Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 12 dicembre 2011

Alcune e-mail politiche inviate ad un caro amico


Hai mai letto Lao-tzu (oggi si traslittera Lao-zi)? I suoi enigmatici aforismi sono stati utilizzati da tutte le scuole filosofiche e politiche della storia cinese, al di là dei contrasti ermeneutici spesso irriducibili: ma è forse possibile estrarne una quintessenza, un fondamento comune alle interpretazioni a volte opposte. Il popolo non può essere governato, si governa da sé: segue le consuetudini, è un’aggregazione di comunità piccolissime che non hanno desiderio di espandersi o conoscersi reciprocamente, non bisogna proporgli grandi premi o minacciarlo di grandi punizioni, non è opportuno esaltare la grandezza e la virtù; la sua vita scorre anonima, il suo radicamento va lasciato essere, non manipolato dall’alto, dall’ideologia di una élite. Eppure il perno del discorso di Lao-zi resta l’Impero: l’impero però non è lo stato, il centro esibito di una compagine, la fonte luminosa accecante che si fa via via più fioca verso la periferia. No, l’impero è un centro invisibile, un magnete simbolico: Lao-zi lo paragona ai vasi sacri dei riti, non lo puoi usare, non lo puoi manipolare. Né l’impero usa e manipola il popolo: lo lascia vivere, e così facendo lo governa, come il mozzo vuoto è il centro dinamico della ruota.
Perché ti parlo di questo strano rebis orientale, mezzo imperiale e mezzo anarchico? Perché mi pare che racchiuda alcuni spunti per ripensare l’anarchia nel senso di Ellul e di tutti gli anarchici non ideologici. Lo Stato non coincide con la convivenza umana: è un’invenzione che ha una storia, probabilmente è anche un male necessario. Male, ma necessario. Ammettiamolo. La convivenza umana non è un’aggregazione di individui, un universale astratto che mette insieme degli esseri concreti: è qualcosa di essenzialmente culturale, appartiene radicalmente all’uomo come animale simbolico prima che politico. L’homo sapiens non può mangiare neanche una noce senza inserire il suo gesto in un contesto simbolico, cioè culturale, cioè sociale-comunitario. Quindi, la dimensione sociale-comunitaria esiste da sempre (almeno, da quando c’è l’uomo): lo Stato no. Lo Stato è esso stesso un’invenzione culturale, ma appartiene più alla storia della tecnica che a quella della cultura: è un modo per gestire forme di convivenza complesse e nasce dalla guerra, dall’esigenza di tenere insieme più gruppi e comunità conquistati da uno stesso signore o clan. Sorge così la politica come tecnica di gestione: mentre l’istinto politico-associativo in senso forte, come ti dicevo, è coetaneo dell’homo sapiens.
Lo Stato è un po’ come i vestiti: non sapremo mai se li abbiamo inventati perché avevamo freddo o se abbiamo freddo perché li abbiamo inventati (l’uovo e la gallina): quel che è certo è che segnano la nostra ambigua distanza da una (immaginata) condizione primordiale. La cultura è un po’ come il corpo: cambia nei millenni, ma cambia persino meno, visto che i miti del 10000 a.C. reggeranno le vicende degli uomini anche nell’apocalittico (per te) 2050 d.C. La cultura del ‘politico’, la cultura della società, funziona sempre nel concreto, quasi seguendo proporzioni pitagoriche: oltre certi numeri non ha più senso, come la struttura del corpo animale. Per questo la società, le società, le confraternite, i gruppi etc. non si estenderanno mai fino a coincidere con l’intera massa di uomini viventi sotto un unico potere statale (figuriamoci con l’umanità intera). Questo profeti ed esoteristi lo sanno, ma non razionalizzano: di qui il messianismo dei primi e la scepsi dolorosa e illuminata dei secondi. Cercare di costruire la comunità perfetta è l’errore-crimine degli utopisti ideologici: la comunità non si può costruire, non è un vestito, è un corpo. Nasce, non è prodotta: è il vaso sacro di Lao-zi, non il vaso che usiamo per le faccende domestiche.
Ma la violenza, i crimini? Ma la polizia? In teoria se ne potrebbe fare a meno, come dei vestiti: un uomo ben allenato potrebbe magari vivere nudo sulle nevi dell’Himalaya, fondare una comunità nudista, d’accordo; ma è difficile pensare che possa trascinare con sé sei miliardi di persone. In pratica, la violenza del governo è ineliminabile come la violenza dei governati: abbiamo bisogno dei vestiti, anzi dell’armatura. Ma questo dice qualcosa di definitivo contro l’ideale di comunità libere dalla coercizione e dallo Stato? Un ideale dev’essere o irrealizzabile e quindi da scartare come una fantasticheria o realizzabile e quindi da realizzare per forza, negando se stesso? Non credo: se leggiamo i testi e le immagini antiche secondo molti livelli, perché non dovremmo farlo con la vita quotidiana, che è il libro dei libri? Noi camminiamo su una corda: questo è l’uomo, la cultura, il simbolo; non abbiamo i piedi per terra. Tutto ciò che siamo e facciamo è imperfetto. Qualunque democrazia, diretta o rappresentativa, è soggetta agli stessi rischi di qualunque altro regime: anzi, a rischi molto maggiori.
Immagino un’obiezione: Va bene, questi anarchici messianici o saggi accettano lo Stato come Platone accettava di vivere in un corpo; ma all’interno della comunità anarchica come si comportano con le violenze e gli altri difetti umani, in mancanza di poliziotti e tribunali? Risposta: mi sembra un problema mal posto. L’anarchico non è costretto a pensare, con Rousseau, che gli uomini siano naturalmente buoni: se anarchia significa questo, la condanno come una pericolosa follia. Ma né Ellul né gli altri miei eroi dicono una cosa simile. Nelle comunità bisognerebbe tendere all’ideale come si manifesta, ad esempio, in alcune regole monastiche: se penso all’altro non come a un associato in un ipotetico contratto collettivo, ma come a un fratello, in analogia con una vita familiare liberata da ogni condizionamento passionale (nevrotico), la sua prevaricazione mi farà soffrire molto di più, ma non mi verrà in mente di sanzionarla con una controreazione violenta. Se il fratello minaccia l’intera comunità con la sua ostinazione lo tratterò – in modo necessariamente imperfetto, umano – come si cerca di trattare un familiare che mette a rischio l’intera famiglia: con fermezza, ma in modo personale, flessibile, senza applicargli una norma astratta attraverso un potere delegato e impersonale (o incarnato nella persona simbolica del re-padre-pastore). Anche il più poetico amante della natura si difende dall’assalto di una tigre: ma evita di ucciderla per partito preso, se non è inevitabile. È un parametro ovviamente incodificabile, oscillante: ognuno può vederci ciò che vuole, e questo è un rischio. Ma è il rischio della convivenza umana.

