Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 7 ottobre 2012

Intorno all’io



L’oikonomos, l’amministratore delle parabole evangeliche è l’io in quanto mediatore, angelo in potenza.

Anche il re, la potestas simboleggia l’io, mentre lo spirito si riflette nell’auctoritas sacerdotale. Malkuth è la Donna, che conferisce l’imperium: l’uomo lo estende, lo difende, lo gestisce, ha la centralità e la fragilità dell’io.

Una personalità con un io debole è una polis anarchica, in preda alla guerra civile, in cui gli archetipi celesti proiettano immagini disordinate che si aggirano fra le strade e nelle stanze.

L’io ermetico, che connette con lucidità crepuscolare i due mondi, è un io morto e rinato, o un morto vivente: servus currens, e insieme re-servo, re-amministratore, re-pastore, custode, forte della propria fragilità ritualizzata, un vuoto che si lascia attraversare dalle correnti psichiche della comunità.

Solo l’iniziazione consolida l’io, umiliandolo, relativizzandolo, facendone un locativo, un punto di vista (e l’umiltà è l’arte di rendersi un punto, un nulla, osserva Chesterton). Solo l’umiltà e la semplicità rendono l’io trasparente e robusto, sano perché consapevole della complessità, della follia, della contingenza-libertà dell’essere come teofania.     

lunedì 3 settembre 2012

Dai taccuini di Johann von Neckarsturm (1896-1932)



Poiché il corpo è una comunità di animali retta da un sovrano taoista (che nell’uomo tende quasi infallibilmente a diventare un usurpatore, un tiranno), una cultura religiosa che benedice le austerità corporali e maledice il suicidio dovrebbe, per mantenere compatto il proprio tessuto simbolico, esaltare l’allevamento delle bestie e aborrire la loro macellazione. 

giovedì 28 giugno 2012

mercoledì 27 giugno 2012

Platonico ad Atene, 529 d. C.



Sii forte come la polvere, impara
dagli animali più spregiati
la maestà,
disimpara dal bello, dal giusto
che occhieggia tra le feritoie
l’umana facilità
ad abortire il dio.
Questo io ti comando, figlio mio,
con la ferula che tu vedi
oscillare di febbre.
Quando verrà il tuo giorno, il tuo silenzio,
sarò confutato volentieri
ma in segreto, quasi gabbando
me stesso, nel midollo consumato,
nel varco attento del cuore spezzato.

mercoledì 13 giugno 2012

Amico cuiusque segregati



Ciò che è nascosto – ditelo nei pozzi –
Attraversate il fiume delle lacrime
Sul legno delle povere parole –
Siate contenti del velame (basta
Come un volto il suo muro al vostro amore) –
Ritornate al teatro del dolore
Con misura implacabile, con gesti
D’animale e di cielo – siate desti
Nel borbottio degli inferi, tra i fiori –
Tutto vi chiede un limpido ragguaglio
Del sentiero calcato piede a piede –
Ma dalla morte effonderà il suo lume
Un sorriso tenuissimo, barbaglio
Di mondi strani e prossimi – è costume
Che si accolga lo scacco allegramente
Fingendo gloria tra i buchi del vaglio
Ostendendo la piaga al cuore assente –
È legge che lo strazio si trasmuti
In lucido metallo, in terra, in liuti –

