Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 30 settembre 2013

MALINCONIA DEL POETA T’SEN CHI NEL QUARTIERE DEI PIACERI



“Stai guardando la luna?”, mi chiede la figlia
della casa verde, allacciata al mio fianco,
con la grazia attenta di una regina che indaga.
“Certo”, le rispondo, e quel che intendo dire
è sì, guardo la luna, guardo colei
di cui non si può parlare, che non è qui,
la guardo in te, nella luna, nel vino,
riflessa nelle più labili, nelle più preziose
delle diecimila creature, la guardo
perché ci si stanca, a volte, della perfezione,
della virtù confuciana, del buio e dei profumi.

sabato 28 settembre 2013

Qualche riflessione sul presente


La stessa concezione diffonde i suoi raggi su vari fenomeni contemporanei.
I ‘femminicidi’ (definizione ideologica che maschera la reale crescita di omicidi di donne da parte dei loro compagni in seguito al fallimento della relazione) testimoniano la difficoltà della psiche maschile (da non identificare letteralisticamente con la psiche dei maschi) a reggere l’incertezza dei rapporti d’amore e coniugali, a loro volta confusi in un groviglio difficile da districare. La ‘psiche maschile’ investe molto sulla sicurezza del rapporto, posto al riparo di un logos, di una promessa: è un atteggiamento proprietario che soffoca la libertà dell’amore, ma è anche l’ombra invigliacchita – privata cioè della sua immaginazione militante – dell’antica idea di voto. O è un contratto, in cui si giura, o è cristianamente un voto, in cui ci si abbandona a Dio: in entrambi i casi il tradimento è percepito come una diserzione, una lacerazione dell’unità. Oggi si sente il vincolo nuziale o semplicemente di coppia (già questa è una confusione significativa) come un ‘contratto libero’: ma la libertà dell’amore è un ideale assai elevato, che non può essere letteralizzato nei rapporti quotidiani, dove diventa semmai il disorientamento di legami privi di struttura.
Qualcosa di analogo è accaduto nell’economia, nel lavoro: lo stesso subdolo invito all’“avventura”. La vita è rischio, amici miei! Sì, ma la vita associata è appunto un esperimento per contenere quell’angoscia radicale, pungolo di ogni cerca romantica ma anche veleno di ogni miseria. Dire oggi che ‘il lavoro non è un diritto’ è un altro trucco, un po’ meno abile perché ancor meno digeribile (non sferza, flagella): il lavoro non è forse un diritto, ma la sussistenza lo è, e poiché nelle società avanzate contemporanee non c’è che il lavoro per ottenere la sussistenza (l’alternativa è una miseria men che servile, o una rivoluzione interiore da esseni, da stoici), il lavoro dev’essere considerato un diritto.
A scuola si consegnano ai ragazzi fossili impolverati e chiacchiere post-moderne, ovvero vecchiume innocuo e nociva ideologia senza bussola: quando sono ridotti alla perfetta viltà, al vittimismo, all’impotenza rancorosa, si dice loro con un sorriso orribilmente sussiegoso: “Beh, cosa credevate? La vita è rischio. Nel mondo del lavoro dovete vedervela con i cinesi e gli indiani, che faticano quindici ore al giorno e percepiscono un decimo dello stipendio dei vostri padri viziati. Datevi da fare, adattatevi o inventatevi qualcosa etc.”.
I legami d’amore fanno parte della comunità, anzi la costruiscono. Solo in un’epoca come la nostra si può credere che siano una zona franca, neutrale: retaggio di un cattivo romanticismo e di un asservimento delle coscienze sempre più capillare – la solita alleanza moderna tra sentimentalismo e oppressione. Si cresce con l’idea che l’amore sia il cuore pulsante dell’esistenza, e la si trova quasi sempre congiunta alla centralità del matrimonio e della famiglia: poi, si sa, la vita è rischio, e un matrimonio può crollare per motivi meno gravi che in passato, e virtualmente ad ogni istante; non solo, si è così imbevuti di quella bizzarra filosofia del piacere e dell’eternità – un piacere fasullo e un’eternità fasulla – in cui si mescola l’incantesimo dell’era consumistica con l’idea, intimamente connessa, del sentimentalismo come lubrificante della macchina, che questa intossicante contraddizione non regge alle reali antinomie del reale sentimento, quella funzione razionale di cui Jung conosceva lo spessore culturale.
Come sempre, i crimini di un’epoca sono il sogno collettivo di un’epoca: lo dice l’Ulrich di Musil a proposito dell’assassino di prostitute Moosbrugger. Non saper riconoscere questo sogno è un male antico come l’uomo: oggi, senza più alcuna cultura cresciuta dalla terra dell’uomo (ogni ‘cultura’ è  sostituita dal rifornimento di merci e di servizi), l’impossibilità di trovare rituali comuni, immagini del mondo comuni, sembra portare obbligatoriamente alla richiesta di una maggiore erogazione di sicurezza da parte delle agenzie preposte. L’assenza di sicurezza interiore costringe a chiedere un airbag sempre più sicuro, una rete di protezione sempre più fitta. Si dimentica persino l’ovvio, che ogni ulteriore legge e provvedimento e tecnica sociale e giuridica non può non recare con sé un’ulteriore contrazione degli spazi di libertà. La coppia, la diade, ha bisogno di aria, dunque, per curarne i veleni, si simula un’emergenza e si affretta la messa a punto di ‘gabbie’ che tolgono la poca aria rimasta – come l’impossibilità di ritirare una denuncia in caso di violenze. Poiché non esiste più una famiglia per proteggere da abusi come la persecuzione e le minacce, si danno più poteri all’antico avversario e giudice della famiglia, lo Stato (che in molti casi, beninteso, ha il diritto di interferire e giudicare, ma dopo aver compiuto tutti i riti sacri e le ragionevoli inquisizioni sulla soglia della casa).
Non diversamente: cresciamo con un’idea sempre più scolorita di appartenenza nazionale, ma sappiamo benissimo di non avere, di non essere più le antiche patrie e le più recenti nazioni. Lo sradicamento rende fragili e violenti, come uomini abbandonati dalle donne (o che tali si percepiscono). Anche il cosmopolitismo è un grande ideale filosofico che, letteralizzato, si fa distruttore di forme e di limiti. Se non devo combattere per le mie patrie (non ne abbiamo, non ne avevamo mai una sola), perché devo combattere per il focolare? Se l’ideale proposto a tutti è quello del ricco pirata che ha quattro passaporti, case in tutti i paesi del mondo e soldi in tutte le casse, a quale ideale finirà per conformarsi la vita affettiva? Qui resistono presso il popolo, gli ex-poveri, oggi avviati a una nuova miseria da candala, antichi pregiudizi favorevoli alla convivialità, al calore domestico, alla costruzione di una famiglia come opera di una vita: ma senza la consapevolezza militante che si tratta di ideali minacciati, anzi, con il dubbio persistente (instillato dall’atmosfera collettiva) che in fondo si possa fare, volendolo, tutto o un po’ di tutto (lo slogan del supermercato), non si può né resistere alla dissoluzione né nuotarvi dentro. Si viene comicamente smembrati, come accade sempre a chi non è o insediato nell’élite potente di un’epoca o nutrito dallo spirito sempiterno delle consuetudini.

