Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 30 luglio 2010

Corsivo impubblicabile sul referendum del giugno 2005


L’embrione è più forte di me
(la parola con cui lo parlo
è schermo alla luce,
moggio sulla lampada), forse perché
l’essere è, il non essere non è.
Come avrebbe votato Parmenide? Come Lao-tse?
La vita è piccola, minimo il creato,
per questo sorridono, soffrono e ci travolgono
come l’alito nudo
che orripilò il profeta
forzandolo a velarsi.
Vedo facce
di carne tranquilla, di tranquillo sdegno,
corpi senza memoria dell’antico
disastro, senza naso per la gloria,
corpi listati a lutto di parole
senza brace di lutto per il verbo,
corpi senza pudenda, senza rughe
di essere – forse perché
l’essere è, ma io posso non essere.
Batti un colpo, Lao-tse. Parla, Parmenide.

martedì 27 luglio 2010

Appunti su Parmenide


Provo a rileggere Parmenide attraverso Florenskij e Wittgenstein (che strana coppia! E che ancor più strana triade!).
Il reale è l’esistenza, l’Uno-Tutto. Le idee-archetipi sono i possibili (universali e necessari), che la mente umana astrae dal continuo dell’esistenza. Dalla prospettiva umana, i possibili (idee) sono più reali del continuum materiale e della percezione particolare, che pure sono simboli della concretezza ultra-noetica e ultra-possibile (il plotiniano Uno). L’atomismo delle forme si è imposto come soluzione filosofica delle aporie zenoniane (-parmenidee) sull’Uno-Molti, il vuoto fisico come risposta all’enigma del non-essere e del continuo. Ma perché l’Essente parmenideo è stato presentato come un’astrazione, come una sorta di gioco di prestigio mistico-filosofico? (È una questione affine a quella del Vedanta). La sfera-uovo è piena di contenuto, non è un grande guscio formale! (O meglio, c’è anche una parte formale, logico-categoriale, dell’insegnamento parmenideo, ma la pessima tradizione del testo, e la non migliore ricezione, ha forse spinto alla confusione tra i diversi piani). Per scoprirne il contenuto, credo sia opportuno ricorrere allo sguardo fenomenologico – un po’ come fa il buddhismo Mahayana, che però ha un logos troppo culturalmente-spiritualmente distante. Del resto, le “due vie della dizesis (della ricerca razionale, del logos-discursio)” non possono essere applicate ad ogni noema, ad ogni conoscenza intenzionale (diciamo così)? “Tutto è in tutto (in tutte le cose)”, l’intuizione anassagorea-ermetica non può essere una chiave dell’essere parmenideo? Ogni eon come manifestarsi concreto di tutto l’eon: la sfaira di Aletheia (la Manifesta) come quarta dimensione realizzata in ogni nostro atto di vita-conoscenza (la sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte – una sorta di coincidentia tra gli opposti dell’infinito e del finito, un infinito attuale?). Ma è davvero possibile leggere in questo modo i frammenti parmenidei? La comprensione del nous fa già problema: credo che per superare il ‘mentalismo’ post-rinascimentale il ricorso a Wittgenstein sia indispensabile, o quasi.
Il noein come il ‘pensare’ di Wittgenstein, l’uso normativo di simboli? In effetti il nous è sim-bolico, rende (riconosce come) reciprocamente presenti (pareonta) i lontani (apeonta), realizza (il pensare come fare!) la continuità dell’Uno-Tutto come Uno-Molti (eon tou eontos echestai). L’eon è dunque il simboleggiato (ouneken esti noema) all’interno del quale accade il nous-noein che lo realizza riempiendolo di contenuto (ou gar aneu tou eontos... eureseis to noeinto gar pleon esti noema). Ma cosa può garantire l’identità di noein ed einai se non la giustizia, dike-ananke-aletheia, la stipulazione universale (la berith ebraica, il mithāq coranico) in sé vuota, nel senso che è manifesta solo nelle particolari espressioni culturali umane (il noema riempie l’einai)? Si obietta: ma allora come fondare questa idea di un tutto limitato, di un insieme di tutti gli insiemi, di un universo che è immanente a tutti gli universi e tutti li trascende? Qui il finitismo di Wittgenstein avrebbe di che demolire: si tratterà di un’intuizione mistica che non può entrare nel logos se non nel modo normativo-legislativo, profetico, dell’annuncio parmenideo?
Il nous si rende presente (paristatai) all’uomo come la crasi simbolica delle sue membra molteplici: è un vedere come, uno sguardo simbolico-organico. La meleon physis è ciò che rende l’uomo-microcosmo connesso al macrocosmo (vedi Florenskij sul corpo)?
Importante: il nous, interno all’eon, in quanto attività, noein, lo realizza-riempie. La dea incontrata da Parmenide giovinetto (kouros) è forse Afrodite, che congiunge simbolicamente i sensi al simboleggiato, alla platonica idea?
L’eon come “il mistico” di Wittgenstein? Non può essere detto, ma mostrato – eppure chren to legein eon emmenai... Forse il pensare e il dire appunto mostrano (rivelano) il Tutto-Essente, e il non-senso della filosofia (e della poesia) è l’esperienza-limite, il gioco-limite segnato dalla mania. Il pensare e il dire non comprendono-oggettivano il Tutto-Essente, ma lo rivelano – e il pensare-dire della poesia e della filosofia possono rivelarlo caricandosi della paradossalità del limite-confine. La filosofia, per non farsi ‘metafisica’ (nel senso heideggeriano-wittgensteiniano di super-fisica), può entrare nello spazio aperto dalla (della) poesia, farsi esegetica-dialettica alla luce della poesia – e del linguaggio comune.
Poiché il “mistico” di Wittgenstein è così affine al timore-stupore che riconosce la creazione (e che secondo la Bibbia è il principio della sapienza, reshit chokhmah), l’essere di Parmenide può essere forse riletto alla stessa luce: non la luce della creazione, però, ma quella che illumina la Manifestazione orfica librata sulla Notte principiale.