Cerco di spiegarmi altrimenti. Io ritengo la nonviolenza, in quanto principio astratto, irrealizzabile e assurda. È una questione analoga alla seguente: “È doveroso attenersi al vegetarianismo?”. Rispondo di no. Se poi tu concludi: “Allora possiamo mangiare carne tranquillamente”, io mi sento di obiettare: Amico, questo è un paralogismo. Non possiamo dimenticare che cosa facciamo agli animali nei nostri mattatoi (e alle piante con le nostre colture): non possiamo dimenticare che non siamo cacciatori-raccoglitori del Neolitico. Ora, questo discorso sembra una chiosa teorica, perché non ha apparentemente ricadute pratiche. Ma non è così: appartiene a una terra di mezzo tra l’ingegneria politica e la speculazione astratta; appartiene alla dimensione culturale-politica, quella dell’agorà nel senso greco del termine. Torniamo alla cosiddetta “nonviolenza”. Simone Weil, che si era accostata all’ahimsa come ideale del pensiero religioso indiano e come teoria e pratica politica del movimento di Gandhi, criticando un responso del Mahatma fece un’osservazione importante: “La nonviolenza non serve a nulla se non è efficace”. Niente ideologia: eppure Simone Weil, di fronte alla violenza, aveva la sensibilità e la visione di una catara.
Il mio discorso voleva essere un discorso culturale, non di ingegneria politica. Ovviamente un certo uso della forza, fisica o psicologica, magari limitandola per quanto possibile al suo ruolo di deterrente, è ineliminabile dalla convivenza umana concreta. Non pertanto accetterò questa conclusione del sillogismo: “Dunque teniamoci la polizia, non abbiamo scelta”. No, io non sto parlando di ricette politiche, come non sto parlando di una morale universale, kantiana: non sto proponendo di organizzare ronde o di riabilitare la vendetta individuale o di gruppo. “Allora cosa stai facendo? Cosa proponi?”. Propongo di fare l’esperienza di comunità in cui l’uso della forza sia sottoposto a un’attenzione continua, ascetica. In un rapporto d’amicizia, ad esempio, viviamo una forma di equilibrio e libertà impossibile in un rapporto erotico, in un rapporto contrattuale e in un rapporto mediato da organi statali. Perché non intendere questo rapporto, secondo la metafora sapienziale evangelica, come lievito della pasta sociale? Senza pretendere che la pagnotta si gonfi quando vogliamo noi: senza sperare in risultati. Questa è la cultura: questa è la politica intesa come manifestazione dell’istinto politico innato, animale (l’uomo come animale politico). Non a caso, per greci, latini e indiani (ma anche ebrei, musulmani...), ogni comunità, ogni cultura, si fonda sull’amicizia: perché solo nell’amicizia l’everyman sperimenta quella libertà. Per questo i pitagorici dicevano che l’amicizia è un’uguaglianza armonica (non aritmetica: un’uguaglianza di rapporti, non un’omologazione reciproca).
Bene, se leggi Ellul, Illich e Castoriadis (ti cito i tre che preferisco, e sono molto diversi tra di loro), trovi qualcosa di simile. Niente ingegneria politica, niente ricette: ma l’alternativa non è la passività o il terrorismo o la speculazione pura. Forse, anche stavolta, siamo più d’accordo di quanto non sembri: forse la tua democrazia diretta non è dissimile dalla mia anarchia solidaristica o partecipativa. Entrambe le denominazioni hanno i loro punti di forza e i loro punti deboli, come ogni denominazione: dire ‘democrazia diretta’ esclude che si tratti di un caos atomistico, ma dire ‘anarchia partecipativa’ vuole indicare che ci sono istituzioni della democrazia rappresentativa che ostacolano la democrazia diretta e istituzioni della democrazia diretta che non esistono, se non svuotate di senso (vedi il referendum), nella democrazia parlamentare o rappresentativa.