Occorre distinguere tra la sicurezza di una casa, che uno si costruisce da sé, e la sicurezza del rifornimento costante di merci e servizi, che soffoca ogni autentico spirito civico e ogni freschezza morale superstite. Anche se esistono i benefici iniziatici dei rischi e della miseria, una comunità deve lasciare che ciascuno abbia la sua ousia, la proprietà che lo pone al riparo dalle fluttuazioni avverse e gli dà agili fondamenta per l’opera di una vita. Il nesso tra proprietà e matrimonio non dev’essere visto solo alla luce della – giusta – critica anticapitalista, socialista e romantica. Esiste certo anche un fermento dionisiaco che punta al di là del matrimonio e della polis recintata, ma negli ultimi decenni si è proceduto piuttosto a normalizzare e normare le spinte dissolutrici-rivoluzionarie e a rendere dissolvente la normalità: una condizione che non dovrebbe essere durevole, anche se non ci si può giurare.

Secondo uno studioso, Penso de la Vega vedeva nel nascente capitalismo finanziario (primo crack della borsa nell’Olanda del XVII secolo, piena di profughi ebrei) qualcosa della dialettica sabbatiana: il messia scende tra le qelippot per redimerle, lo speculatore si inabissa nell’irrealtà tormentosa del gioco finanziario per trarre ricchezza dal nulla. Vi è un’alchimia tenebrosa in questa intuizione, che si nutre di echi gnostici ed ermetici. La maledizione religiosa dell’usura non è mai stata veramente efficace: la dissoluzione dell’Ordine viene sentita come l’opportunità di scatenare gli egoismi individuali alla ricerca del bene comune, albeggia l’idea liberale-liberista. Già Davanzati parla biblicamente di ‘apertura degli occhi’ a proposito della rivoluzione dei cambi: si svela l’illusionismo del denaro, aspetto di quell’illusionismo occidentale-rinascimentale individuato da Florenskij. Hoelderlin dice che la dissoluzione del reale fa emergere il possibile, e il possibile viene colto come sogno, fermentazione di immagini escluse dal gioco del quotidiano, dal proscenio illuminato dei principi condivisi. L’homo oeconomicus sorge anzitutto come individuo isolato dalla comunità, liberato dai vincoli tradizionali, dalle consuetudini sentite come opache, passivamente accettate. La religione non è più il contenitore (in tutti i sensi) dell’angoscia, che ora diviene disponibile per inedite creazioni politiche, sociali, culturali: secondo Benjamin il capitalismo è una religione inconscia, che invece di promettere espiazione moltiplica l’angoscia della colpa-indebitamento attraverso una struttura di totale opacità, un ritualismo ossessivo che si nega per principio alla visione in trasparenza di una consapevolezza distinta da esso. In questo senso, l’aggettivo totalitario gli spetta kat’exochèn (intuizione di Pasolini sul rapporto tra fascismo-fascismi e neocapitalismo consumistico). Le varie crisi sono state apocalissi abortite: non è ancora giunto il suo autunno, nel senso dell’autunno del Medioevo indicato da Huizinga. Come molte religioni, potrebbe sopravvivere svuotato, inefficace: ma il suo statuto di religione solo-cultuale glielo consentirà? Non avendo teologia, come potrebbe resistere all’abbandono dei suoi riti, alla rovina dei suoi templi ed altari? A meno che la sua teologia non sia tutta l’ideologia del moderno, come sembra piuttosto probabile, nonostante non vi sia perfetta coincidenza – e d’altronde non c’è mai. In questa crisi non si sente appunto aria di krisis, di revolutio, perché ciò presuppone l’ermergere, insieme alla dissoluzione del vecchio e ad essa confuso, di una nuova forma mentis, una nuova griglia epistemologica congiunta ad un sentire finalizzato e non smarrito.
 