domenica 25 luglio 2010

In margine al commento di Nachman di Breslaw sull'ordalia delle acque amare


Come l'ordalia delle acque amare prova la fedeltà o l'infedeltà della sposa, così l'umanità sposata dal/al Verbo in Gesù beve l'amarezza della Croce, in cui è cancellata non solo la formula di maledizione, ma il Nome stesso di Dio che vi è contenuto e la sostanzia. Nella notte della prova di Gesù non è cancellato Dio ma il suo Nome, che tuttavia con Dio coincide in quanto è il suo vivente manifestarsi: il Nome scritto è cancellato per la prova che riconcilia gli sposi, la Torah scritta è sospesa, annientata nella morte del Verbo incarnato per l'effusione della Torah di grazia, dello Spirito di concordia, l'amore del mondo redento, del Regno. Secondo la qabbalah, nella colpa (chet, lettere chet-alef-tet) la Alef, il Nome di Dio che è Dio, è presente - ma muta, quiescente, esiste e fa esistere la colpa (la colpa-espiazione) nello stato di non-manifestazione. Così è un unico mistero, e la Croce (mette alla) prova realmente l'umanità di Gesù, l'uomo Gesù, in cui Dio è velato proprio per esservi intimamente e compiutamente presente - cancellato per essere bevuto, bevuto per provare, per mettere alla prova, la sposa, la carne umana e terrestre.

Contemplando la Conversazione platonica di Casorati



Vestito ammodo, quasi catafratto
della mia esoterica miseria
ruminando la tua nudità
più velata del mio capo mortale
mi schermisco dalla tua acqua
raggiante, prendo rifugio
da te in te.


Donna di splendori
e di dolori, questa presenza
basta a dirmi la pace del mostrare
più densa d'ogni angoscia lunare -
basta a darmi a me stesso, come la mirra
sulla mia mano e il mio mento
come la cenere e il sale
sulla mia fronte mortale.

mercoledì 21 luglio 2010

Such stuff as nightmares are made on


Ogni evento storico è speculum di tutta la storia (intuizione antica e medievale oggi allegramente schernita o vigorosamente dimenticata): ma se c’è uno specchio particolarmente e orribilmente nitido, è la crociata albigese. Per impedire che i catari del Midi si ammazzassero con la sacrilega oscurità dell’endura, Simon de Montfort li prevenne ammazzandoli con il trionfale splendore della spada.

martedì 13 luglio 2010

Piccola musica di resurrezione notturna


Per Mariella e Giovanni
Quando sono morto
nel punto inafferrabile
che costruisce i mondi –
quando ho perduto
l’ansia di conoscermi
nel tessuto dell’oblio –
e consegnato al sonno
ho accarezzato un’acqua
che sapevo remota
e mia – quando ho veduto
velarsi lo specchio
e udito esattamente
il fiorire del suono
che sarò eternamente –
tu sei apparsa finalmente
non come il primo giorno
giocando a moscacieca –
ma come il primo grido
che ho compitato accolto
nel silenzio del ventre

giovedì 8 luglio 2010

Conversazione nella periferia romana (redazione definitiva)


I.