Rispondo brevemente alle tue obiezioni:
1 – Non vorrei fare l’elogio delle milizie popolari, visto l’uso strumentale che ne hanno fatto i totalitarismi, ma la delega della violenza difensiva a un corpo speciale non è una buona soluzione: anche perché è un sintomo della stessa malattia della democrazia che ha finito per delegare la funzione governativa ad appositi esperti. Aristotele diceva che buon cittadino è quello che sa sia essere governato che governare: questo è l’ideale democratico classico. Uno dei corollari è che la democrazia diretta è una democrazia militante, in armi, anche se idealmente solo per fini difensivi.
2 – Se la delega dell’uso della forza immediata a un corpo speciale può essere discussa, la delega del potere giudiziario a una casta di magistrati è contraria allo spirito democratico, che prevedeva una rotazione delle cariche per sorteggio. Ciò implica che il cittadino sia davvero “libero” e autosufficiente nel senso antico, e non un suddito o un bambino ignorante: e ciò a sua volta implica la paideia, cioè una cultura civile. (Questo spiega perché oggi la democrazia diretta, restando così le cose, è impensabile).
3 – Io utilizzavo l’immagine cristiana della correzione fraterna, ma la questione non cambia, tanto più che, nonostante il monito di Gesù, i cristiani chiamavano “padri” i superiori dei cenobi, i vescovi e in generale i “pastori” del “gregge”. C’è sicuramente un elemento di forza e coercizione nel rapporto tra superiore e inferiore, cioè tra iniziatore e iniziando, visto che quest’ultimo non conosce la meta e il primo sì: ma proprio per questo l’iniziatore si carica del peso della forza, e anche dell’inganno, e lo fa esclusivamente per far arrivare il “figlio” dove lui (en principe) è già. Più che un deterrente psicologico, così, la forza, l’imposizione etc. diventano – possono diventare – uno strumento di fraternità: “tu puoi arrivare qui dove sono io perché in fondo già ci sei”. Senza questo “segreto” d’amore, è un gioco al massacro reciproco.
Non esistono, ripeto, né ricette, né una morale universale. Lo dice Paolo nel passo forse più nietzschiano e terribile del Nuovo Testamento: “Tutto mi è lecito: ma non tutto mi giova”. Dipende da dove vogliamo andare: la spiritualità è amorale, pragmatica.

Alla maniera degli ebrei, ti rispondo con una domanda: tu cosa faresti se tuo figlio, se tuo fratello si macchiasse dei crimini di cui parli? Lo puniresti, certo: ma con lo stesso spirito con cui si punisce un estraneo a cui si è legati da un contratto sociale? E allora avrebbe senso dire che si tratta dello stesso universale, “punizione”, in due delle sue forme particolari? “Ma che il cittadino-magistrato corregga il reo con affetto e misura, o che imponga di squartarlo con teatrale lentezza, sempre di PUNIZIONE si tratta”. D’accordo: proviamoci, e vedremo se è davvero lo stesso. Gesù ha consigliato di usare la moneta romana, il denario, solo per pagare il tributo a Cesare, in modo da restituirla a colui che l’aveva coniata: c’è qualcuno che ci ha provato? Se lo facesse una comunità intera, di media grandezza, potrebbe crollare tutta un’economia mercantilista o capitalista. Cosimo de’ Medici diceva che non si governa “co’ paternostri”: ci aveva provato?
Non so se mi spiego: forse non molto bene. Inizia a pensare il delitto e il delinquente in modo diverso: chi sono io? Chi è lui? Un personaggio di Dostoevskij dice che “ciascuno di noi è colpevole di fronte a tutti per ogni cosa”: proviamo a darlo per buono solo un attimo. “Ma uno non può vivere una vita normale se pensa una cosa simile”. Perché? Siamo nati per vivere una vita normale? Che cos’è una vita normale: bruciare gli eretici, arrotare i banditi, respirare smog con nonchalance, andare a votare i partiti politici nel 2010, ricoprirsi di gadget e vagare come spettri tra spot e rifiuti nel 2050? I cambiamenti politici, giuridici, tecnici etc. – insomma, tutto ciò che è pratico – sono sempre stati la conseguenza di ideali impossibili sperimentati in una, in due, in cento vite quotidiane.