Illich: oggi tendiamo a confondere genere e sesso. Il genere è una creazione culturale e postula una complementarità, il sesso è la differenza naturale di un’unica specie, concepita astrattamente come ‘umanità’, e tendente a identificarsi con l’homo oeconomicus. La discriminazione è possibile solo con la divisione sessuale, in cui c’è competizione e dualità proprio a causa dell’assenza di qualità dell’umano. Il male proprio del genere è la confusione tra simboli e individui: inoltre la lettura della diade è viziata dalla preponderanza ‘essoterica’ del maschile, l’elemento ‘apollineo’, ‘paterno’. Il potere, il dare la morte, la differenziazione sociale sono dalla parte del maschile: il femminile viene ridotto a ricettacolo, parallelamente alla perdita di sostanza mistica della venerazione per la Terra, gli vengono imposti la continuità della tradizione (la generazione della prole e la sua prima educazione, la ‘lingua materna’ della cultura, l’oralità), la custodia sacerdotale della vita e della integrità (Chesterton), sempre a rischio di ‘santificazione’ e dunque di separazione dalla zoè divina vera e propria. Leggendo Hillman e Zolla si può presagire che, alla fine dell’era del sesso, dopo il tempo dell’Operaio e quello del Candala, stia emergendo come possibilità non l’umano senza qualità brutalmente/sentimentalmente sessuato, ma l’androginia dionisiaca, il rimescolamento di sessi e generi. Tema del genere e del trans-genere: si tende a superare proprio il genere come costruzione culturale, ma la direzione del movimento sembra oscillare tra il carnevale del Gay Pride e le rivendicazioni di un diritto alla normalità e alla norma. Più liminari, borderline, le riflessioni sull’intersessualità: mostra, proprio perché mostruosa, che la divisione sessuale non è meno artificiale o comunque dubbia e incerta della distinzione tra i generi. Nella favoletta di Fedro Prometeo foggia i sessi separatamente dai corpi degli uomini (sexus, da secare): poi viene invitato da Dioniso, si ubriaca e alcuni li attacca in modo erroneo, creando così gli invertiti, tribades e molles mares, lesbiche ed effeminati. Dietro il dileggio del maschio romano c’è l’antica idea di un Dioniso androgino, molle, signore delle donne, dissolutore dell’ordine politico chiuso. Questa ebbrezza del demiurgo si traduce nelle nostre vertigini, nel fascino e nella ripugnanza che suscitano in noi gli stati intersessuali ancor più che la donna-uomo (con il pene ovvero dotata di un clitoride ipertrofico) e l’uomo-donna (con un culo-vagina), scherzacci perpetui da caserma. D’altronde si tratta di scherzacci che il nostro tempo ha trasformato in realtà politiche e sociali: l’uomo-donna è l’isterico delle masse fasciste e comuniste e il passivo cinedo del potere pubblicitario, in entrambi i casi un vile senza spirito civico, un lussurioso inerte, così come la donna-uomo è quella gettata nella competizione economica in uno stato di permanente inferiorità, alla ricerca del solito potere fragile – ma, come osserva Chesterton, appunto senza più la consapevolezza che non c’è potere senza la facoltà di dare la morte, di partecipare alla sedizione collettiva. L’unione sessuale e oltre i generi dell’uno e dell’altro mostriciattolo ha per risultato la fittizia e realmente impotente democrazia del nostro evo. L’esplosione dei generi non ha ancora traghettato l’uomo al di là del sesso e dunque del taglio originario: la rivoluzione dell’androginia andrebbe nella direzione di una maggiore completezza e fluidità, di cui per ora si rilevano solo cenni grottescamente parodistici.
Certo è vero, come dicono i critici queer, che il genere è una costruzione culturale: tuttavia è indubbiamente legata, in modo confuso, alla constatazione della differenza sessuale. Si può dire che il genere è costruito sul sesso, ma anche, secondo il filosofico linguaggio antico, che la differenza sessuale è la manifestazione, nella materia, della diade simbolica, eternamente intrecciata sul caduceo. Gli stati intersessuali o le inclinazioni erotico-sessuali contrarie al sesso apparente della nascita sono, come ogni eccezione all’interno di un ordine fluttuante fra simbolo e carne, gli ‘anelli deboli’ che fanno accedere a una superiore unità, come le deformità e le malattie iniziatiche, come la malinconica, pessima tra le complessioni naturali e dunque possibile via al soprannaturale, come l’essere – culturalmente e individualmente – senza qualità o proprietà di Ulrich è il punto di partenza della sua trasfigurazione in mistico, ‘senza proprietà’ nel senso dei renani.