Ma dimmi, amico, quando
la giovinezza è caduta
dal dolore veggente del poeta,
dai suoi solchi di luce notturna,
quando ne è stato fatto
un ceto, un universale
post rem
, una classe
di uomini incerti e vigorosi
per succhiargli il vigore e manovrarne
– ipnotizzata bene – l’incertezza?

Questo pensavo tra una tappa
di deserto e l’altra
della via Casilina,
periferia d’un centro mai stato
perché la città – ricordi, amico? –
è l’invenzione con cui Caino
cercò di mitigare l’espiazione, di differire l’incontro
maledetti dell’Eden, unitevi
e in uno stridore concorde
di manette mentali ben oliate,
o male, dove lo punto
il compasso, e quale raggio dovrei mai
determinare, se il cerchio
è figura di quiete fremente, di ricolma esattezza?

Li vedo, come li vedi tu, i giovani
che forse fummo, e che morendo
saremo, forse, li vedi come cercano
di consistere con quello che hanno
– gadgets, smorfie, eroi sempre più irridenti
la loro fame non più puerile (non c’è
età più violentemente, ingordamente ascetica
della giovinezza) la loro fame
giovanile ed eterna
di bellezza, la mortale, la giusta
bellezza di un destino comune,
il mio, il tuo, il destino
solitario e comune cui ci chiama
anche e soprattutto questo cielo?

Le tue torri, Roma
mia, Roma tua, non difendono
con le loro ossa tutte uguali
ma stigmatizzate da arcana,
secca, inaudita scrittura
là dov’era il midollo, non possono
difendere nemmeno una pecorella, un’anima
variamente smarrite, un filo
d’erba, un gatto, dalla smorfia
di Medusa del nostro evo: non fanno
che cingere un bivacco di immagini
sempre più pallide, un bivacco
di giovinezza sempre più orba.

Neanch’io ti vedo, luna, sebbene
al limitare estremo della mia giovinezza
e con un occhio tagliato nel cuore
dal sapermi nomade: eppure ti penso,
non indifferente né salvifica,
non onnisciente, non
galileiana né armstronghiana, ti penso
come un animale o un sasso, luna,
come farebbe una strada qualunque
della Roma mia e tua
che non vuol sopravvivere davvero
ma stare e consumarsi alla tua luce
e alla tua ombra dolci sul massacro.

II.

Una cosa bella è una gioia per sempre,
una cosa brutta tortura il cuore
e la carne fino al corno
di Elia, fino all’occhio del Giudice.
Ciò che mi tiene avvinto in aeternum
a questa città, è la sua vocazione
all’apocalisse: tutto in lei, ogni cosa
– il bello che fu promessa di bello
ed ora, morto, manda vaticini,
il fu-bello non morto, vampiresco,
e il troppe volte morto, e la piena tranquilla
del brutto d’ogni età – in lei tutto
mi costringe all’estremo orizzonte
come una pistola puntata
a un orizzonte contratto. La città
(la mia) è una pistola
apocalittica, un teatro
di falsa morte, inquieta,
alla meglio sedata,
dove il bene, il bello, sono dettagli
catastrofici, colpi di scena
subito esatti dal buio, incidenti
di percorso, stradali. Qui l’abisso
della noia chiama l’abisso
delle cose ultime, le cose di Dio
aperte in una luce di disastro.

III.