Continuiamo a parlare due linguaggi diversi. Io non sto facendo un discorso contro la polizia e lo stato come struttura che garantisce ordine e difesa: sto proponendo di fare esperienze marginali che aiutino a vedere le fondamenta dello stato in trasparenza. Non mi sogno di dire, ex abrupto: fate a meno della polizia, della magistratura etc., perché una volta che le persone hanno accettato di convivere a un certo patto, in un certo modo, l’ordine e la sicurezza non possono che essere garantiti in un certo modo e a un certo patto. Per tornare all’analogia col consumo di carne: se dico: “Bisognerebbe tornare a un modo diverso di macellare, i mattatoi di oggi sono lager, anestetizzano nei confronti della violenza che facciamo agli animali”, uno potrebbe obiettarmi: “Ma come potresti garantire tutta la carne richiesta senza far uso di strutture fortemente meccanizzate etc.?”. E continueremmo a dialogare tra sordi, come io e te da giorni. Ma la chiave di questa reciproca incomprensione è il livello diverso dei nostri discorsi: il mio ipotetico interlocutore parla di “carne richiesta”; certo, se il sistema nel suo insieme rimane inalterato, è normale e necessario che restino inalterate le sue componenti, i suoi dettagli. Ora, il mio suggerimento va proprio nella direzione opposta, ma senza intervento politico diretto: mettere in discussione ciò che sembra naturale e scontato, mostrare con uno stile di vita particolare che lo stato come lo intendiamo noi oggi non è un fatto di natura, ma un atto storico, magari al momento inevitabile e insuperabile – o magari per sempre, chi lo sa. Non metto in discussione che un corpo comunitario, come qualsiasi corpo vivente, abbia la necessità di usare la forza per difendersi dalla violenza esterna: quest’uso della forza non è neanche violento, è una conseguenza dell’individuazione animale. Non metto neanche in discussione che la comunità debba difendersi dalla violenza, dalla violazione interna usando non le armi di Marte ma quelle di Atena: il procedimento giudiziario, la cui origine magica e ordalica non verrà mai completamente bonificata dalle istanze razionali (e infatti le Erinni hanno un posto, un posto ambiguamente onorato, nella democrazia). Quello che dico è: siamo sicuri di ricordarci perché abbiamo fatto questi passi? Siamo sicuri che questo equivalga a dire che esiste un centro del potere e della forza deputato a garantire sicurezza e ordine al corpo sociale? Non è questo un modo per deresponsabilizzare sempre di più l’uomo libero facendone un suddito? Certo che tutti vogliamo che lo stupratore e l’avvelenatore di pozzi vengano smascherati, privati della libertà di infliggere il male, sottoposti a giudizio: ma lo vogliamo solo per la sicurezza, per l’ordine? Una volta punito il reo, la ferita inferta al vivo tessuto comunitario è ancora aperta? Il reo non è una mela marcia da gettare via, è un fratello, carne della mia carne, che ha stuprato mia, sua sorella, che ha avvelenato il pozzo dei suoi, dei nostri padri. Se intendiamo la giustizia come semplice igiene sociale delegata a un centro statale, non ci riempiamo di rifiuti psichici come il mondo del Golem di rifiuti tecnologici? Questo dico: e non lo dico io, è l’argomento delle tragedie attiche, dei romanzi ottocenteschi. Non chiedo l’abolizione della polizia e della magistratura professionale: chiedo di provare a pensare le cose in modo diverso; e l’unico modo per farlo è sperimentare, per quanto possibile, una forma di vita comunitaria in cui il bisogno di riparazione, di sicurezza, di vendetta sia sottoposto a una continua revisione spirituale, come in un matrimonio, come in una famiglia, dove i problemi non ti spingono a cercare soluzioni finali chirurgiche ma a rinnovare quotidianamente il senso del legame originario. Lo so che Foucault non ti piace, ma anche lui fa un’operazione simile alla mia riguardo al sistema disciplinare moderno: non dice “aboliamo la detenzione come unica forma di sanzione democratica”, ma: com’è nata a un certo punto l’idea che i delitti potessero essere puniti solo imprigionando il reo e che il controllo sociale fosse la condizione necessaria per l’armonia civile, per una convivenza pacifica? Un’idea che non c’era nel 1500, che non c’era ai tempi di Alessandro Magno o di Assurbanipal, nonostante la loro politica già imperialistica e asservitrice.
Detto questo, io sono l’unico del mio condominio che ha chiamato i carabinieri per segnalare un violento litigio nella palazzina di fronte, litigio in cui si minacciavano coltellate e spargimenti di sangue. Non sono un anarchico da centro sociale, nonostante le brutalità poliziesche non ho mai detto scemenze come “la polizia è fascista”. Penso che la questione sia molto più profonda e radicale, e vada quindi affrontata a quel livello di radicalità e profondità. Penso che la saggezza sia inseparabile da un certo anarchismo intelligente: quello che fa ad esempio dire a Collodi che il derubato finirà necessariamente in galera e poi, per ottenere l’amnistia, dovrà farsi passare orgogliosamente per delinquente. Tutto questo senza borbottare contro tribunali e polizia, o proiettare i propri infantilismi rivoluzionari in un futuro apocalittico sempre rimandato: ma dicendo: “Bisogna restituire a Cesare ciò che è di Cesare”. Restituire, non dare, nelle parole di Gesù.

Immagina una comunità simile a quella radicale da te immaginata, che però non abbia neanche un fine politico in senso stretto, ma intenda solo testimoniare il proprio stile di vita, sperando in un contagio progressivo all’interno del popolo. C’è chi caccia, chi coltiva: c’è divisione del lavoro, ma ridotta all’indispensabile. Ci si difende dai pericoli esterni coinvolgendo il maggior numero di persone possibile. Si affrontano i pericoli interni convocando consigli, eventualmente con consultazioni separate se c’è qualche sospetto. Ecco, mi dirai, l’embrione dell’esercito, della magistratura, della polizia. Che cosa cambia? L’essenziale, direi. Non vedi la differenza tra una ronda del XV secolo e l’uso onnipervasivo della polizia che si fa dal XVII secolo più o meno, cioè dall’affermarsi dell’assolutismo? Sempre di polizia si tratta: eppure in un caso abbiamo azioni puntuali, nell’altro un sistema. Così lo spionaggio c’è dai tempi della teocrazia egizia e dei regni sumeri, ma una democrazia non può fondarsi sul segreto come nell’ideale massonico e nella Guerra Fredda. Da diversi secoli la polizia non serve ad arrestare lo stupratore, ma a garantire un ordine politico e ideologico: più o meno come l’atmosfera ecologista di uno spot di oggi non serve a farti diventare un seguace di Thoreau ma a farti comprare uno shampoo. Tra l’altro il fatto che il popolo senta come nemici principali gli stupratori, oggi i pedofili, i terroristi e i microcriminali stranieri mostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come il sistema poliziesco (non la polizia tout court) tenga in piedi una baracca i cui tenebrosi burattinai non suscitano quasi mai l’orrore viscerale della folla.