‘Femminicidio’. Il maschile di oggi ha il pene fragile dell’impotenza, in ogni senso possibile. Il legame d’amore più incerto lo fa sentire castrato, e dalla ferita sgorga un sangue psichico che si traduce nel versamento del sangue femminile. Nella coppia divina la Dea divora il pene del dio-fratello e lo sostituisce con un pene di fango o di cera, molle, un linga-sarira, un corpo di sogno. Un tempo l’uomo accettava semiconsciamente questa operazione umiliante diventando il fuco della casa, il pesce fuor d’acqua, in cerca di cameratismo e avventure erotiche all’esterno. Oggi quel sangue non trova nessun contenitore, e nella psiche maschile, violenta per debolezza, il dolore non accolto diventa aggressività (in quella femminile tende a diventare sadismo o masochismo bianco, il veleno da fattucchiera che scorre nelle tragicommedie della narrazione popolare sul matrimonio).
Non ci si può limitare a reprimere i bruti – magari cercando, quando capita, di educarli a un astratto ‘rispetto’ – e ad insegnare alle donne le pur necessarie arti della difesa, ovvero un po’ di egoismo sano e saggio. Questa è una misura davvero troppo condizionata dalla sensazione, provocata a bella posta, dell’”emergenza sociale”. Se stesse davvero a cuore la verità, ovvero che si tratta semmai della nuova versione di un vecchio dramma culturale, si proverebbe a ripensare la coppia invece di lasciarla alle correnti di un mutamento rapinoso. Ma il sentimentalismo crudo è un’arma troppo preziosa per le forze sottili che hanno interesse a mantenere ed eventualmente peggiorare lo stato di impotenza e dunque di servitù dell’anima occidentale contemporanea. Il vecchio recinto del matrimonio era ormai diventato appunto solo un recinto, ma un recinto non è poco, specialmente quando il desiderio di uscirne all’impazzata viene deformato dalle interpretazioni mendaci e dagli interessi profondi, il più delle volte inconsci ai singoli, di un sacerdozio commerciale senza volto. (Anche qui Pasolini era un buon conservatore. Pochissimi sono stati, sempre, i rivoluzionari lucidi, o sarebbe piuttosto il caso di dire gli sperimentatori dell’immaginazione).
Capire non ideologicamente che i criminali sono sempre le teste su cui si addensa il male dell’epoca è l’impresa che riesce solo ai pensatori autentici, in cui l’indifferenza anarchica si congiunge a una compassione non sentimentale. Chi giudica è sempre già giudicato, per il fatto stesso di giudicare. Come rendere palpabile questa intuizione religiosa in un tribunale desacralizzato (ma anche sacro, il più delle volte), in una comunità che non sente i filamenti vivi della conjuratio? Ma è difficile e quasi impossibile in ogni tempo. In un certo senso la punizione è un privilegio: si vuol far comprendere al criminale che è stato vocato, che è un essere libero ovvero liberabile. Ma lo si getta in un purgatorio troppo simile all’inferno, non tanto per le condizioni esteriori quanto per il gran movimento ubriacante della massa di linciatori che si stringe intorno a lui. Gli si offre un percorso iniziatico ricoperto da mille veli pesanti, da maschere fuorvianti. D’altronde lui stesso ha imposto alla comunità lo stesso micidiale koan: come vendicarsi di lui, e poi che senso ha vendicarsi? Viviamo sempre nel gran teatro dei simboli, i nostri corpi vengono afferrati da spiriti fluttuanti e famelici, torturati da idee invisibili, soffocati da aure insensibili. Ogni evento che emerga dalla mediocre angoscia del quotidiano ci invita al risveglio, con la brutalità e l’ironia di un maestro selvaggio.