Ma i giovani, amico, i giovani
che non siamo mai stati, che forse
ci è dato essere tra una parola
e l’altra, tra due pensieri già vecchi,
come attenderanno le cose ultime
se non gli fioriscono dal sangue,
se non gli accestiscono dal seme,
come fanno a gonfiarsi, a partorire,
come gli riesce di morire
se non hanno più un corpo?
Per questo la bellezza nemmeno li offende
o trafigge: soltanto al principio
li infastidisce, poi li attraversa
lasciando al massimo l’uovo e lo sperma
– disgiunti – di un rimorso. Talvolta
quando li sento bestemmiare
così compiti e tetri, a bocca larga
di sonno, quando li vedo
arrancare sui binari indegni
di indegni padri, col passo
di un vecchio vagone
avviato al deposito, se non fossi vile
più di loro, li prenderei per il collo
in pace, ardentemente,
senza il levame di un sogno
da gettargli in gola, se potessi,
asciutto e consumato, gli urlerei:
Spogliatevi di sky, della vostra banca
che è differente, toglietevi il breil
intoccabile, strappatevi di dosso
l’ipod, i jeans, il tatuaggio, la
maglietta marchiata dal negriero
fatuo delle sfilate, sfilatevi i boxer
fosforescenti, i bra televisivi,
il tedio della scuola e del weekend,
il ghigno dell’autobus, la smorfia
dell’happy hour, lasciate cadere
abbronzature e debiti pallori,
rinunciate alla timidezza arrogante
dello sguardo, scrostatevi i sensi
dalla città, dal ghetto, dalle morbide
astrazioni del secolo: vi prego,
abbiate il corpo che vi è stato dato
quando non eravate, e tutto intero
datelo al tutto, e a niente e nessun altro,
gettate il vostro pane sulla faccia
delle acque, nei flutti lebbrosi
del Tevere, buttatevi a fiume,
e dopo molti giorni, molto a breve,
praticamente subito, troverete sul fondo
l’albero e il gatto, la morte e le stelle,
le cose prime, per la prima volta
aperte nella tenebra lucente
della vostra difficile aurora.

domenica 4 luglio 2010

Madrid 11 marzo 2004 - a un mese dalla Pasqua


Dov’è il fiato che ama
nel bozzolo del fiato che s’incrina?
Lo sapevo, ma l’ho dimenticato,
non mi sono concesso di morire.
Facile
entrare nella vacanza di ciò che sorge e svanisce,
facile il chiaro ossequio, prima o dopo.
Eccomi qui, dove resto, silenzioso
nella fibra più aguzza e tenera del grido,
nel sangue più limpido dentro all’acqua del grido.
Lascio gridare, sui miei resti, il grido.
Capisco perché ci danno questa morte, capisco
che il sogno di sangue vuole portarci
un brandello di veglia senza fiato
un resto di visione senza faccia
in cui la nostra faccia colossale
si dischiuda dal guscio della luce
dalla placenta torbida dell’aria
dalla colla amorevole del fiato.
Capisco che la bomba voleva qualcosa
come la grazia e la tortura, qualcosa
come sgravarci di noi stessi, ora,
tutti insieme e del tutto, come assisterci
di colpo nella cecità necessaria
del parto che ci era destinato.
Veniamo al buio mentre aleggia stanco
ad una luce troppo quieta e ovvia
l’angelo decisivo che avevamo augurato.
 
+ + +
 
Dov’eri tu quando mettevo
nei suoi ranghi Orione?
Quando intrecciavo le Pleiadi
e distillavo la pioggia?
C’eri tu quando disegnavo le zampe
e il cuore dell’ibis e tentavo il suo canto?
Ora m’avvedo, ho sentito abbastanza,
le orecchie sono pregne, hanno rotto le acque,
adesso è tempo di vedere un poco,
tornino su dalle rotaie gli occhi
salgano su dalle reni stuprate
è ora che vedano, perché giusto ora m’avvedo
che non c’è da rispondere al Tremendo
quando sciorina il circo tumultuoso
della Sua tracotanza, non c’è
risposta alla nostra bassezza,
alla Sua altezza solo questo silenzio
comprende tutto in basso come in alto,
questo silenzio infilato nel grido
inchiodato nel muscolo che trema
del mio fiato.
Non c’è risposta, che non sia la bassezza
del silenzio e l’augurio della bomba,
la disfatta ridente e madornale
di Chi inquisiva, no, patrocinava,
anzi teneva in grembo l’imputato,
anzi lo era, e il turgore agghiacciato,
nel trionfo, del Pubblico Ministero,
(una presentazione del circo, una mirabile
intimazione d’ordine assoluto),
di chi si fece avanti tra i figli di Dio
con l’aria del più geloso, del più iniziato.
 
