lunedì 30 settembre 2013
MALINCONIA DEL POETA T’SEN CHI NEL QUARTIERE DEI PIACERI
“Stai guardando la luna?”, mi chiede la figlia
della casa verde, allacciata al mio fianco,
con la grazia attenta di una regina che indaga.
“Certo”, le rispondo, e quel che intendo dire
è sì, guardo la luna, guardo colei
di cui non si può parlare, che non è qui,
la guardo in te, nella luna, nel vino,
riflessa nelle più labili, nelle più preziose
delle diecimila creature, la guardo
perché ci si stanca, a volte, della perfezione,
della virtù confuciana, del buio e dei profumi.
sabato 28 settembre 2013
Qualche riflessione sul presente
La stessa concezione diffonde i suoi raggi su
vari fenomeni contemporanei.
I ‘femminicidi’ (definizione ideologica che
maschera la reale crescita di omicidi di donne da parte dei loro compagni in
seguito al fallimento della relazione) testimoniano la difficoltà della psiche
maschile (da non identificare letteralisticamente con la psiche dei maschi) a reggere
l’incertezza dei rapporti d’amore e coniugali, a loro volta confusi in un
groviglio difficile da districare. La ‘psiche maschile’ investe molto sulla
sicurezza del rapporto, posto al riparo di un logos, di una promessa: è
un atteggiamento proprietario che soffoca la libertà dell’amore, ma è anche l’ombra
invigliacchita – privata cioè della sua immaginazione militante – dell’antica
idea di voto. O è un contratto, in cui si giura, o è cristianamente un voto, in
cui ci si abbandona a Dio: in entrambi i casi il tradimento è percepito come
una diserzione, una lacerazione dell’unità. Oggi si sente il vincolo nuziale o
semplicemente di coppia (già questa è una confusione significativa) come un ‘contratto
libero’: ma la libertà dell’amore è un ideale assai elevato, che non può essere
letteralizzato nei rapporti quotidiani, dove diventa semmai il disorientamento
di legami privi di struttura.
Qualcosa di analogo è accaduto nell’economia,
nel lavoro: lo stesso subdolo invito all’“avventura”. La vita è rischio, amici
miei! Sì, ma la vita associata è appunto un esperimento per contenere quell’angoscia
radicale, pungolo di ogni cerca romantica ma anche veleno di ogni miseria. Dire
oggi che ‘il lavoro non è un diritto’ è un altro trucco, un po’ meno abile
perché ancor meno digeribile (non sferza, flagella): il lavoro non è forse un
diritto, ma la sussistenza lo è, e poiché nelle società avanzate contemporanee
non c’è che il lavoro per ottenere la sussistenza (l’alternativa è una miseria
men che servile, o una rivoluzione interiore da esseni, da stoici), il lavoro
dev’essere considerato un diritto.
A scuola si consegnano ai ragazzi fossili
impolverati e chiacchiere post-moderne, ovvero vecchiume innocuo e nociva
ideologia senza bussola: quando sono ridotti alla perfetta viltà, al
vittimismo, all’impotenza rancorosa, si dice loro con un sorriso orribilmente
sussiegoso: “Beh, cosa credevate? La vita è rischio. Nel mondo del lavoro
dovete vedervela con i cinesi e gli indiani, che faticano quindici ore al
giorno e percepiscono un decimo dello stipendio dei vostri padri viziati.
Datevi da fare, adattatevi o inventatevi qualcosa etc.”.
I legami d’amore fanno parte della comunità,
anzi la costruiscono. Solo in un’epoca come la nostra si può credere che siano
una zona franca, neutrale: retaggio di un cattivo romanticismo e di un
asservimento delle coscienze sempre più capillare – la solita alleanza moderna
tra sentimentalismo e oppressione. Si cresce con l’idea che l’amore sia il
cuore pulsante dell’esistenza, e la si trova quasi sempre congiunta alla
centralità del matrimonio e della famiglia: poi, si sa, la vita è rischio, e un
matrimonio può crollare per motivi meno gravi che in passato, e virtualmente ad
ogni istante; non solo, si è così imbevuti di quella bizzarra filosofia del
piacere e dell’eternità – un piacere fasullo e un’eternità fasulla – in cui si
mescola l’incantesimo dell’era consumistica con l’idea, intimamente connessa,
del sentimentalismo come lubrificante della macchina, che questa intossicante
contraddizione non regge alle reali antinomie del reale sentimento,
quella funzione razionale di cui Jung conosceva lo spessore culturale.