giovedì 26 settembre 2013

Nec satiare queunt spectando



Quando mi innamorai di Lucrezia, l’unica figlia di Quinto Lucrezio Varo, avevo diciannove anni. Ora, come sapete, ne ho ottantaquattro. Molti mi hanno detto o sussurrato, nella mia lunga vita, velando goffamente un sorriso: “Che prodigiosa costanza nell’amore, la tua!”. Beh, perdonatemi se la vecchiaia mi rende irritabile (da giovane ero mite, cedevole, distratto), ma che vadano tutti in croce, quei bastardi pettegoli, se non ci sono già andati. Lo so, so che il mio amore è contrario ad ogni legge divina ed umana: del resto, io mi sono allontanato dagli uomini, e gli dei si sono allontanati da me, quindi l’esito non poteva che essere lo scherno silenzioso, l’altezza indecorosa della solitudine. Non ho molto da dire, su quell’amore `prodigioso`, se non che per me è il segno dell’unghia del destino sulla mollezza delle carni: una lama di luce, un abisso di povertà. Io, Mamerco Collatino, ex legato imperiale, ex amico intimo di due Principi, ex mercante dalle mani vilmente pulite, ex tutto, ricevo di quando in quando la visita della sua ombra, di Lucrezia intendo, quasi sempre in sogno, com’è ovvio: e mi dice cose strane e belle, che vorrei ricordare, ma non ricordo. Quando entrerò anch’io tra le ombre, forse non la riconoscerò, o forse la vedrò per la prima volta, se ancora avrò occhi dopo le lacrime e la presbiopia naturale, essenziale, profetica dei miei ultimi anni: quando comporranno le mie spoglie, la luce e la povertà mi sopravviveranno, e andranno a fecondare altri giardini furtivi, andranno a tracciare un pomerio di assenza, a fondare un impero di solitudine in altri diciannovenni miti e distratti.

Dopo la mia delirante passione per Lucy Dawson, ragazzo, decisi che non sarei mai più ‘caduto nell’amore’, come diciamo nella nostra lingua fine e sensibile. “L’amore non è una trappola, Bill (mi chiamo William Archer-Boyd), è un pellegrinaggio tra i fiori e le rovine. La trappola siamo noi”. Queste sono le parole che mi rivolse, tra un whisky e l’altro, un caro vecchio amico che non è più tra i vivi, Lawrence Wadsworth, di Brighton. Me le ero dimenticate: mi sono tornate alla mente adesso, mentre cercavo di parlarle di quelle lontane angosce seguendo le spire maliziose del mio sigaro. Credo avesse ragione, ma d’altro canto, se la trappola sono io, cosa cambia? Ovviamente non riuscii a tenermi troppo distante da tagliole e crepacci, ma cercai di gettare ogni fiore nel fuoco notturno della mia gioia, e di dormire sotto ogni rovina con la concentrazione del pellegrino e la molle noncuranza del gitante. Avevo una trentina d’anni quando mi diedero quel posto nella capitale: mi tuffai nel mondo nudo come un selvaggio, ma ero refrattario ad ogni colpo. Mi sposai, misi su famiglia, feci un po’ di carriera. Che tristezza, eh? Macché, ero un sole di esultanza, un poeta appeso a un filo d’erba su un abisso di colori e di perfezioni. L’amore, mi dicevo, immiserisce: come la profezia e la maternità, avvince ad una zolla, rende qualsiasi veggente una talpa. Solo una volta il vecchio Lawrence mi chiese come facessi a sposare il mio cinismo con uno stile interore così raggiante, spezzato, ferito di gratitudine e canoro come una certezza spogliata di appoggi. Gli risposi, con un sorriso che non ebbi e non avrò più, che non ero cinico, ma – giocando con le radici greche, come facevamo da ragazzi, a scuola – un vero e proprio cane vivo, da cui non uscirà, come dal leone morto, miele di consumata attenzione, di lenta e accalorata dedizione, ma solo il puzzo della morte terrestre e l’aria soave della libertà spregiata, quella che non si vergogna di temere il bastone, quella che corre dietro alle ombre e ai riflessi con rabbia severa e giocosa, quella che attende qualche briciola e qualche osso con una sorta di divina derelizione nel sangue. Non so se mi capisce, caro ragazzo. Veramente, non mi capisco neanch’io: forse nemmeno allora. Va bene, il sigaro è finito. La prego di prepararmi il letto: non sono un grande spettacolo, quando gli acciacchi dell’età mi chiamano a udienza da Sua Maestà il corpo.

mercoledì 25 settembre 2013

Minima aequinoctialia





Si dice: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, ma non sa quel che trova”. Naturalmente lo stesso vale per chi fa l’apparente contrario: chi si attiene al consueto sa quel che lascia – ovvero il nuovo, l’ignoto – e non sa quel che trova, perché l’abitudine è la foresta degli enigmi, il cancello sbarrato del mistero, il muro della città perduta.