Si conferma il mio sospetto: usiamo il nome ‘anarchia’ per realtà molto diverse. Per me l’anarchia non è uno stato senza stato, una sorta di adynaton messianico: è una forma politica in cui il rapporto tra società e stato è in proporzione opposta rispetto a come si è determinato negli ultimi secoli. Certo che il villaggio arcaico ha un capo, ma si tratta soprattutto di un primus inter pares, non di un autocrate che ha conquistato il potere: la comunità primitiva è un’assemblea di liberi, di uguali, come dimostrano i nomi dei popoli tradizionali, che alludono sempre a questa condizione di uguaglianza e libertà. Sono d’accordissimo con te quando parli della validità del paradigma ‘radicale’ solo per numeri contenuti (Aristotele diceva: da 10 a 10000 persone), ma questo potrebbe essere un ottimo argomento per la mia visione, che è una federazione di piccole comunità in cui dominano autonomia (darsi le proprie leggi) e autopraghia (agire in prima persona, limitando le deleghe al minimo). L’anarchia di cui parlo io, come ti ho scritto venti volte, è comunitaristica e solidaristica: potremmo dire basata sul mutualismo, su una forma di libera cooperazione il cui modello è l’amicizia, non il contratto impersonale che è il modello delle relazioni nel libero mercato e l’assistenza dell’inabile che è il modello delle relazioni nel Welfare degli stati parlamentari. Ripeto che non penso a un’abolizione della polizia, ma a una completa revisione del sistema poliziesco che è il sistema di controllo totalitario da molti decenni in auge. Non è una mia fissazione sovversiva o vagamente dandystica: si è capito da tempo che l’ossessione contemporanea per la sicurezza è una fonte di insicurezza permanente, si sia o no d’accordo con Foucault. Se poi vogliamo parlare ancora di nonviolenza, a me sembra che non vada intesa ideologicamente come l’astensione da ogni uso della forza, ma come il tipo di azione che garantisce i risultati culturali e sociali più duraturi: tutto il resto lascia un marchio, sulla pelle e poi nel cuore, ma non un’impronta feconda e quindi veramente umana. Mi auguro che tu non voglia confondere l’ahimsa e la nonviolenza con certe scenette sui quaccheri e gli Amish di cui abbondano le pellicole hollywoodiane e le barzellette dei cosiddetti realisti, ma ti so troppo intelligente per farlo.

Allora: un uomo entra nella mia casa di notte. Se ho il ragionevole sospetto che sia armato, cerco di ucciderlo; altrimenti, di immobilizzarlo. Qualcuno fa qualcosa di male a me o a una persona della mia famiglia o in generale a una persona della comunità: d’accordo con Hammurabi, Triboniano e Beccaria, penso sinceramente che vada punito per il suo bene, per il mio bene, per il bene di tutti. Se il reo non è stato colto e arrestato in flagrante, si fa una ricerca: consapevoli che l’esito di un procedimento giudiziario è da sempre incerto, perché si tratta di un duello narrativo, immaginale; quindi nessuno ha il diritto di riporre la propria fiducia in uno strumento così necessario eppure così fallibile. Se mi servono delle persone per queste ricerche, creerò un’istituzione, un corpo, ma piuttosto affine a una milizia civica che a una polizia professionale, proprio per evitare di pagare una supposta maggiore efficienza (tutta da dimostrare) con il pericolo sempre incombente di aver inventato uno strumento utile a qualsiasi disegno separato, e quindi anticomunitario. Mi pare di aver detto cose ispirate al mero buonsenso: secondo me potrebbero sottoscriverle almeno mille dei nostri antenati. Non so che senso abbia la democrazia se non è in perpetua vigilanza, una comunità di eguali che possono avvicendarsi nell’esercizio delle funzioni civiche (almeno per quanto è possibile), che sanno bene di potersi svegliare una mattina senza essersi nemmeno accorti di ritrovarsi in un’oligarchia mascherata. Questa perpetua vigilanza è anche una perpetua militanza: ciò richiede un rapporto diretto e personale con la maggior parte dei membri della comunità stessa; di qui il rischio della democrazia diretta, che da sempre è la miopia particolaristica, come nell’Atene classica, nei comuni medievali e nei cantoni svizzeri. Gli imperi, di solito, sono molto più aperti, almeno dopo la prima fase di conquista e sottomissione: vedi i mongoli in Cina e in Persia, vedi l’impero di Alessandro Magno, di Roma etc. Comunque se puoi indicarmi alcune delle letture che ti hanno portato alle tue attuali convinzioni, te ne sarò grato.