Come sempre, i crimini di un’epoca sono il
sogno collettivo di un’epoca: lo dice l’Ulrich di Musil a proposito dell’assassino
di prostitute Moosbrugger. Non saper riconoscere questo sogno è un male antico
come l’uomo: oggi, senza più alcuna cultura cresciuta dalla terra dell’uomo
(ogni ‘cultura’ è sostituita dal
rifornimento di merci e di servizi), l’impossibilità di trovare rituali comuni,
immagini del mondo comuni, sembra portare obbligatoriamente alla richiesta di
una maggiore erogazione di sicurezza da parte delle agenzie preposte. L’assenza
di sicurezza interiore costringe a chiedere un airbag sempre più sicuro, una
rete di protezione sempre più fitta. Si dimentica persino l’ovvio, che ogni
ulteriore legge e provvedimento e tecnica sociale e giuridica non può non
recare con sé un’ulteriore contrazione degli spazi di libertà. La coppia, la
diade, ha bisogno di aria, dunque, per curarne i veleni, si simula un’emergenza
e si affretta la messa a punto di ‘gabbie’ che tolgono la poca aria rimasta –
come l’impossibilità di ritirare una denuncia in caso di violenze. Poiché non
esiste più una famiglia per proteggere da abusi come la persecuzione e le
minacce, si danno più poteri all’antico avversario e giudice della famiglia, lo
Stato (che in molti casi, beninteso, ha il diritto di interferire e giudicare,
ma dopo aver compiuto tutti i riti sacri e le ragionevoli inquisizioni sulla
soglia della casa).
Non diversamente: cresciamo con un’idea sempre
più scolorita di appartenenza nazionale, ma sappiamo benissimo di non avere, di
non essere più le antiche patrie e le più recenti nazioni. Lo
sradicamento rende fragili e violenti, come uomini abbandonati dalle donne (o
che tali si percepiscono). Anche il cosmopolitismo è un grande ideale
filosofico che, letteralizzato, si fa distruttore di forme e di limiti. Se non
devo combattere per le mie patrie (non ne abbiamo, non ne avevamo mai una
sola), perché devo combattere per il focolare? Se l’ideale proposto a tutti è
quello del ricco pirata che ha quattro passaporti, case in tutti i paesi del
mondo e soldi in tutte le casse, a quale ideale finirà per conformarsi la vita
affettiva? Qui resistono presso il popolo, gli ex-poveri, oggi avviati a una
nuova miseria da candala, antichi pregiudizi favorevoli alla
convivialità, al calore domestico, alla costruzione di una famiglia come opera
di una vita: ma senza la consapevolezza militante che si tratta di ideali
minacciati, anzi, con il dubbio persistente (instillato dall’atmosfera
collettiva) che in fondo si possa fare, volendolo, tutto o un po’ di tutto (lo
slogan del supermercato), non si può né resistere alla dissoluzione né nuotarvi
dentro. Si viene comicamente smembrati, come accade sempre a chi non è o
insediato nell’élite potente di un’epoca o nutrito dallo spirito sempiterno
delle consuetudini.
Occorre distinguere tra la sicurezza di una
casa, che uno si costruisce da sé, e la sicurezza del rifornimento costante di
merci e servizi, che soffoca ogni autentico spirito civico e ogni freschezza
morale superstite. Anche se esistono i benefici iniziatici dei rischi e della
miseria, una comunità deve lasciare che ciascuno abbia la sua ousia, la
proprietà che lo pone al riparo dalle fluttuazioni avverse e gli dà agili
fondamenta per l’opera di una vita. Il nesso tra proprietà e matrimonio non dev’essere
visto solo alla luce della – giusta – critica anticapitalista, socialista e
romantica. Esiste certo anche un fermento dionisiaco che punta al di là del
matrimonio e della polis recintata, ma negli ultimi decenni si è
proceduto piuttosto a normalizzare e normare le spinte dissolutrici-rivoluzionarie
e a rendere dissolvente la normalità: una condizione che non dovrebbe essere
durevole, anche se non ci si può giurare.
Secondo uno studioso, Penso de la Vega vedeva
nel nascente capitalismo finanziario (primo crack della borsa nell’Olanda del
XVII secolo, piena di profughi ebrei) qualcosa della dialettica sabbatiana: il
messia scende tra le qelippot per redimerle, lo speculatore si inabissa
nell’irrealtà tormentosa del gioco finanziario per trarre ricchezza dal nulla.
Vi è un’alchimia tenebrosa in questa intuizione, che si nutre di echi gnostici
ed ermetici. La maledizione religiosa dell’usura non è mai stata veramente
efficace: la dissoluzione dell’Ordine viene sentita come l’opportunità di
scatenare gli egoismi individuali alla ricerca del bene comune, albeggia l’idea
liberale-liberista. Già Davanzati parla biblicamente di ‘apertura degli occhi’
a proposito della rivoluzione dei cambi: si svela l’illusionismo del denaro,
aspetto di quell’illusionismo occidentale-rinascimentale individuato da Florenskij.
Hoelderlin dice che la dissoluzione del reale fa emergere il possibile, e il
possibile viene colto come sogno, fermentazione di immagini escluse dal gioco
del quotidiano, dal proscenio illuminato dei principi condivisi. L’homo oeconomicus
sorge anzitutto come individuo isolato dalla comunità, liberato dai vincoli
tradizionali, dalle consuetudini sentite come opache, passivamente accettate.