Modesta proposta per reintrodurre un po’ di pensiero e pratica della magia nelle nostre tele ragne di differimenti illimitati e spettrali: sperimentare, in pubblico, delle maledizioni unilaterali o reciproche, formulate con retorica giustezza, in modo solenne e meticoloso. All’inizio i testimoni proverebbero un’ironica indifferenza, poi un inquieto fastidio, infine un terrore purissimo. Quando la ragione cercherà di ritornare su questo terrore, di analizzarlo, di pensarlo, le si strapperà il nervo sciatico.

Dio punisce come un generale assiro: “Hai schiantato la testa alla casa del malvagio, aprendola dalle fondamenta fino al collo” (Habbakuk 3, 13). Ma l’impalamento del malvagio avviene per lo più nell’invisibile, o sulla soglia tra visibile e invisibile, perché, come i dicono i rabbini ad Alessandro il Macedone, “Satana è vincitore, è sempre vincitore”.

Secondo Ibn ʻArabī, l’ordine di uccidere il figlio Isacco arriva ad Abramo in sogno. Il padre dei credenti avrebbe dunque dovuto sottoporlo ad interpretazione, cogliendone l’intreccio di traslati. Abramo, primo dei monoteisti, è stato dunque anche il primo dei fondamentalisti: ma lo preserva e salva la sua fede, ovvero la sua nuda percezione del nesso simbolico del tutto, che gli fa rispondere, ad Isacco che non vede l’animale per l’olocausto, “Dio stesso provvederà l’agnello, figlio mio”.

“Quanti psicoanalisti ci vogliono per cambiare una lampadina?” “Ne basta uno, ma la lampadina deve veramente voler cambiare” (barzelletta raccontata da James Hillman a Michael Ventura. Qui la lampadina, che non dà luce se non stimolata meccanicamente, è il “peso” dell’introduzione di Michaelstaedter, che non può essere “persuaso”, ma solo manipolato dalla rettorica).

L’impero costruisce le strade su cui viaggiano, in modo misteriosamente discontinuo, i predicatori del suo sovvertimento: la democrazia distrugge le strade su cui potrebbero viaggiare, in ordine rituale, i suoi umili sostenitori.
Mai si disse e pensò patria, nazione, come nel tempo in cui quasi tutte le patrie erano già state divelte dai grandi disegni di accentramento, spesso travestiti con vecchie insegne sacrali; mai si è detto (non pensato), e si dice, società civile, come nel tempo in cui la società civile autentica, costituita dai corpi intermedi, dagli istituti che custodiscono le iniziazioni, è stata resa pressoché impossibile.

Harold Bloom chiama “transunzione” il procedimento con cui un poeta, soprattutto un poeta-vate, induce a credere che un racconto, un mito della tradizione, storicamente anteriore a lui, emani in realtà da un suo atto creativo superiore, indiscutibile. Maestro di transunzione è Dante: chi legge i versi sublimi, platonici e crudeli, dell’invocazione ad Apollo,

“entra nel petto mio, e spira tue,
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue”,

non può fare a meno di pensare che le versioni antiche della storia, anzi tutte le versioni possibili, non siano se non pallidi midrashim della sua – promossa a fonte scritturale, a condensazione luminosa e brutale.

Yosef di Hamadan nel suo Sefer ṭaʻamè hammiṣwot (L’essenza dei comandamenti) scrive che le unioni sessuali, in Dio, nel pleroma sefirotico, non possono che essere incestuose, avvenire tra “persone” (parṣufim, configurazioni personali) che condividono la stessa sostanza – il Padre, la Madre, il Figlio, la Figlia che è Sorella del Figlio. All’uomo tale mimesi è vietata per difetto di potenza: solo alcuni tra i patriarchi avevano una statura spirituale sufficiente per andare (apparentemente) oltre lo steccato della Legge. Così il cabbalista sfiora una sorta di antinomismo temperato, un nietzscheanesimo abramico marginale.