+ + +
 
Dove sei, mio respiro?
Che hai fatto? Mio guardiano,
guardiano e custode di tuo fratello,
chi t’ha detto ch’eri nudo?
Chi t’ha permesso di crederlo?
Chi t’ha insegnato a sfuggire l’ira,
a gridare su dalla terra,
a non parlare davanti al tosatore?
Dove sei? Dov’è finito
l’amore del tuo pellegrinaggio
il tuo accogliere spazio
la tua umiltà furente di crisalide?
Dov’è iniziato ciò che non inizia,
il nostro cuore, il fiato del fiato,
lo spirare a vuoto,
la pienezza più tenera e feroce
nel mio niente e nel tuo, lo Spirito Santo?
Per che, per chi mi hai abbandonato?
 
+ + +
 
È un tappeto di lamenti
perché le anime non hanno la forza
di lamentarsi per bene senza un appoggio,
un interprete, uno che sappia le lingue,
è un roveto di trilli su dal fondo
della bassura più libera e strana,
un salterio di telefonini
irraggiungibili al momento, o quasi,
se non che, in un modo o nell’altro, va aiutato
il grido nel suo viaggio, e vada pure,
vada dove deve, non dove può,
vada finché la terra e chi la abita
ha ancora in vista dei buchi di cielo,
finché la vacca Europa sempre profuga
conosce ancora un’aria di muggito,
uno spazio canoro devastato,
finché basta lo strazio fondo e lieve
dei suoi telefonini a sostenere
il volo dell’interrogazione,
l’unica grazia, il resto, l’esplosione
dei cuori e dei respiri che ritornano
sul colle che ha esibito ogni bassura.
 
+ + +
 
Dove sei fiato? Fratello, Signore,
dove vai?
Adamo, vai a farti confutare
contro il legno dell’albero ancora?
Dio mio Dio mio perché
non mi hai abbandonato
alla facile morte
di ciò che, forse, non era chiamato
ad essere Figlio,
ad essere in Te stesso consumato?