La religione non è più il contenitore (in tutti i sensi) dell’angoscia, che ora
diviene disponibile per inedite creazioni politiche, sociali, culturali:
secondo Benjamin il capitalismo è una religione inconscia, che invece di
promettere espiazione moltiplica l’angoscia della colpa-indebitamento
attraverso una struttura di totale opacità, un ritualismo ossessivo che si nega
per principio alla visione in trasparenza di una consapevolezza distinta da
esso. In questo senso, l’aggettivo totalitario gli spetta kat’exochèn
(intuizione di Pasolini sul rapporto tra fascismo-fascismi e neocapitalismo
consumistico). Le varie crisi sono state apocalissi abortite: non è ancora
giunto il suo autunno, nel senso dell’autunno del Medioevo indicato da
Huizinga. Come molte religioni, potrebbe sopravvivere svuotato, inefficace: ma
il suo statuto di religione solo-cultuale glielo consentirà? Non avendo
teologia, come potrebbe resistere all’abbandono dei suoi riti, alla rovina dei
suoi templi ed altari? A meno che la sua teologia non sia tutta l’ideologia del
moderno, come sembra piuttosto probabile, nonostante non vi sia perfetta
coincidenza – e d’altronde non c’è mai. In questa crisi non si sente appunto
aria di krisis, di revolutio, perché ciò presuppone l’ermergere,
insieme alla dissoluzione del vecchio e ad essa confuso, di una nuova forma
mentis, una nuova griglia epistemologica congiunta ad un sentire
finalizzato e non smarrito.
Illich: oggi tendiamo a confondere genere e
sesso. Il genere è una creazione culturale e postula una complementarità, il
sesso è la differenza naturale di un’unica specie, concepita astrattamente come
‘umanità’, e tendente a identificarsi con l’homo oeconomicus. La
discriminazione è possibile solo con la divisione sessuale, in cui c’è
competizione e dualità proprio a causa dell’assenza di qualità dell’umano. Il
male proprio del genere è la confusione tra simboli e individui: inoltre la
lettura della diade è viziata dalla preponderanza ‘essoterica’ del maschile, l’elemento
‘apollineo’, ‘paterno’. Il potere, il dare la morte, la differenziazione
sociale sono dalla parte del maschile: il femminile viene ridotto a
ricettacolo, parallelamente alla perdita di sostanza mistica della venerazione
per la Terra, gli vengono imposti la continuità della tradizione (la
generazione della prole e la sua prima educazione, la ‘lingua materna’ della
cultura, l’oralità), la custodia sacerdotale della vita e della integrità (Chesterton),
sempre a rischio di ‘santificazione’ e dunque di separazione dalla zoè
divina vera e propria. Leggendo Hillman e Zolla si può presagire che, alla fine
dell’era del sesso, dopo il tempo dell’Operaio e quello del Candala, stia
emergendo come possibilità non l’umano senza qualità
brutalmente/sentimentalmente sessuato, ma l’androginia dionisiaca, il
rimescolamento di sessi e generi. Tema del genere e del trans-genere: si tende
a superare proprio il genere come costruzione culturale, ma la direzione del
movimento sembra oscillare tra il carnevale del Gay Pride e le rivendicazioni
di un diritto alla normalità e alla norma. Più liminari, borderline, le
riflessioni sull’intersessualità: mostra, proprio perché mostruosa, che la
divisione sessuale non è meno artificiale o comunque dubbia e incerta della
distinzione tra i generi. Nella favoletta di Fedro Prometeo foggia i sessi
separatamente dai corpi degli uomini (sexus, da secare): poi
viene invitato da Dioniso, si ubriaca e alcuni li attacca in modo erroneo,
creando così gli invertiti, tribades e molles mares, lesbiche ed
effeminati. Dietro il dileggio del maschio romano c’è l’antica idea di un
Dioniso androgino, molle, signore delle donne, dissolutore dell’ordine politico
chiuso. Questa ebbrezza del demiurgo si traduce nelle nostre vertigini, nel
fascino e nella ripugnanza che suscitano in noi gli stati intersessuali ancor
più che la donna-uomo (con il pene ovvero dotata di un clitoride ipertrofico) e
l’uomo-donna (con un culo-vagina), scherzacci perpetui da caserma. D’altronde
si tratta di scherzacci che il nostro tempo ha trasformato in realtà politiche
e sociali: l’uomo-donna è l’isterico delle masse fasciste e comuniste e il
passivo cinedo del potere pubblicitario, in entrambi i casi un vile senza
spirito civico, un lussurioso inerte, così come la donna-uomo è quella gettata
nella competizione economica in uno stato di permanente inferiorità, alla
ricerca del solito potere fragile – ma, come osserva Chesterton, appunto senza
più la consapevolezza che non c’è potere senza la facoltà di dare la morte, di
partecipare alla sedizione collettiva. L’unione sessuale e oltre i generi dell’uno
e dell’altro mostriciattolo ha per risultato la fittizia e realmente impotente
democrazia del nostro evo. L’esplosione dei generi non ha ancora traghettato l’uomo
al di là del sesso e dunque del taglio originario: la rivoluzione dell’androginia
andrebbe nella direzione di una maggiore completezza e fluidità, di cui per ora
si rilevano solo cenni grottescamente parodistici.