Dalle parti di Orgosolo si chiama “cara e gathile” (faccia di nuca, faccia come la nuca) chi sia particolarmente inespressivo, con lineamenti di golem, livellati dalla stupidità, dall’assenza di carattere. Da applicare a quasi tutti gli occidentali d’oggi, privi di volto, privi di dharma, facce di nuca.

L’appartenenza a una fazione politica è molto simile alla appartenenza o alla affiliazione tribale: legata al retaggio della famiglia o del clan, o a contingenze, emergenze storiche che mobilitano gruppi di persone in modo spesso casuale. Quando Solone, nella sua riforma costituzionale, impose ad ogni cittadino di iscriversi a una fazione e di restarle fedele in occasione di eventuali tensioni intestine, stava forse cercando di ritualizzare la sorda guerra civile che gorgoglia sul fondo di ogni polis: portando alla luce del nomos le fazioni altrimenti caotiche e prive di contorni, il sapiente legislatore non poneva Atene solo sotto il patrocinio di Apollo, ma anche di Dioniso, il dio della scena, del sacrificio e del komos, il dio della temperata ebbrezza della polis. 

“Maledetto l’uomo che confida nell’essere umano” (Ger 17,5): il versetto più difficile da comprendere, digerire, assimilare per i sentimentali, siano essi i teneri, ingenui agnelli o i loro perfetti compari, gli agnelli delusi, i cinici lupacci.


martedì 24 settembre 2013

Ruminationes





La nostra tendenza a ‘situare le cose’ coincide con il desiderio contratto in attaccamento: attaccamento per noi stessi come esseri limitati e per le cose in quanto proiezioni di un desiderio limitato. La disposizione delle cose nello spazio e nel tempo riflette questo atto originario. Ma se si percepiscono le cose con aperta consapevolezza, senza puntare gli occhi e gli altri sensi come ganci, se quel desiderio viene ricondotto a se stesso, allora tutto è uno e uno è tutto: lo spazio – la vacuità – penetra e accoglie le cose, le cose sono onde o vibrazioni di quello spazio. Si può allora cogliere l’universo come una perla o una palla, sphaira, o un singolo essere o dettaglio come un universo, come l’universo in automanifestazione, come teofania divina e dunque essere.

Ogni cosa, nella prospettiva della totalità, del mondo, è non-localizzata, dunque infinita e ‘coestesa’ al mondo. Ad ogni istante sorge in noi il mondo, che ci è dato come prospettiva – esattamente in quanto ci identifichiamo con l’io a cui la prospettiva fa riferimento, delimitandolo e situandolo all’interno del mondo. Occorre vedere, sentire etc. la prospettiva-istante, l’essere-tempo, ‘così com’è’, senza l’appendice astratta del ‘resto-del-mondo’ di cui la prospettiva sarebbe una parte, e senza d’altronde identificare astrattamente l’istante con la totalità (un’illusione ancor più grave nella pratica meditativa, che deve invece rendere trasparenti le immagini e i concetti che ‘sono lì’, non sostituirli ‘metafisicamente’-idolatricamente con altre immagini e concetti).

Fluire sull’onda circolare del respiro, circolare con il sangue. Nel punto di interesezione, sulla soglia, c’è il Punto in cui la spirale si rovescia, in cui si passa dal sentirsi contenuti in un corpo a sentire che si contiene il corpo e il mondo, e tutto si fa creazione istantanea, il getto iniziale ricade su di sé, come una fontana di vita. Abituandosi a entrare coscientemente in questo punto di sonno, di samadhi, analogo alla sensazione “Io sono”, al mero senso di essere, si finisce per andare oltre la soglia, per essere “l’impluvio del mondo”, la Femmina Oscura in cui si manifesta originariamente il Tao.

Dei liberati bisogna dire quello che la saggezza afferma dei coraggiosi: che muoiono una volta sola; e muoiono prima di morire. Vivono la loro morte, e dunque si accorgono di essere la consapevolezza che non nasce e non muore, sanno di essere l’essere. Non c’è alcun guadagno in questo, perché così, in un certo senso, si annullano in quanto individui, in quanto ego, come ogni uomo ordinario e non liberato: ma il fatto di sperimentarlo durante la vita, congiungendo così vita e morte, nel punto ancora al di qua della pura consapevolezza che è il punto di volta dell’universo e il punto di svolta fra mondo e non-mondo, li realizza. (Il punto è la fine punta o il centro dell’anima, che è lo spirito. Lo spirito ha per base o ricettacolo l’anima, ed è a sua volta base e ricettacolo del divino). Non ripetono sempre che propriamente parlando non fanno nulla, che si risvegliano a ciò che è e che sono, che si accorgono di essere sempre stati a casa? Il fine, ovvero la beatitudine, è pur sempre un mezzo per accertarsi di ciò che non è fine e non ha fine. Diventano uomini perfetti cessando di essere uomini, scoprendosi morti viventi. Per questo Parmenide è accolto con tutti i riguardi dalla regina dei morti.
(La nuda sensazione di essere come soglia tra i mondi).

