella luce carnale di un logos comune e personale – il suo passo, il suo stile, sulla pista e sulla piazza della comunità, dell’universo.

sabato 8 maggio 2010

Diario sardo 1-7 maggio 2010


Le mani dei neonati disegnano spontaneamente gesti romanici.


* * *


Solitudine spirituale: "io e Dio". L'io-daimon incontra prove, occasioni, immagini. Di solito la fantasmagoria iniziatica acquista lo spessore della corporeità spirituale quando iniziamo ad accorgerci che ogni altro uomo è nella nostra stessa situazione. Ma il riconoscimento avviene nell'ignoranza e nel timore: appena l'altro mi si rivela prossimo è più che mai distante, e tuttavia senza la sua inesauribile presenza-assenza io non sarei io - io non sarei. In questo mistero cogliamo la gloria di Dio, lo spirito che trafigge, intride e incorona la carne.


* * *


Come noi trattiamo i nostri infanti, così gli angeli trattano noi. Anche al culmine della lucidità noi siamo neonati avvinti al fantasma del presente: c'è in questo il segreto della nostra incomparabile iniziazione.


* * *


Ogni tanto rileggo il Canto notturno di Leopardi: immancabilmente ne assaporo l'esattezza, ma l'orecchio interiore coglie sempre di più le ricche risonanze orfiche inavvertite nelle letture giovanili, poco educate alle sinuose ironie dei Canti - e del canto come tentativo di riaccostarsi, articolandolo nella caduta, al suono lucente dell'origine.

L'uomo arcaico lascia volare le scintille delle domande terribili e supreme sul fuoco di bivacco di un'accettazione dolce e radicale. Leopardi lo sapeva, ma ha identificato il potere disincarnante, apocalittico, della ragione moderna, "cristiana", con la ragione tout-court: in lui il filosofo tendeva a partorire universali dal volto di Medusa che torturavano, senza paralizzarlo, il cuore orfico del poeta. I Titani l'avevano strappato al corpo del puer Zagreus ormai da secoli - da sempre - smembrato.


* * *


Il samaritano aveva tutto da perdere, quindi non aveva nulla da perdere. Dopo tanti umanesimi variamente e infallibilmente tiepidi, il "va' e anche tu fa' lo stesso" come andrebbe letto? Chi è il mio giudeo disteso mezzo morto sul ciglio della strada per Gerico? Forse oggi siamo più fedeli allo scandalo glorificante del Nazareno chinandoci a vedere il non umano ridotto in fin di vita dai predoni della techne, dai Titani troppo umani che lacerano il puer dionisiaco divinamente dimentico di sé nel ciuffo d'erba, nella lucertola, nel minerale forzato a portare come un marchio il sigillo del Cesare raziocinante del creato?


* * *


Eppure, anche oggi, il samaritano e il giudeo possono essere, sono, devono essere - uomo e uomo... Chi è quell'uomo là, trattato come un pollo d'allevamento, come un mucchietto d'uranio, come l'aria e l'acqua? Mio Dio, sei tu, sono io... E per sfiorarti ho dovuto circumnavigare l'intero globo dei viventi, di cui sei il sanguinoso compendio. Se non t'avessi preso per uno scarafaggio, se non avessi visto prima in te lo scarafaggio e la margherita, t'avrei incontrato non nella tua nuda carne ferita, orientata al Regno come il buco dell'abside - ma guantato di universali, rivestito dal preservativo dell'etica astratta, dallo spirito vischioso del secolo... Eccolo qui, il viaggio: non una scommessa, ma l'antico pellegrinaggio nei cieli e negli steli delle margherite.

giovedì 6 maggio 2010

Conversazione nella periferia romana


Ma dimmi, amico, quando
la giovinezza è caduta
dalla malinconia veggente del poeta,
dai suoi solchi di luce notturna,
quando ne è stato fatto
un ceto, un universale
post rem, una classe
di uomini incerti e vigorosi
per succhiargli il vigore e manovrarne
- ipnotizzata bene - l'incertezza?

Questo pensavo tra una tappa
di deserto e l'altra
della via Casilina,
periferia d'un centro mai stato
perché la città - ricordi, amico? -
è l'invenzione con cui Caino
cercò di mitigare l'espiazione, di differire l'incontro
- maledetti dell'Eden, unitevi -
e in uno stridore concorde
di manette mentali ben oliate,
o male, dove lo punto
il compasso, e quale raggio dovrei mai
determinare, se il cerchio
è figura di quiete fremente, di ricolma esattezza?

Li vedo, come li vedi tu, i giovani
che forse fummo, e che morendo
saremo, forse, li vedi come cercano
di consistere con quello che hanno
- gadgets, smorfie, eroi sempre più irridenti
la loro fame non più puerile (non c'è
età più violentemente, ingordamente ascetica
della giovinezza) la loro fame
giovanile ed eterna
di bellezza, la mortale, la giusta
bellezza di un destino comune,
il mio, il tuo, il destino
solitario e comune cui ci chiama
anche e soprattutto questo cielo?

Le tue torri, Roma
mia, Roma tua, non difendono
con le loro ossa tutte uguali
ma stigmatizzate da arcana,
secca, inaudita scrittura
là dov'era il midollo, non possono
difendere nemmeno una pecorella, un'anima
variamente smarrite, un filo
d'erba, un gatto, dalla smorfia
di Medusa del nostro evo: non fanno
che cingere un bivacco di immagini
sempre più pallide, un bivacco
di giovinezza sempre più orba.


Neanch'io ti vedo, luna, sebbene
al limitare estremo della mia giovinezza
e con un occhio tagliato nel cuore
dal sapermi nomade: eppure ti penso,
non indifferente né salvifica,
non onnisciente, non
galileiana né armstronghiana, ti penso
come un animale o un sasso, luna,
come farebbe una strada qualunque
della Roma mia e tua
che non vuol sopravvivere davvero
ma stare e consumarsi alla tua luce
e alla tua ombra dolci sul massacro.