Certo è vero, come dicono i critici queer,
che il genere è una costruzione culturale: tuttavia è indubbiamente legata, in
modo confuso, alla constatazione della differenza sessuale. Si può dire che il
genere è costruito sul sesso, ma anche, secondo il filosofico linguaggio
antico, che la differenza sessuale è la manifestazione, nella materia, della diade
simbolica, eternamente intrecciata sul caduceo. Gli stati intersessuali o le
inclinazioni erotico-sessuali contrarie al sesso apparente della nascita sono,
come ogni eccezione all’interno di un ordine fluttuante fra simbolo e carne,
gli ‘anelli deboli’ che fanno accedere a una superiore unità, come le deformità
e le malattie iniziatiche, come la malinconica, pessima tra le complessioni
naturali e dunque possibile via al soprannaturale, come l’essere –
culturalmente e individualmente – senza qualità o proprietà di Ulrich è il
punto di partenza della sua trasfigurazione in mistico, ‘senza proprietà’ nel
senso dei renani.
‘Femminicidio’. Il maschile di oggi ha il pene
fragile dell’impotenza, in ogni senso possibile. Il legame d’amore più incerto
lo fa sentire castrato, e dalla ferita sgorga un sangue psichico che si traduce
nel versamento del sangue femminile. Nella coppia divina la Dea divora il pene
del dio-fratello e lo sostituisce con un pene di fango o di cera, molle, un linga-sarira,
un corpo di sogno. Un tempo l’uomo accettava semiconsciamente questa operazione
umiliante diventando il fuco della casa, il pesce fuor d’acqua, in cerca di
cameratismo e avventure erotiche all’esterno. Oggi quel sangue non trova nessun
contenitore, e nella psiche maschile, violenta per debolezza, il dolore non
accolto diventa aggressività (in quella femminile tende a diventare sadismo o
masochismo bianco, il veleno da fattucchiera che scorre nelle tragicommedie
della narrazione popolare sul matrimonio).
Non ci si può limitare a reprimere i bruti –
magari cercando, quando capita, di educarli a un astratto ‘rispetto’ – e ad
insegnare alle donne le pur necessarie arti della difesa, ovvero un po’ di
egoismo sano e saggio. Questa è una misura davvero troppo condizionata dalla sensazione,
provocata a bella posta, dell’”emergenza sociale”. Se stesse davvero a cuore la
verità, ovvero che si tratta semmai della nuova versione di un vecchio dramma
culturale, si proverebbe a ripensare la coppia invece di lasciarla alle
correnti di un mutamento rapinoso. Ma il sentimentalismo crudo è un’arma troppo
preziosa per le forze sottili che hanno interesse a mantenere ed eventualmente
peggiorare lo stato di impotenza e dunque di servitù dell’anima occidentale
contemporanea. Il vecchio recinto del matrimonio era ormai diventato appunto
solo un recinto, ma un recinto non è poco, specialmente quando il desiderio di
uscirne all’impazzata viene deformato dalle interpretazioni mendaci e dagli
interessi profondi, il più delle volte inconsci ai singoli, di un sacerdozio
commerciale senza volto. (Anche qui Pasolini era un buon conservatore.
Pochissimi sono stati, sempre, i rivoluzionari lucidi, o sarebbe piuttosto il
caso di dire gli sperimentatori dell’immaginazione).
Capire non ideologicamente che i criminali
sono sempre le teste su cui si addensa il male dell’epoca è l’impresa che
riesce solo ai pensatori autentici, in cui l’indifferenza anarchica si
congiunge a una compassione non sentimentale. Chi giudica è sempre già
giudicato, per il fatto stesso di giudicare. Come rendere palpabile questa
intuizione religiosa in un tribunale desacralizzato (ma anche sacro, il più
delle volte), in una comunità che non sente i filamenti vivi della conjuratio?