Respirando meditativamente gli istanti, si rendono più lievi le cose e più corposi i pensieri.

Il sintomo più impressionante della Caduta: il mistico è il normale, e passa sempre per anormale (o per l’Anormale).

With your crooked heart





Dilemma della compassione. O è sentimentale – prende come criterio ciò che il prossimo desidera – o si fonda su un’idea di bene che potrebbe manifestarsi come violenza all’altro – la ‘dolce persecuzione’ di Agostino – o più spesso è un brodo in cui si confodono e galleggiano entrambi gli atteggiamenti. Il bodhisattva deve aver già gustato il satori, l’alba dell’illuminazione, per vivere insieme nell’esperienza non-duale e in quella convenzionale, ‘ordinaria’: la separazione tra sé e altro è venuta meno, un po’ come nel solipsismo di Wittgenstein che viene a coincidere con il realismo, la ‘persona’ dell’altro non è né l’immagine che noi proiettiamo o rileviamo né la maschera che ci viene incontro, essendo annientati come individui si lascia che la vita fluisca in tutte le direzioni, che la prospettiva si faccia trasparente.
L’eros di Platone è desiderio di possedere la bellezza, muove dalla privazione e dall’abbondanza: essendo insieme Eros, Ermes e Dioniso, è un’esperienza della soglia tra unità e molteplicità, fra assoluto e Maya, una condizione liminare, fluida, demonica e non divina. Sul piano dell’esperienza conoscitiva le corrisponde l’ortha doxazein: non il possesso della sapienza-certezza, né l’ignoranza-offuscamento-dubbio, ma la capacità di ‘congetturare rettamente’, qualcosa di simile alla conoscenza-fede del cardinale Newman. L’amante, sul piano ‘affettivo’, cerca il bello, è un cacciatore che sa e non sa di essere la preda e la meta dell’avventura erotica: l’apparente paradosso è che, per desiderare, occorre godere di un possesso almeno virtuale, embrionale, è una posizione affine a quella dell’uomo parmenideo che naviga tra i molti avendo sperimentato l’uno immobile e intemporale, che muore-rinasce ad ogni istante. Sul piano ‘conoscitivo’ è philosophos, ha la passione per la sofia divina, ma non sa logon dounai, reddere rationem del proprio congetturare: vive della dialettica della conjectura, che è partecipazione alla verità e non suo silenzioso contemplativo possesso. Così, nella conoscenza dell’oggetto d’amore, sa e non sa, vede attraverso l’amato ma non ne scarta la consistenza, la presenza in una ricerca egoistica e unilaterale della salvezza o del ‘proprio bene’.
Gesù parla di un pastore che ten psychen autou tithesi hyper ton probaton: dà la vita per le pecore, mette la propria psyche, il proprio nefesh al posto delle pecore e a protezione (hyper) delle pecore. L’impulso sembra egoistico: se è un pastore proprietario difende i propri beni, se pasce il gregge di un altro, come in Amos, deve combattere il predatore, il maligno, per dimostrare che almeno ci ha provato. Eppure, il risultato esistenziale, l’esperienza è la stessa: la comunanza di nefesh, di vita è reale; non può distinguere tra la propria vita e quella del gregge. Questo non-potere è alla radice dei comandamenti positivi, la cui formulazione è paradossale, e in ebraico è di solito al perfetto (amerai, ahavta, vuol dire anche ‘hai amato’): così dice Dogen – e Krshna – a proposito del non uccidere; si tratta di prendere atto di ciò che è, di fare la verità. Tuttavia il compagno di vita, il prossimo, non mi è dato: lo trovo per strada, come il samaritano; nella sua condizione di sofferente abbandonato riconosco, visceralmente, la mia di ‘straniero’, di viandante minacciato, e nella non-dualità dell’una e dell’altra la situazione della Shekhina esule, della misericordia o utero divino straziato dall’incubo della storia, della galut. Tutto ciò è ortha doxazein: lo so e non lo so, e non posso ‘darne ragione’ perché il logos è dialetticamente sciolto nell’atto, nella conoscenza d’amore, nella contemplazione in atto. Così l’amato è immagine nello specchio e alter ego, altrettanto sconosciuto: l’ho scelto, ma è Dio che ci ha uniti, come due che si incontrano sulla strada tra Gerusalemme e Gerico; in ciò che relativamente conosco desidero ciò che relativamente non conosco, ma è un procedere dal possesso al possesso, da Dio che ci unisce a Dio che ci trasfigura e fa risorgere. Per partorire nella bellezza si deve desiderare-possedere, cercare-donare.