domenica 27 maggio 2012

Riflessioni su Narciso/ riflessi di Narciso



Narciso nasce dallo stupro della naiade Liriope, “colei che bagna il giglio”, da parte del fiume Cefiso.
Il giglio, fiore dell’albedo, è il ritrarsi di Maria davanti all’Angelo, il suo prendere rifugio nel dio interiore contro la prosbolè dell’immagine. 
Narciso si conosce nell’immagine: come Maria nella visitazione di Gabriele, come anche Gesù nello specchio della sua ecclesia, dei suoi amici e traditori. Si suicida squarciandosi il petto, il cuore: così la spada della profezia attraversa l’anima di Maria e la lancia del soldato il fianco di Gesù. Il cuore spezzato è la mente tagliata in due dal Verbo, dall’esperienza spirituale che è la morte, la tragedia dell’anima. Il sangue di Narciso è l’essenza del fiore narciso come Jesus patibilis suspensus e ligno (nella teologia manichea, la sostanza del Gesù psichico è crocifissa in ogni pianta: il regno vegetale è il più puro, il più sattvico, il più luminoso del cosmo caduto). Effondendo il suo pothos suicida come fiotto prezioso, Narciso rinasce come dono, immagine pura, il fiore che è Selbstdarstellung (Portmann) della terra. Ed è il fiore che stupisce, che addormenta, che dà il thauma dello specchio e della morte (Kore che viene rapita da Hades mentre coglie narcisi). Narciso muore sulla riva del fiume, al di qua dello specchio: la sua iniziazione è il consumarsi del (nel) pothos, un martirio al cospetto dell’immagine distante e più intima a sé di se stesso, intima come il volto che si porta. Eraclito dice che facciamo perire ciò che vediamo, mentre ciò che non vediamo lo portiamo su di noi, in noi.
Narciso è cacciatore, come tutti gli artemidei, i devoti della solitaria pienezza lunare: è Artemide stessa a condurlo alla fonte che l’oracolo apollineo gli aveva predetto letale. Mentre altri artemidei famosi, come Ippolito, vengono straziati dal contatto allopatico con la divinità antagonista (il terribile eros incestuoso di Fedra), Narciso vive una passio del tutto artemidea, ancor più di Atteone, che ha qualche affinità segreta con lui. La visione di Artemide, cui Eraclito ha dedicato il suo Perì physeos, la visione della physis che kryptesthai philei perché il suo volto, come nella meditazione di Novalis, è il volto stesso del ricercatore-cacciatore, è appunto la contemplazione stupita del proprio riflesso nello specchio lunare, nello speculum naturae: il meditante vedantico vede il serpente nella corda, Bilqis vede l’acqua nel pavimento di cristallo di Salomone, Narciso vede un altro (un’altra, la sorella morta, l’anima che è noi-non noi) in sé e sé in un altro.
La narcosi di Narciso è affine alla ḥayra (perplessità) di Ibn Arabi: stupore dinamico di fronte alla coincidentia oppositorum, che è anche oppositio coincidentium. Si tratta della soglia ambigua dell’immagine, dello specchio: muro e porta; crepuscolo, cortina tremula del lethe che può condurre al tamas notturno dell’insensibilità oppure alla bhakti, alla devotio sympathetica verso l’immagine, all’aisthesis come esclamazione di meraviglia con cui accogliamo il mondo, riflesso del nostro io che è a sua volta riflesso del mondo. L’istruzione iniziatica è la stessa di Goethe: sapere che la Natura inganna con le sue immagini, e lasciarsene saviamente ingannare. (Tale consapevolezza avrà la natura di Eco, l’amante respinta di Narciso, aura del pathos stesso, riflessione inerente al pathos come suo riflesso, sua vocalità sottile). Cecco d’Ascoli nel suo poema riconosce: Io so Ella, io stesso sono la Donna del mio amore spirituale, e ciò rende l’amore più ardente anziché spegnerlo (o meglio lo rende ermetico, serpentino, spiraliforme, fa fiorire un sorriso di kouros sacrificato e liberato al fondo dello strazio erotico).