Ma è difficile e quasi impossibile in ogni tempo. In un certo senso la
punizione è un privilegio: si vuol far comprendere al criminale che è stato vocato,
che è un essere libero ovvero liberabile. Ma lo si getta in un purgatorio
troppo simile all’inferno, non tanto per le condizioni esteriori quanto per il
gran movimento ubriacante della massa di linciatori che si stringe intorno a
lui. Gli si offre un percorso iniziatico ricoperto da mille veli pesanti, da
maschere fuorvianti. D’altronde lui stesso ha imposto alla comunità lo stesso
micidiale koan: come vendicarsi di lui, e poi che senso ha vendicarsi? Viviamo
sempre nel gran teatro dei simboli, i nostri corpi vengono afferrati da spiriti
fluttuanti e famelici, torturati da idee invisibili, soffocati da aure
insensibili. Ogni evento che emerga dalla mediocre angoscia del quotidiano ci
invita al risveglio, con la brutalità e l’ironia di un maestro selvaggio.
giovedì 26 settembre 2013
Nec satiare queunt spectando
Quando mi innamorai di Lucrezia, l’unica figlia di Quinto Lucrezio Varo, avevo diciannove anni. Ora, come sapete, ne ho ottantaquattro. Molti mi hanno detto o sussurrato, nella mia lunga vita, velando goffamente un sorriso: “Che prodigiosa costanza nell’amore, la tua!”. Beh, perdonatemi se la vecchiaia mi rende irritabile (da giovane ero mite, cedevole, distratto), ma che vadano tutti in croce, quei bastardi pettegoli, se non ci sono già andati. Lo so, so che il mio amore è contrario ad ogni legge divina ed umana: del resto, io mi sono allontanato dagli uomini, e gli dei si sono allontanati da me, quindi l’esito non poteva che essere lo scherno silenzioso, l’altezza indecorosa della solitudine. Non ho molto da dire, su quell’amore `prodigioso`, se non che per me è il segno dell’unghia del destino sulla mollezza delle carni: una lama di luce, un abisso di povertà. Io, Mamerco Collatino, ex legato imperiale, ex amico intimo di due Principi, ex mercante dalle mani vilmente pulite, ex tutto, ricevo di quando in quando la visita della sua ombra, di Lucrezia intendo, quasi sempre in sogno, com’è ovvio: e mi dice cose strane e belle, che vorrei ricordare, ma non ricordo. Quando entrerò anch’io tra le ombre, forse non la riconoscerò, o forse la vedrò per la prima volta, se ancora avrò occhi dopo le lacrime e la presbiopia naturale, essenziale, profetica dei miei ultimi anni: quando comporranno le mie spoglie, la luce e la povertà mi sopravviveranno, e andranno a fecondare altri giardini furtivi, andranno a tracciare un pomerio di assenza, a fondare un impero di solitudine in altri diciannovenni miti e distratti.
Dopo la mia delirante passione per Lucy Dawson, ragazzo, decisi che non sarei mai più ‘caduto nell’amore’, come diciamo nella nostra lingua fine e sensibile. “L’amore non è una trappola, Bill (mi chiamo William Archer-Boyd), è un pellegrinaggio tra i fiori e le rovine. La trappola siamo noi”. Queste sono le parole che mi rivolse, tra un whisky e l’altro, un caro vecchio amico che non è più tra i vivi, Lawrence Wadsworth, di Brighton. Me le ero dimenticate: mi sono tornate alla mente adesso, mentre cercavo di parlarle di quelle lontane angosce seguendo le spire maliziose del mio sigaro. Credo avesse ragione, ma d’altro canto, se la trappola sono io, cosa cambia? Ovviamente non riuscii a tenermi troppo distante da tagliole e crepacci, ma cercai di gettare ogni fiore nel fuoco notturno della mia gioia, e di dormire sotto ogni rovina con la concentrazione del pellegrino e la molle noncuranza del gitante. Avevo una trentina d’anni quando mi diedero quel posto nella capitale: mi tuffai nel mondo nudo come un selvaggio, ma ero refrattario ad ogni colpo. Mi sposai, misi su famiglia, feci un po’ di carriera. Che tristezza, eh? Macché, ero un sole di esultanza, un poeta appeso a un filo d’erba su un abisso di colori e di perfezioni. L’amore, mi dicevo, immiserisce: come la profezia e la maternità, avvince ad una zolla, rende qualsiasi veggente una talpa. Solo una volta il vecchio Lawrence mi chiese come facessi a sposare il mio cinismo con uno stile interore così raggiante, spezzato, ferito di gratitudine e canoro come una certezza spogliata di appoggi. Gli risposi, con un sorriso che non ebbi e non avrò più, che non ero cinico, ma – giocando con le radici greche, come facevamo da ragazzi, a scuola – un vero e proprio cane vivo, da cui non uscirà, come dal leone morto, miele di consumata attenzione, di lenta e accalorata dedizione, ma solo il puzzo della morte terrestre e l’aria soave della libertà spregiata, quella che non si vergogna di temere il bastone, quella che corre dietro alle ombre e ai riflessi con rabbia severa e giocosa, quella che attende qualche briciola e qualche osso con una sorta di divina derelizione nel sangue. Non so se mi capisce, caro ragazzo. Veramente, non mi capisco neanch’io: forse nemmeno allora. Va bene, il sigaro è finito. La prego di prepararmi il letto: non sono un grande spettacolo, quando gli acciacchi dell’età mi chiamano a udienza da Sua Maestà il corpo.
mercoledì 25 settembre 2013
Minima aequinoctialia
Si
dice: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, ma non sa
quel che trova”. Naturalmente lo stesso vale per chi fa l’apparente contrario:
chi si attiene al consueto sa quel che lascia – ovvero il nuovo, l’ignoto – e
non sa quel che trova, perché l’abitudine è la foresta degli enigmi, il
cancello sbarrato del mistero, il muro della città perduta.