1 – Ti avevo già scritto di ritenere necessaria la difesa esterna e interna, che non può essere un happening e quindi richiede la costituzione di una milizia. Non mi riferisco esattamente a un corpo di volontari, il che già presuppone la divisione dei compiti tipica delle società altamente complesse, ma ad una funzione soggetta a quel ‘meccanismo’ di rotazione periodica che caratterizzava ad esempio le magistrature ateniesi. Quanto al rischio di cui parli, oltre a non sembrarmi molto più atroce della degenerazione che può caratterizzare lo stile di vita delle polizie professionali, è così pronunciato solo se si tratta appunto di squadracce di vigilantes o di mobs appena ufficializzati, non di una istituzione civica legata a statuti, regole etc.
2 – Quello della maggiore professionalità è un argomento specioso. La percentuale di casi risolti non è molto cambiata nel corso di parecchi decenni (secondo alcuni studi è addirittura diminuita, ma per motivi complessi): e poi sembrerà pure un vezzo da letteratura vittoriana, ma di solito è il dilettante ad avere l’intuizione che scioglie il nodo, non l’esperto formatosi ad una scuola. Tra l’altro, con la scusa della sicurezza che esigerebbe indagini sempre più accurate si vanno affermando forme di controllo impensabili, qualche decennio fa, perfino dai visionari più epilettici.
3 – Ripeto: anarchia non vuol dire mancanza di coordinamento, ma coordinamento non centralizzato o meno centralizzato, a seconda delle esigenze. Se parliamo di guerra, basta leggersi Tolstoj per capire che l’esito, non dirò di una campagna, ma di una battaglia dipende da variabili infinite: sicuramente la disciplina è una di queste, ma a volte funzionano meglio gli eserciti confederati se guidati da uno stesso scopo o ideale (vedi non pochi casi di guerriglia coronata da successo). Se parliamo di polizia, mi permetto di osservare che la metafora militare va bene fino a un certo punto: la polizia non è “in guerra contro il crimine”, come dicono i telegiornali dei nostri tempi, ma al servizio di un intero edificio civico di cui è solo una parte.
4 – La criminalità organizzata non si combatte e non si è mai combattuta con l’intensificazione di misure poliziesche. Sono d’accordo sulle infiltrazioni etc., ma soltanto come parte di un piano che mira soprattutto a tagliare le radici di questi gruppi di potere criminoso: operazione, com’è noto, eminentemente culturale-sociale, perché se le mafie etc. non spacciassero miti prima che droga sarebbero pochi infami predestinati ad entrarvi o ad appoggiarle.

Piccola premessa, forse ovvia: sono passato dal primo livello del mio discorso, quello che definirei culturale (esperienza di comunità rette dall’amicizia e dalla coltivazione delle virtù come possibile fondamento di una società nuova), ad un livello di morfologia delle istituzioni che potrebbero sorgere da un coordinamento di varie comunità di quel tipo. Paradossalmente, il primo livello è più ‘pratico’ del secondo: è un ideale vivibile, mentre quelle istituzioni richiederebbero un tipo di società attualmente inesistente, da costruire (se ce ne fossero le condizioni, ma non ci sono). Il genere di milizia da me ‘proposto’ non è un mob da Alabama anni ’40 o da western, né un corpo professionale: così come una giuria popolare (autentica, cioè formata da un’educazione civica quotidiana, non un gruppo di votanti sorteggiato in un contesto di democrazia rappresentativa) non è né un’adunata improvvisata o un ‘tribunale proletario’ brigatistico, né una casta di magistrati che possiede le chiavi della conoscenza e non entra e non fa entrare gli altri (citazione evangelica). Pensavo ai comuni medievali, non all’OK Corral: ma senza nostalgia per i primi, che spesso erano rissosi e violenti quanto e più della Frontiera americana. Prendila come un’analogia.
Scusa se ritorno all’esempio dei mattatoi, ma oltre a essermi molto caro mi sembra anche molto chiaro. Se mi chiedi: “Le cose vanno bene come sono?” ti dico no. Se mi incalzi dicendo: “Allora che facciamo? Macelliamo le bestie sull’ara sacrificale o col coltello come musulmani ed ebrei? Diventiamo tutti vegetariani, magari?”, io rispondo no no no. Anzi, aggiungo: “Sarebbe essenziale ripensare interamente il rapporto tra noi e gli altri viventi, ma oggi né in Italia né nel resto del mondo ci sono le condizioni per cambiare fattivamente la situazione. In alcuni periodi è possibile e opportuno intervenire a livello istituzionale; in altri non si può far altro che testimoniare le proprie idee all’interno di gruppi non settari, ma aperti e vigili”. Ripeto, la società non si può manipolare, è un tessuto vivente: prima cambiano, in modo organico e graduale, le idee e i miti, poi si possono infilare le mani in pasta, e anche nel fango.

Capiamoci: anche i poliziotti moderni sono volontari! La differenza è tra la formazione di un corpo speciale, specializzato, chiuso, e quella di un corpo civico, sempre addestrato ovviamente (altrimenti sarebbe una gag da commedia all’italiana), ma aperto e a rotazione periodica come le magistrature in buona parte delle democrazie dirette finora sperimentate. Ti concedo che il corollario è la nascita di una democrazia armata – ma non di un esercito nazionale in stile napoleonico, fondato sulla coscrizione, cioè su un obbligo indiscriminato, mentre una democrazia come quella comunale antica sorge da un giuramento privato tra persone libere e consapevoli, come un club! Così nasce la vita associata: solo che ce ne siamo dimenticati. E ti concedo anche che oggi è praticamente impossibile, perché abbiamo alle spalle le monarchie nazionali, gli assolutismi, la burocrazia napoleonica, il parlamentarismo massonico, i fascismi e i comunismi... Però concedi tu a me che questo bel karma dell’Occidente meriterebbe un ripensamento, come minimo. Se la tua obiezione definitiva è che quel tipo di istituzioni popolari è soggetto a degenerazione, sono d’accordo con te, perché lo sarebbe chiunque non sia un malato di mente: ma questo è un argomento contro qualunque opera del bipede pensante. Se vogliamo l’immunità, è meglio che ci ritiriamo sul Soratte: se crediamo nel senso e nella bellezza (rischiosa) della comunità, è meglio pensare a ciò che è più giusto (secondo la nostra coscienza).