Le tre morti di Narciso.
Il tuffo nello specchio d’acqua, ad inseguire l’immagine riflessa: qui Narciso è proprio Zagreo bambino, Dioniso bambino, col suo stupor cosmogonico che è creazione del mondo nell’anima e caduta dell’anima nel mondo. Oltre lo specchio, come nel mito gnostico, Sofia-Anima proietta il proprio lethe, la propria narcosi, nelle distese illimitate di Hyle; e al contempo, attraverso la morte-iniziazione, la teshuvah-epistrofè, ritorna all’archè, alla madre, nella forma condensata di un fiore – il suo sacrificio prende la forma di un fiore, di un pensiero alacre e dormiente della Dea, sogno della terra che è pura manifestazione, corpo sottile-angelico offerto a tutto e a tutti come colore e odore.
Il suicidio per languore sulla riva, al di qua dello specchio. Questa è la morte più esoterica, più sottile: il pothos per l’immagine consuma il corpo e l’anima attraverso la distanza – la mediazione –  dello sguardo, del riflesso.
Il suicidio violento, la lama di pugnale che squarcia il petto. Qui il sangue viene effuso dalla mano stessa del giovane, la sua essenza interiore dev’essere estratta con pena, con il dolore di una scissione interna, di una iniziazione crocifiggente, brutale.
Eco salva Psyche, ma non Narciso: lui l’ha respinta nella sua lunare e fragile pienezza, ora nella morte la loro distanza è colmata dalla voce di lei, riflesso sonoro, specchio acustico – che raccoglie il prezioso dolore della morte iniziatica del suo amato per effonderlo nelle cose; è lei il tramite della sua metamorfosi. Due distanze, due pothoi accostati, resi paralleli dal destino, generano il fiore che stupisce, la droga che aliena, l’estasi che mette in comunicazione i due mondi, la morte e la vita.

  Amando l’immagine riflessa Narciso ama davvero un altro, e al contempo se stesso: ma nell’estasi erotica, nel salto della nascita-morte l’identità è dimenticata, perduta, offerta, e risorge come il torpido aroma di un fiore. Per diventare frutto, Narciso oltre all’eros dovrebbe sperimentare l’obbedienza, la hypakoè. L’obbedienza è l’ipocrisia suprema: supera l’incantesimo erotico dell’occhio – al livello del quale l’ipocrisia è “pittura”, trucco superficiale – con la profondità dell’ascolto (hyp-akoè) tutto proteso al Verbo. All’inizio l’uomo la sperimenta come doppiezza: il Verbo è una spada a doppio taglio che separa l’anima dallo spirito, ma come nella Genesi, per imprimere al caos della falsa immediatezza (l’immediatezza caduta) la direzione del kosmos, in cui interno ed esterno si corrispondono armoniosamente (come profetizza la preghiera di Socrate nel Fedro, culmine della rivelazione erotica). In tal modo si è semplici come colombe – volti a un telos che tutto unifica, spiritualmente monogami – e astuti come serpenti – capaci di aggirare omeopaticamente la doppiezza del Serpente con il taglio operato in noi dall’obbedienza.

Alla fine Narciso si identifica con l’albedo della madre, la riconquista, la assimila: cacciatore lunare, per ottenere la Luna, per essere Luna, deve patire lo strazio della metamorfosi, la rivelazione – alienante, estatica – dello specchio.  

Narciso e il sonno che Elohim fa cadere su Adamo per trarne Eva. In ebraico è tardemah, che indica quasi sempre il sonno profetico: i Settanta traducono ekstasis, la Vulgata sopor. Elohim giudica che non è bene per l’Adamo androgino essere solo, levadò, e decide di fargli un aiuto che gli stia di fronte, che gli si opponga, kenegdò. Eva, la Donna, era latente nell’Adamo, o piuttosto – secondo il midrash – attaccata alla metà maschile dell’Androgino per la schiena. Al di là dello stupore, del sonno profetico in cui cade, Adamo trova il proprio specchio in Eva, il proprio sé nell’altro-altra, ed è caduta e imitatio Dei insieme: beatrix culpa. La morte di Narciso è qui la morte dell’Adamo-Uno, dell’Androgino prelapsario: il fiore è l’eros stesso, l’agnizione erotica nell’alterità, nel tempo (“Stavolta, ha-paʻam, costei è osso delle mie ossa…”), impossibile nell’unità raccolta e sferica dei pura naturalia, che del resto “erano” puramente potenziali.

L’eros, il pothos che consuma sulla riva, è (come) la dialettica: una via che, attraverso la purificazione, conduce ad un’autoconfutazione. Oltre quella soglia albeggia l’esperienza misterica dell’uni-diade, dell’androgino ricostituito.

Quanti di noi sono disposti ad abbassarsi tanto da specchiarsi in Narciso – nel narciso? La nostra immagine dormiente nel fiore è inafferrabile: si può solo esserla morendo a se stessi, o meglio sapere di esserla come si sa di dormire, come si sa di essere radicati e offerti.

“Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso” (Wittgenstein). Non si può dire: il mondo è il mio riflesso – ciò si mostra. L’immagine non significa nulla, non ha un “dorso”, come l’angelo: è ostensione di sé, manifestazione. Quando Narciso muore, si riduce a un punto, a un seme: allora può rinascere, può essere il mondo, ritrovarsi nel mondo senza riconoscervisi preliminarmente, egoicamente. Il suo stupore è demiurgico: è lo stesso del Demiurgo – fa essere il mondo, lascia essere l’essere. Lo lascia fiorire.

venerdì 4 maggio 2012

Meditando su alcune miniature persiane



Il nesso pitagorico-platonico tra hyle e plethos (moltitudine): la nostra percezione ordinaria della “materia”, del corpo fisico, è affine allo sguardo radente che gettiamo su una folla e che non ci consente di vederla se non come una massa indistinta, che si agita confusamente. Possiamo lasciare che ne emergano volti solo se siamo preparati a trovarveli, e se sciogliamo la sua apparente omogeneità indirizzando l’attenzione come un arto di luce in cui cognizione e volontà, sensazione e affetto, memoria e presenza siano inseparate. I lineamenti scorti sul muro, la forma organica riconosciuta nella nuvola, il tono e il ritmo che improntano il percepito non sono condannati a restare allucinazioni, tracce della solitudine del soggetto, se entrano attivamente, meditativamente in dialogo con l’intera persona: se si concede loro di svelarsi gradualmente, dinamicamente, come volti e persone in cui siano offerti il principio e il fine della persona che li accoglie, in cui la persona che li accoglie possa incontrare la propria plenitudine e integrità attraverso il velo della vita e della morte.

Se la montagna cammina, se ha un volto come me, più di me, allora mi si svela al tempo stesso più terribile e più familiare di quando la vedo inerte. È più me di me stesso: è una teofania. Forse all’inizio l’angelo deve manifestarsi come un aggressore, con tutta l’ambiguità del daimon. Per accoglierlo occorre diventare come bambini, avere i loro occhi e insieme strisciare con spire di serpente, con doppiezza, con diplomazia, attraverso il mondo del bene e del male.

Gli angeli non hanno nuca, non hanno dorso. Vorrà dire che non hanno zahir – da zahr, “dorso”, appunto? Sì, ma nel senso che sono manifestazione, immagine: non rimandano ad un’essenza, ad un significato, ad un “dietro-le-quinte”. La bidimensionalità dell’immagine non è quella della sezione astratta, della sensazione irrelata e piatta, ma quella del riflesso sospeso che trae a sé e con sé nostalgia e desiderio.

L’uomo che sul sentiero crede di vedere un serpente e poi si accorge che è una corda diventa un visionario, un pellegrino del mondo angelico, se nell’incontro iniziale coglie un’immagine, il riflesso di un archetipo, e non la sovrappone alla scoperta del risveglio, non la confonde con la consapevolezza della corda: la corda è il vincolo con la realtà di veglia, non è la spiegazione dell’evento-serpente, non è lo scioglimento di un enigma attraverso una formula separata dal corpo misterico dell’enigma stesso. Chi di notte vede un serpente in una corda, se non perde la scepsi binoculare che permette di camminare tra le cose, tra il mondo immaginale e il mondo sensibile, vede un angelo, una forma sospesa in uno specchio – né reale né irreale, né oggetto né allucinazione. 

Innamorarsi, to fall in love: evento narcissico, fatto di riflessi, proiezioni. Ma cadendo nello specchio si può uscire dall’incantesimo mutilante del rispecchiamento egoico, della ricerca di conferme, ed entrare nel gioco d’amore come ars specularis: uno dei modi per farlo è prendere un impegno con l’immagine vista nel sogno dell’innamoramento, darle un appuntamento nella veglia, stabilire un dialogo ipocrita e retto (rituale) con il telos dell’incontro, che è l’immagine totale, l’Androgino. Così l’interpretazione del sogno dà corpo a un vincolo, a un legame tra la rivelazione notturna e la vita di veglia, ne fa un’indicazione divinatoria – non nel senso di sottometterla alla veglia (la divinazione come strumento dell’ego, della sua caccia di potenza magica), ma indirizzando entrambi, sogno e veglia, ad un risveglio ermetico, terzo, testimoniale.     