Modesta
proposta per reintrodurre un po’ di pensiero e pratica della magia nelle nostre
tele ragne di differimenti illimitati e spettrali: sperimentare, in pubblico,
delle maledizioni unilaterali o reciproche, formulate con retorica giustezza,
in modo solenne e meticoloso. All’inizio i testimoni proverebbero un’ironica
indifferenza, poi un inquieto fastidio, infine un terrore purissimo. Quando la
ragione cercherà di ritornare su questo terrore, di analizzarlo, di pensarlo,
le si strapperà il nervo sciatico.
Dio
punisce come un generale assiro: “Hai schiantato la testa alla casa del
malvagio, aprendola dalle fondamenta fino al collo” (Habbakuk 3, 13). Ma
l’impalamento del malvagio avviene per lo più nell’invisibile, o sulla soglia
tra visibile e invisibile, perché, come i dicono i rabbini ad Alessandro il
Macedone, “Satana è vincitore, è sempre vincitore”.
Secondo
Ibn ʻArabī, l’ordine di uccidere il figlio Isacco arriva ad Abramo in sogno. Il
padre dei credenti avrebbe dunque dovuto sottoporlo ad interpretazione,
cogliendone l’intreccio di traslati. Abramo, primo dei monoteisti, è stato
dunque anche il primo dei fondamentalisti: ma lo preserva e salva la sua fede,
ovvero la sua nuda percezione del nesso simbolico del tutto, che gli fa
rispondere, ad Isacco che non vede l’animale per l’olocausto, “Dio stesso
provvederà l’agnello, figlio mio”.
“Quanti
psicoanalisti ci vogliono per cambiare una lampadina?” “Ne basta uno, ma la
lampadina deve veramente voler cambiare” (barzelletta raccontata da James
Hillman a Michael Ventura. Qui la lampadina, che non dà luce se non stimolata
meccanicamente, è il “peso” dell’introduzione di Michaelstaedter, che non può
essere “persuaso”, ma solo manipolato dalla rettorica).
L’impero
costruisce le strade su cui viaggiano, in modo misteriosamente discontinuo, i
predicatori del suo sovvertimento: la democrazia distrugge le strade su cui
potrebbero viaggiare, in ordine rituale, i suoi umili sostenitori.
Mai si disse e pensò patria, nazione, come nel tempo
in cui quasi tutte le patrie erano già state divelte dai grandi disegni di
accentramento, spesso travestiti con vecchie insegne sacrali; mai si è detto
(non pensato), e si dice, società civile, come nel tempo in cui la società
civile autentica, costituita dai corpi intermedi, dagli istituti che
custodiscono le iniziazioni, è stata resa pressoché impossibile.
Harold
Bloom chiama “transunzione” il procedimento con cui un poeta, soprattutto un
poeta-vate, induce a credere che un racconto, un mito della tradizione,
storicamente anteriore a lui, emani in realtà da un suo atto creativo
superiore, indiscutibile. Maestro di transunzione è Dante: chi legge i versi
sublimi, platonici e crudeli, dell’invocazione ad Apollo,
“entra
nel petto mio, e spira tue,
sì
come quando Marsia traesti
de
la vagina de le membra sue”,
non
può fare a meno di pensare che le versioni antiche della storia, anzi tutte le
versioni possibili, non siano se non pallidi midrashim della sua – promossa a fonte scritturale, a condensazione
luminosa e brutale.
Yosef di Hamadan nel suo Sefer ṭaʻamè hammiṣwot (L’essenza dei comandamenti) scrive che le
unioni sessuali, in Dio, nel pleroma sefirotico, non possono che essere
incestuose, avvenire tra “persone” (parṣufim,
configurazioni personali) che condividono la stessa sostanza – il Padre, la
Madre, il Figlio, la Figlia che è Sorella del Figlio. All’uomo tale mimesi è
vietata per difetto di potenza: solo alcuni tra i patriarchi avevano una
statura spirituale sufficiente per andare (apparentemente) oltre lo steccato
della Legge. Così il cabbalista sfiora una sorta di antinomismo temperato, un
nietzscheanesimo abramico marginale.