Forse hai ragione, io non sono un politico, ma un polites un po’ lontano dalla mischia. Ma forse anche un rapporto sessuale fra due persone ordinarie, malate e di scarse doti morali e intellettuali, può sembrare meno efficiente di quello tra due iniziati all’eugenetica – sebbene, essendo noi molto ignoranti sulle vie della natura, la cosa sia tutt’altro che certa (sto parafrasando Chesterton). La differenza è che nel primo caso salvo la rischiosa libertà, nel secondo la sacrifico a un pragmatismo dalle basi a mio giudizio arbitrarie. Comunque non parlavo di “tutti i cittadini”: parlavo di un corpo fondato non sulla specializzazione ma su un’ampia partecipazione civile. Se mi obietti che c’è bisogno di un corpo di esperti, posso solo dirti che a mio parere la tendenza da coltivare, in una democrazia diretta, è quella verso la riduzione di questo tipo di istituzioni (non verso la loro abolizione) a vantaggio di una maggiore mobilità: in questo modo, e sempre con la condizione preliminare (necessaria in democrazia) di un’agorà costantemente attiva e consapevole, si potrebbe limitare la tendenza opposta, quella di ogni polizia a diventare la longa manus di un potere oligarchico. La democrazia ha una grave controindicazione, che è anche il suo segreto: ha bisogno di uomini attivi ed educati. Ogni striscia di tenebra, ogni spazio di ignoranza e passività è il terriccio in cui le élites di illuminati gettano avidamente i semi del dispotismo. 




sabato 10 dicembre 2011

La Risalat al-aʻyan al-thabita di Ibn ʻArabi: breve commento


Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole

Sappi – possa Dio farti riuscire in ciò che Egli ama e gradisce – che un dotto trovava estremamente problematico il seguente hadith qudsi: “Ero un tesoro nascosto e amai essere conosciuto; così creai la creazione per essere conosciuto”. Rese noto che la domanda era stata posta a molti degli ʻulamā nostri contemporanei, ma che non erano riusciti a dargli una risposta.
Quando considerai quanto aveva detto, Dio – sia Egli esaltato – mi ispirò quattro risposte. Comincerò riportando ciò che ha detto e poi aggiungerò le risposte che Dio – sia Egli esaltato – mi ha elargito per grazia.
Il problema è che il nascondimento è una realtà relazionale, in quanto dev’esserci qualcosa di nascosto e qualcos’altro al quale il primo è nascosto. Non è possibile che colui al quale qualcosa è nascosto sia Dio – sia Egli esaltato – perché Egli è manifesto a Se stesso, conoscitore della Propria Essenza nella preeternità e nella posteternità. Né è possibile che sia la creazione, perché non esistevano creature nella preeternità in modo che Dio potesse essere loro nascosto. Il hadith dice: “Dio era e non c’era alcuna cosa con Lui”. Pertanto il nascondimento implica gli esseri creati e questi ultimi sono la causa secondaria del nascondimento, non della manifestazione. Ma ciò è l’opposto di quanto indicato dal hadith, perché nel suo senso letterale il hadith indica che Egli – sia Egli esaltato – era nascosto nella preeternità quando la creazione non esisteva. Questa era la domanda iniziale.
Ebbene, io dichiaro che una risposta a questa domanda può esser data in diversi modi. Il primo è che per nascondimento si intende la non-esistenza di qualcuno all’infuori di Lui Stesso che Lo conosca. Quando volle che ci fosse una pluralità di soggetti che Lo conoscessero, Egli creò la creazione. Egli espresse la non-esistenza di un conoscitore con l’immagine del nascondimento, come se avesse detto: ‘Io ero un tesoro glorioso e un nobile gioiello, ma non c’era nessuno che fosse consapevole di Me tranne Me stesso e nessuno che conoscesse la Mia esistenza se non Io’. Perciò usò l’immagine del nascondimento in un senso generale, intendendo quanto è da essa implicato, ovvero la non-esistenza di chiunque potesse conoscerLo. Quindi il significato sarebbe: ‘Io ero un Signore benefico e un Dio di grazia e di traboccante pienezza, ma nessuno era consapevole di Me né conosceva la Mia Perfezione e la Mia Bellezza. Così amai essere conosciuto e creai la creazione per essere conosciuto’. Questo è un significato plausibile e che non fa problema.
La seconda risposta è che le cose hanno due tipi di esistenza: l’esistenza nella conoscenza e l’esistenza esterna. L’esistenza nella conoscenza coincide con le cosiddette entità immutabili, che sono primordiali e preeterne. L’esistenza esterna è originata nel tempo e il nascondimento di Dio – sia Egli esaltato – era relativo alle entità immutabili nella preeternità, perché le entità immutabili esistevano con Dio ma non avevano alcuna consapevolezza di Lui, e perciò Dio era nascosto relativamente a loro. Quando Egli volle che le entità immutabili Lo conoscessero, le condusse dall’esistenza nella conoscenza all’esistenza esterna in modo che Dio, sia Egli esaltato, fosse conosciuto, perché non si può essere consapevoli di Dio, sia Egli esaltato, se non attraverso l’esistenza esterna.
La terza risposta si ricollega a quel che [al-Jawhari] dice nel Sihāh, riportandolo da al-Asma’i: “ho nascosto la cosa” vuol dire “l’ho sigillata”, ma anche “l’ho resa visibile”, perché questo [verbo] appartiene al gruppo degli addād [=termini con significati tra loro opposti]. Perciò le Sue parole: “Ero un tesoro nascosto” possono essere intese come derivanti dal termine ‘nascondimento’ nell’accezione di ‘manifestazione’. Quindi il hadith significherebbe: “Ero un tesoro manifesto a Me stesso, ma non c’era nessun altro a conoscerMi tranne Me stesso, e Io amai che qualcuno all’infuori di Me potesse conoscerMi, e creai la creazione”.
La quarta risposta è che il significato può essere: “Ero nascosto al massimo della manifestazione”, come se avesse detto: “Il Mio Sé era quasi nascosto a Me stesso, e a fortiori agli altri, a causa della massimità della manifestazione. Perciò creai la creazione come un velo alla Mia manifestazione e una cortina sulla Mia luce in modo che parte della Mia manifestazione restasse nascosta e gli esseri creati potessero percepirMi”. Non sapete che se qualcuno desidera guardare direttamente il sole si fa ombra agli occhi con la mano e copre una parte della sua luce in modo da poterne percepire un’altra? Perciò Egli creò gli esseri creati affinché fossero un velo sulla Sua luce e ne fece una causa secondaria del Suo essere percepito: “Amai essere conosciuto e creai la creazione”. Sia lodato Colui che pose la manifestazione a ostacolo del percepire e fece della cortina e del velo una causa secondaria della manifestazione e della percezione. Questa è la conoscenza delle realtà.        
 