- Domenica delle Palme 2004 –

giovedì 1 luglio 2010

Elia Benamozegh e la nascita del cristianesimo dall'ebraismo


Ovviamente, le apologie sono... indifendibili. Eppure sono preziose, necessarie, perché costringono a pensare – e spesso lo fanno magnificamente. Uno dei libri più stimolanti che io abbia mai letto è Ortodossia di Chesterton, una buona metà del quale mi pare ancora del tutto ingiusta e francamente irritante.
Insomma, le apologie, il logos usato per mettersi sulla difensiva e respingere... Tanto più quando vantano la superiorità di una morale (la propria!) su un’altra. Ma per Benamozegh (per ogni spirituale) la morale è fondata sulla teologia, e infatti la sua brillante e ‘perfida’ (vecchio aggettivo liturgico cristiano!) polemica sulle ‘morali’ è quasi incomprensibile senza il suo arduo ma necessario studio sulle (indimostrabili) origini cabbalistiche del cristianesimo.
La controversia giudaico-cristiana è tutta presente, folgorata in una scena eterna, nell’interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio. "Sei tu il Messia, il figlio del Benedetto?". "Voi lo dite!". Benamozegh è finissimo nell’esegesi: il Messia, cioè il Figlio, sei tu – coincide con la tua persona? Risposta: voi lo dite; lo dite voi. Né sì, né no, o l’uno e l’altro, come spesso accade nei Vangeli. Gesù si proclama, ora con veli e reticenze, ora tuonando, il Messia, ed anzi, stando alla maggior parte della tradizione ebraica (quella non-apocalittica, non gnostico-apocalittica), più-che-Messia. Il suo annuncio del Regno imminente spezza – ma non annienta – la disciplina dell’arcano che in ogni tradizione separa e congiunge l’essoterico e l’esoterico; lacera il velo del Tempio, simbolo della mediazione che il Testo scritto, offrendosi alla lettura, opera tra nascosto e manifesto, tra acque superiori e acque inferiori. Da un certo punto di vista Gesù, mostrando l’eschaton, riporta la tradizione alla sua arché, ma non c’è dubbio che il suo insegnamento e i suoi gesti, i suoi segni, la spingano anche alla rottura e all’autocontraddizione – origine di tutte le tragiche antinomie paoline. Certo Gesù resta all’interno dell’orizzonte ebraico e Paolo invece è già il profeta di un esodo drammatico e ambiguo, paradossale, la cui carica dirompente si rivolgerà, sebbene in modo del tutto diverso, anche contro la tradizione ‘pagana’, cioè ellenico-romana. Ma Paolo, nonostante Nietzsche, Tolstoj e talvolta Benamozegh stesso, non è l’artefice di uno strappo di cui Gesù non è affatto responsabile: è il traduttore di una visione e, come i primi califfi, interpreta per filo e per segno il mandato del Profeta, pur facendo cose che il Profeta non avrebbe riconosciuto come proprie.
Ma veniamo alla tua destructio destructionis. Sicuramente l’apologeta è un retore, e spesso utilizza gli strumenti di una dialettica interessata, proiezione di quel grande io che è il noi della comunità religiosa: e quindi è quasi inevitabile l’effetto pagliuzza-trave, che spinge magari anche un non cristiano, quando legge Benamozegh, a simpatizzare coi cristiani e un non ebreo, quando legge diecimila pagine di teologia cristiana, a simpatizzare con gli ebrei. Alcuni anni fa ho studiato il Radd al-jamil, un trattatello in cui un teologo musulmano medievale legge il Vangelo di Giovanni e vi trova tutti gli elementi per confutare la divinità di Gesù e la Trinità di Dio. Il punto di partenza della sua esegesi è questo: parola di Dio è Gesù (in senso islamico, ovviamente), non il Vangelo, che quindi (a differenza del Corano) abbonda di versetti che vanno letti in modo ‘allegorico-figurato’, non letterale. Dice poi una cosa interessantissima sulla divinità di Gesù, ma ora andrei fuori tema. Comunque, ci siamo capiti: io posso deletteralizzare la tua tradizione, tu non puoi farlo con la mia. O meglio: esiste un nucleo che non è ulteriormente interpretabile, e quel nucleo c’è anche nella tua tradizione, ma io posso vederlo in trasparenza, tu no, perché la mia tradizione è più vicina all’arché, o all’eschaton, della tua. Insomma, tutto dipende da dove finisce il liquido dell’interpretazione e dove inizia il solido, il ‘limite’, il non-plus-ultra della fede centrale, indiscutibile. Personalmente credo che questo teatro dell’assurdo delle controversie tra le religioni abramiche sia nato dal gesto fondatore dell’ebraismo stesso, la sua ‘uscita’ dalla tradizione mesopotamica e poi egizia, sentite come idolatriche: ma il vero arciproblema è che l’ebraismo non è morto, a differenza di Babilonia e di Tebe, e nonostante la sua infinita complessità non ci si può discutere con la svagata libertà con cui un esoterista del Rinascimento discuteva con i geroglifici. La lettura allegorica segnala sempre una morte: Paolo uccide in sé l’appartenenza ebraica, l’Israele spirituale che la Chiesa dice di essere è un Israele ucciso. Ma Israele non può morire, è questo il mistero del suo destino così ambiguo.
Quindi, è tutto vero quello che dici su Benamozegh, ma ho qualche osservazione da farti. Prima: il nostro rabbino non identifica ortodossia cristiana e gruppi gnostici, anzi dice che l’ortodossia cristiana si è definita separandosi dagli gnosticismi, che erano forme di qabbalah eterodossa (secondo lui, ovviamente). Non dà nemmeno una ‘lettura unica’ dell’ebraismo, anche se effettivamente ha una sua grandiosa e un po’ tranquillizzante idea sull’unità metastorica dell’ebraismo, Torah scritta-Torah orale. Seconda: dice che Gesù striglia i perushim (farisei) proprio perché si sentiva parte di quel mondo religioso, anche se portava un messaggio che quel mondo non poteva accettare totalmente. Non dice mai che Gesù era folle e male informato, dice l’esatto contrario: che tutto il dialogo di cui abbiamo tracce spesso confuse nei Vangeli era un botta-e-risposta a base di koan, provocazioni e colpi bassi (o di fioretto) dialettici su un terreno spirituale comune. Terzo: è vero che sono troppe le semplificazioni sull’anticosmismo cristiano contrapposto all’equilibrio giudaico, ma non si può negare che il cristianesimo (è la sua ricchezza e la sua miseria, come sempre accade alle cose grandi e tragiche) sia culturalmente sradicato, ed abbia cercato un difficile radicamento nel mondo greco-romano, diventandone (parafrasando l’Epistola a Diogneto) l’anima. Ma un’anima orfica, platonica, aristotelica? La cultura dell’ecumene è stata salvata, ma anche svuotata: Diana è stata assimilata a Maria, ma la Diana del popolo ‘pagano’ è rimasta come signora delle streghe. Noi possiamo mangiare di tutto, senza catene di kasherut, ma non abbiamo nulla per pensare il nostro rapporto col cibo in senso spirituale, se non il pragmatismo paolino. Paolo ripete il gesto di Gesù e lo rende ancor più tragico: svela il fondo esoterico (tutto è puro per chi è puro), ma questo fondo, se portato alla superficie, se diventa l’ispirazione di una società, di una cultura, toglie profondità religiosa invece di rendere presente il Regno in cui la Legge è ormai abrogata perché giunta a pienezza. L’‘ambiguità’ di Benamozegh ruota intorno a questi pochi e immensi temi: la polemica sulla ‘morale’ è parte di un disegno che si può intuire pienamente solo leggendo le quasi mille pagine di Israel et l’humanité – impresa da me compiuta circa tredici anni fa, e nonostante le sue diecimila ingenuità credo ne sia valsa la pena.