L’angelo, forma personale dell’istante, trasmuta la memoria caduta (la materia prima di Leibniz: spessore di oblio, passività, resistenza, chiusura della monade) in memoria dell’aion, presenza all’aion. Parallelamente fa passare da una conoscenza tridimensionale a una conoscenza quadridimensionale: nella prima, ordinaria, la memoria e la ragione cadute aggiungono alle percezioni, in quanto sezioni bidimensionali (immagini), una terza dimensione astratta; nella seconda, attiva e meditativa, le sezioni bidimensionali riflettono direttamente l’angelo come esistenza quadridimensionale, archetipo che si epifanizza. Così non si cerca più un “dietro” o un “dentro”: l’immagine non ammette spiegazione; il nascosto si rende in essa manifesto, si tratta quindi di mutare l’orientamento dello sguardo, di lasciar emergere dimensioni ulteriori dell’unica esperienza. La prosa quotidiana si disarticola in poesia, in specchio lucido e prensile: si iniziano a vedere le cose nella reciprocità dell’eros, scorgendo la luce onirica che le illumina dall’interno; si sente e intuisce che il desiderio e il desiderato sono contigui sulla soglia del cuore, sulla soglia dello specchio.

Evagrio insegna che il pensiero dell’oro può essere angelico (caratterizzato dalla percezione amorosa della corrispondenza simbolica tra oro materiale e oro spirituale), umano (la pura “memoria”, o sati, dell’oro) o demoniaco (caratterizzato dalla brama di possesso che distrugge la contemplazione). Il pensiero umano (dell’uomo terrestre) è purgazione di quello demoniaco tramite la sua riduzione alla pura sezione bidimensionale, all’azzima dell’immagine, prostrata ovvero sospesa: solo così diventa superficie in grado di riflettere la luce infuocata dell’appassionata intellezione angelica.

sabato 28 aprile 2012

Spazio, tempo, immaginazione



Il mondo come phainomenon, manifestazione, postula il riflesso, il rimbalzo dello specchio, la non-immediatezza. Sul piano della coscienza discriminante o vijñana si dà opposizione polare tra soggetto e oggetto, non-simultaneità nel tempo (ogni conoscenza è costruzione di memorie: il mondo nel suo insieme è in ritardo rispetto al Principio), distanza e dispiegamento del molteplice nello spazio.
Il centro della sfera della manifestazione è il pensiero “io”: la riflessione di Zagreo nello specchio è la volontà come identificazione e pathos, la “localizzazione” primaria – il luogo è la volontà, l’orientamento dell’attenzione.
Se il tempo è immagine in movimento (in successione) dell’aion, del malakūt, dell’anima, della IV dimensione, lo spazio è l’immagine delle relazioni, delle scheseis, degli stati della volontà-attenzione. Per questo è opportuno recuperare una perspectiva centrata sull’anima, una catottrica interiore, immaginale, esoterica.
Forse il tatto di Berkeley, fondamento del segno visuale, è quello dei misteri eleusini, origine del toccare-vedere aristotelico. È il pathos (da cui irradia il mathos) della distinzione-contiguità aurorale tra soggetto e oggetto, tra io e mondo come rispecchiamento reciproco.
La vista è come la veglia e il fuoco: ultimo grado della manifestazione e prima soglia simbolica dell’epistrofè.
L’individualità caduta (io-sono-nel-mondo), la scissione oscillante-angosciata-assetata tra soggetto e oggetto, è il ritardo, il ta’akkhur, il tempo-spazio intermedio tra Dio e Dio, tra Archè e Telos, è il momento tra lo stupore del rispecchiamento e l’assenso del riconoscimento.
Il tempo nasce dall’indecisione originaria, singhiozzo che innesca il ritmo. Lo spazio è smembramento dell’Uomo Cosmico, quindi è dissipazione (dell’attenzione), perispasmòs, nell’Uomo Cosmico.