Dalle
parti di Orgosolo si chiama “cara e gathile” (faccia di nuca, faccia come la
nuca) chi sia particolarmente inespressivo, con lineamenti di golem, livellati
dalla stupidità, dall’assenza di carattere. Da applicare a quasi tutti gli
occidentali d’oggi, privi di volto, privi di dharma, facce di nuca.
L’appartenenza a una fazione politica è molto simile
alla appartenenza o alla affiliazione tribale: legata al retaggio della
famiglia o del clan, o a contingenze, emergenze storiche che mobilitano gruppi
di persone in modo spesso casuale. Quando Solone, nella sua riforma
costituzionale, impose ad ogni cittadino di iscriversi a una fazione e di
restarle fedele in occasione di eventuali tensioni intestine, stava forse
cercando di ritualizzare la sorda guerra civile che gorgoglia sul fondo di ogni
polis: portando alla luce del nomos le fazioni altrimenti caotiche e prive di
contorni, il sapiente legislatore non poneva Atene solo sotto il patrocinio di
Apollo, ma anche di Dioniso, il dio della scena, del sacrificio e del komos, il dio della temperata ebbrezza
della polis.
“Maledetto
l’uomo che confida nell’essere umano” (Ger 17,5): il versetto più difficile da
comprendere, digerire, assimilare per i sentimentali, siano essi i teneri,
ingenui agnelli o i loro perfetti compari, gli agnelli delusi, i cinici
lupacci.
martedì 24 settembre 2013
Ruminationes
La nostra tendenza a ‘situare le cose’
coincide con il desiderio contratto in attaccamento: attaccamento per noi
stessi come esseri limitati e per le cose in quanto proiezioni di un desiderio
limitato. La disposizione delle cose nello spazio e nel tempo riflette questo
atto originario. Ma se si percepiscono le cose con aperta consapevolezza, senza
puntare gli occhi e gli altri sensi come ganci, se quel desiderio viene
ricondotto a se stesso, allora tutto è uno e uno è tutto: lo spazio – la
vacuità – penetra e accoglie le cose, le cose sono onde o vibrazioni di quello
spazio. Si può allora cogliere l’universo come una perla o una palla, sphaira,
o un singolo essere o dettaglio come un universo, come l’universo in
automanifestazione, come teofania divina e dunque essere.
Ogni cosa, nella prospettiva della totalità,
del mondo, è non-localizzata, dunque infinita e ‘coestesa’ al mondo. Ad ogni
istante sorge in noi il mondo, che ci è dato come prospettiva – esattamente in
quanto ci identifichiamo con l’io a cui la prospettiva fa riferimento,
delimitandolo e situandolo all’interno del mondo. Occorre vedere, sentire etc.
la prospettiva-istante, l’essere-tempo, ‘così com’è’, senza l’appendice
astratta del ‘resto-del-mondo’ di cui la prospettiva sarebbe una parte, e senza
d’altronde identificare astrattamente l’istante con la totalità (un’illusione
ancor più grave nella pratica meditativa, che deve invece rendere trasparenti
le immagini e i concetti che ‘sono lì’, non sostituirli ‘metafisicamente’-idolatricamente
con altre immagini e concetti).
Fluire sull’onda circolare del respiro,
circolare con il sangue. Nel punto di interesezione, sulla soglia, c’è il Punto
in cui la spirale si rovescia, in cui si passa dal sentirsi contenuti in un
corpo a sentire che si contiene il corpo e il mondo, e tutto si fa creazione
istantanea, il getto iniziale ricade su di sé, come una fontana di vita.
Abituandosi a entrare coscientemente in questo punto di sonno, di samadhi,
analogo alla sensazione “Io sono”, al mero senso di essere, si finisce per
andare oltre la soglia, per essere “l’impluvio del mondo”, la Femmina Oscura in
cui si manifesta originariamente il Tao.
Dei liberati bisogna dire quello che la
saggezza afferma dei coraggiosi: che muoiono una volta sola; e muoiono prima di
morire. Vivono la loro morte, e dunque si accorgono di essere la consapevolezza
che non nasce e non muore, sanno di essere l’essere. Non c’è alcun guadagno in
questo, perché così, in un certo senso, si annullano in quanto individui, in
quanto ego, come ogni uomo ordinario e non liberato: ma il fatto di
sperimentarlo durante la vita, congiungendo così vita e morte, nel punto ancora
al di qua della pura consapevolezza che è il punto di volta dell’universo e il
punto di svolta fra mondo e non-mondo, li realizza. (Il punto è la fine
punta o il centro dell’anima, che è lo spirito. Lo spirito ha per base o
ricettacolo l’anima, ed è a sua volta base e ricettacolo del divino). Non
ripetono sempre che propriamente parlando non fanno nulla, che si risvegliano a
ciò che è e che sono, che si accorgono di essere sempre stati a casa? Il fine,
ovvero la beatitudine, è pur sempre un mezzo per accertarsi di ciò che non è
fine e non ha fine. Diventano uomini perfetti cessando di essere uomini, scoprendosi
morti viventi. Per questo Parmenide è accolto con tutti i riguardi dalla regina
dei morti.