In effetti il discorso di Paolo sulla legge è un ginepraio di intuizioni mistiche, tensioni apocalittiche e antinomie ermeneutiche. Non voglio ritornare sulla vecchia questione del suo riduzionismo: il nomos delle Epistole non esaurisce certo la totalità della Torah nel senso della tradizione ebraica. Penso che si possa essere d’accordo su una cosa: Paolo porta all’estremo, al limite, una delle idee del messianismo ebraico: "L’annullamento della Torah è la sua conferma (o: la sua resurrezione)". Idea sommamente dialettica ed esposta ad amplificazioni esoteriche (gnostiche) e forzature apocalittiche. Riflettiamo: la fede nell’avvenuto avvento del Messia sostituisce alla Torah del Giudizio (limitante e coattiva) la Torah della Grazia, che è in un rapporto non lineare con la prima. Nel Regno, l’albero della conoscenza si assimila all’albero della vita: ma il Regno portato da Gesù è un Regno incipiente, un’attesa, un tempo intermedio, in cui "tutto è lecito, ma non tutto mi giova", e gli unici precetti che non vengono abrogati sono quelli comuni a tutta l’umanità, i cosiddetti precetti noachidi (quelli comandati a Noè dopo il diluvio). Inoltre al rituale ebraico subentra un rituale di memoria-annuncio fondato sulla vicenda umana del Messia: soprattutto l’Eucarestia, la cui mistica è il centro della vita cristiana. Inoltre, la "legge" ebraica viene dichiarata ormai inefficace, superata dall’Evento messianico, ma il cristiano, nell’attesa del Secondo Avvento, assimila la cultura giuridica dell’ecumene romana – e nonostante la sua vita nel mondo sia un perpetuo esodo, come per l’ebreo, sicché le forme storiche assunte dal Messaggio-Kerygma sono sempre provvisorie e imperfette, non si può negare che il problema esista: allontanandosi dalla tradizione dei Padri, dalle radici ebraiche, l’attesa cristiana ha dovuto trovarsi altre radici, quelle del mondo in cui si è inculturata, l’Impero romano. Certo, per cristianesimo e islam questa dialettica è stata resa inevitabile dal trionfo mondano, mentre paradossalmente l’"identitario" ebraismo, reso marginale dal destino della diaspora, è stato al tempo stesso più legato alle proprie fonti e più aperto alle continue assimilazioni – è stato più esoterico, più ermetico (non per scelta, ripeto, ma per destino). L’ebraismo è diventato l’esoterico del mondo cristiano-islamico, il margine del Testo: e la teologia del deicidio e della sostituzione ha fatto dell’Ebreo il Cristo sempre di nuovo ucciso perché lo Spirito potesse essere effuso sulla cristianità intera.