Su Flora come nome segreto di Roma



Il nome segreto di Roma è il suo nome malakūtī, il suo esoterico. Roma essotericamente è bianca, gialla e rossa, luni-solare (olimpica) e marziale, con salde radici ctonie: ma esotericamente è verde, è Flora. Flora è il nome e quindi lo status che la ninfa Chloris, la Verde, assume dopo che è stata panicamente stuprata da Zefiro, il vento che spira da Occidente dopo l’equinozio di primavera. La viriditas alchemica dello zolfo immaturo cede il proprio sangue allo zolfo rosso, all’elisir che maturerà nel lapis, nell’Oro filosofico: Roma unifica i popoli secondo l’archetipo marziale sotto l’Ariete, ma per gettare la sua esca venerea nell’Era dei Pesci, per rigenerarsi come nutrimento immaginale. Come l’ebraismo proietta due figli nel carnevale dei Pesci, così Roma genera altre due Rome, quella bizantina sui cui convergeranno gli esoterici sogni ghibellini (e che poi darà un centro illusorio all’unico grande esperimento di imperium islamico) e quella russa che magnetizzerà il sofianismo slavista e l’utopia bolscevica, col suo paradossale universalismo particolaristico (imperiale). Probabilmente nella Matelda dantesca occorre vedere in trasparenza Flora, il malakūt di Roma.
Flora fa fiorire l’immaginazione spirituale e politica dei Pesci, la visio smaragdina dell’Occidente: la sua incarnazione originaria nel Lazio resta come il Padre nella Trinità, la Scrittura nella comunità interpretante, l’ebraismo nell’uni-triade abramica. Borgo oscuro nel Medio Evo, gran teatro esoterico nel Rinascimento e nel Barocco, la sua autorità, puntellata sulla più scoperta delle truffe documentali, non è mai venuta meno, e il privilegio petrino ha saputo romanamente nutrirsi delle contestazioni bizantine e germaniche. Amor è questo prestigio venereo, così simile alla Cupido androgina manipolata dal mago bruniano, il quale sa rimanere intimamente libero dalla visione che allestisce e scatena, come Roma ha saputo restare aggrovigliata e caotica mentre piantava il vessillo dell’ordine e tracciava il solco dello ius e dell’armonia nelle terre soggiogate. Innesto dell’Oriente in Occidente (un resto apocalittico di Troade guidato dalla protezione sottile di Venere, contro l’iniziatico astio di Giunone, sulle sponde dell’Esperia), unificatrice essoterica nell’era arietina mentre Israele vi figurava come unificatore esoterico (l’ebrea gnostica Simone Weil vide bene l’alleanza segreta tra i due popoli sradicati-sradicatori al di sotto e al di sopra dell’ostilità recitata), Roma sta di fronte all’Ecumene di Alessandro come alternativa permanente: i due paradigmi si affronteranno, come Occidente e Oriente, fin nel cuore dell’era dei Pesci – la cristianità coinciderà con i confini dell’impero romano (Roma dell’Ariete coinciderà, rinnovata, rifiorita, con la Roma dei Pesci), l’impero islamico con i confini di quello di Alessandro il Bicorne, l’Uomo dei Due Mondi, l’infelice iniziato alla regalità iranica, ai misteri della gloria scesa in terra o xvarneh. Il Bosforo, il Guado di Io tormentata da Era, resterà sempre la soglia tra le due grandi opere dell’immaginazione mitica e politica arietina: il Toro sacerdotale, pungolato dal nuovo ordine (Era custodisce il patriarcato con le sue gelosie di matrona), abbandona l’Occidente e si rifugia in Egitto, da dove ritornerà sempre per incantare, sedurre, ossessionare, promettere un fondamento alchemico (carnale-spirituale) al sogno teocratico, magari appunto per dissolverlo nelle nere acque dell’esoterismo puro, l’occultamento dei sapienti sotto il “negro manto” delle spie di Dio.