Breve commento

Questione relativa al hadith del Tesoro Nascosto: nascosto a cosa? Non a Sé (Egli è manifesto a Se stesso), né alla creazione che non esisteva. Eppure tale nascondimento sembrerebbe implicare una relazione eterna tra Haqq (Dio) e Khalq (Creato): il tesoro dell’Essenza manifesta nei Suoi Nomi e nascosta nei Suoi Nomi, batin e zahir in una dialettica circolare inestinguibile.
Prima risposta: il nascondimento è relativo a un soggetto conoscitore altro da Sé; Dio volle essere conosciuto da altro, in altro, volle essere in altro – la Volontà-Uno vuole l’ostacolo, l’objectum, farsi oggetto, specchiarsi, la conoscenza di Sé nello specchio dell’altro è un’estasi d’essere nell’altro. Da un lato abbiamo la Volontà di Schopenhauer, non-razionale, ignorante, che vuole soddisfare la propria tensione infinita nell’esistenza finita, fallendo infinitamente – ovvero la Volontà come tanha, come soggetto della Maya-Avidya; dall’altro abbiamo il bonum diffusivum sui, la volontà estatica che si realizza nella libertà chiudendo infinitamente il circolo del nihil, il nulla preesistenziale come riflesso della decreazione “finale”, dell’epistrofè che riassorbe la manifestazione.
Seconda risposta: Dio è nascosto alle entità immutabili nel loro stato di esistenza conoscitiva, ovvero come idee in mente Dei, perché in tale stato non sono consapevoli di Lui, non sono presenti a Lui – sono non-esistenti, pure relazioni nell’immediatezza conoscitiva-esistenziale di Dio; così Dio volle che le entità fossero consapevoli di Lui nello stato di esistenza esterna, come realtà individuali, enti che partecipano dell’atto d’essere che è Dio stesso. La volontà creatrice è l’impulso, senza prima né poi, con cui il Reale si realizza nell’esistenza una e molteplice, come individualità determinata nelle infinite individualità, in tal modo trasferendo le proprie determinazioni essenziali, implicite, immediate, nelle esistenze-teofanie: la libertà come non-oggettualità, come superamento dell’ostacolo-ignoranza, richiede il velo, lo specchio, il limite che dinamizza, mette in collegamento l’essere con se stesso, si pone come barzakh tra l’Infinito e l’Infinito, tra i due oceani. Così l’ignoranza e il male sono il segreto del Reale, di Dio, la Sua iniziazione come iniziazione a Sé.
Terza risposta: coincidenza di occultamento principiale e manifestazione principiale; il Tesoro è nascosto-manifesto, nascosto perché manifesto, manifesto perché nascosto. La Sua manifestazione è occultamento all’altro da sé, esclusione dell’altro da sé, del nulla, ma anche vincolo alla libertà-bene; il Dio manifesto a Sé è occultato all’altro da Sé, ovvero alla propria pienezza-realtà suprema, la Sua presenza a Sé come posizione di Sé è mancanza dell’altro e bisogno dell’altro, della creazione come effusione estatica della Misericordia, limitazione che realizza l’infinito, manifestazione-riflesso che rende tutto intimo, Spirito.
Quarta risposta: La manifestazione di Dio, del Reale come Dio, è nascondimento a Sé e all’altro, è come se lasciasse un residuo, aprisse un vuoto: così il velo che consente la rivelazione è il compimento della manifestazione; l’ignoranza, il nulla, il male sono ciò che manifesta la sovraconoscenza, la sovraconsapevolezza del Reale di cui parla Eriugena, che è ignoranza sopra la conoscenza, intimità libera.



sabato 3 dicembre 2011

Ultime parole di Shahrazad


per Luigi Turinese

Mille notti più una
perché il congedo, mio re, ti lasciasse
espirare di nuovo sulle cose,
ti ho accompagnato nei crocicchi assurdi,
nei nebulosi vicoli di anima
come nella mia carne
di sposa minacciata. Già lo senti
come Allah ordisce il suo tappeto
di lievissimi inganni, di astuzie
grossolane e sapienti, che ci strappano
il grave cuore, l’austero intelletto –
il tappeto di squisita fattura
sul quale preghiamo esinaniti.
Già vedi com’è folle voler stringere
quell’incanto velato che ti spoglia,
quella misericordia, quel sorriso
che umilia e rinfresca la tua gloria.