(La nuda sensazione di essere come soglia tra
i mondi).
Respirando meditativamente gli istanti, si
rendono più lievi le cose e più corposi i pensieri.
Il sintomo più impressionante della Caduta: il
mistico è il normale, e passa sempre per anormale (o per l’Anormale).
With your crooked heart
Dilemma della compassione. O è sentimentale –
prende come criterio ciò che il prossimo desidera – o si fonda su un’idea di
bene che potrebbe manifestarsi come violenza all’altro – la ‘dolce persecuzione’
di Agostino – o più spesso è un brodo in cui si confodono e galleggiano
entrambi gli atteggiamenti. Il bodhisattva deve aver già gustato il satori,
l’alba dell’illuminazione, per vivere insieme nell’esperienza non-duale e in
quella convenzionale, ‘ordinaria’: la separazione tra sé e altro è venuta meno,
un po’ come nel solipsismo di Wittgenstein che viene a coincidere con il
realismo, la ‘persona’ dell’altro non è né l’immagine che noi proiettiamo o
rileviamo né la maschera che ci viene incontro, essendo annientati come
individui si lascia che la vita fluisca in tutte le direzioni, che la
prospettiva si faccia trasparente.
L’eros di Platone è desiderio di possedere la
bellezza, muove dalla privazione e dall’abbondanza: essendo insieme Eros, Ermes
e Dioniso, è un’esperienza della soglia tra unità e molteplicità, fra assoluto
e Maya, una condizione liminare, fluida, demonica e non divina. Sul piano dell’esperienza
conoscitiva le corrisponde l’ortha doxazein: non il possesso della
sapienza-certezza, né l’ignoranza-offuscamento-dubbio, ma la capacità di ‘congetturare
rettamente’, qualcosa di simile alla conoscenza-fede del cardinale Newman. L’amante,
sul piano ‘affettivo’, cerca il bello, è un cacciatore che sa e non sa di
essere la preda e la meta dell’avventura erotica: l’apparente paradosso è che,
per desiderare, occorre godere di un possesso almeno virtuale, embrionale, è
una posizione affine a quella dell’uomo parmenideo che naviga tra i molti
avendo sperimentato l’uno immobile e intemporale, che muore-rinasce ad ogni
istante. Sul piano ‘conoscitivo’ è philosophos, ha la passione per la
sofia divina, ma non sa logon dounai, reddere rationem del
proprio congetturare: vive della dialettica della conjectura, che è
partecipazione alla verità e non suo silenzioso contemplativo possesso. Così,
nella conoscenza dell’oggetto d’amore, sa e non sa, vede attraverso l’amato ma
non ne scarta la consistenza, la presenza in una ricerca egoistica e
unilaterale della salvezza o del ‘proprio bene’.
Gesù parla di un pastore che ten psychen autou tithesi hyper ton
probaton: dà la vita per le pecore, mette la propria psyche, il
proprio nefesh al posto delle pecore e a protezione (hyper) delle pecore. L’impulso sembra
egoistico: se è un pastore proprietario difende i propri beni, se pasce il
gregge di un altro, come in Amos, deve combattere il predatore, il maligno, per
dimostrare che almeno ci ha provato. Eppure, il risultato esistenziale, l’esperienza
è la stessa: la comunanza di nefesh, di vita è reale; non può distinguere
tra la propria vita e quella del gregge. Questo non-potere è alla radice dei
comandamenti positivi, la cui formulazione è paradossale, e in ebraico è di
solito al perfetto (amerai, ahavta,
vuol dire anche ‘hai amato’): così dice Dogen – e Krshna – a proposito del non
uccidere; si tratta di prendere atto di ciò che è, di fare la verità.
Tuttavia il compagno di vita, il prossimo, non mi è dato: lo trovo per strada,
come il samaritano; nella sua condizione di sofferente abbandonato riconosco,
visceralmente, la mia di ‘straniero’, di viandante minacciato, e nella
non-dualità dell’una e dell’altra la situazione della Shekhina esule, della
misericordia o utero divino straziato dall’incubo della storia, della galut.
Tutto ciò è ortha doxazein: lo so e non lo so, e non posso ‘darne
ragione’ perché il logos è dialetticamente sciolto nell’atto, nella
conoscenza d’amore, nella contemplazione in atto. Così l’amato è immagine nello
specchio e alter ego, altrettanto sconosciuto: l’ho scelto, ma è Dio che
ci ha uniti, come due che si incontrano sulla strada tra Gerusalemme e Gerico;
in ciò che relativamente conosco desidero ciò che relativamente non conosco, ma
è un procedere dal possesso al possesso, da Dio che ci unisce a Dio che ci
trasfigura e fa risorgere. Per partorire nella bellezza si deve
desiderare-possedere, cercare-donare.
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