Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 31 ottobre 2011

I quattro che entrarono nel Pardes. Breve commento


a James Hillman

[Poiché la comprensione di questo commento richiede una minima conoscenza di base del testo talmudico esaminato, rimando a Chagigah 14b-16a. Sono reperibili online diverse traduzioni: in italiano spicca la versione di Giulio Busi-Elena Loewenthal in Mistica ebraica, Einaudi, 1999]

Entrare nel Pardes è accedere al giardino dell’interpretazione, all’integrità molteplice, all’infinito limitato. Ai tre compagni Aqiba dà una esoterica consegna: “Quando arriverete alle pietre di marmo puro [ovvero le lettere della Torah, con cui fu creato l’universo], non dite: Acque, acque” – è una menzogna. Il testo, il tessuto, è il Velario (Paroqet) che separa il Santo dal Santissimo: come il Firmamento (raqiaʻ) stellato, che separa le acque inferiori, la Malkut, dalle acque superiori, la Binah, questo mondo (ʻolam ha-zeh) dal mondo a venire (ʻolam ha-ba’). I commentatori si sono – opportunamente – separati: tra chi vede la menzogna nel confondere (tohu) ciò che il secondo giorno ha diviso, e chi nel dividere ciò che messianicamente è sul punto di ricongiungersi. Ma le une e le altre sono parole del Dio Vivente. Forse Aqiba prescriveva di non deviare dal Testo, in cui è il tutto, per affrettare la teshuvah distruggendo la Paroqet, o per restare nel mondo della separazione in modo letterale, solo giuridico.

L’esperienza del Giardino è terribile, perché l’amore di Aqiba per la Torah impone uno sguardo totale, e la visione della Misericordia è ancor più travolgente di quella del Giudizio, di Elohim che sancisce e sanziona i limiti.

Secondo un’antica tradizione, Pardes (P-R-D-S) è l’acronimo dei quattro piani dell’esegesi ebraica: peshat, remez, derash e sod, cui corrisponderebbero i quattro tanna’im della conturbante pagina talmudica.

Ben Azzai, l’uomo del peshat, muore: non si può vedere Dio e restare vivi, l’occhiata gettata dietro il Velario è mortale, la lettera dell’esperienza mistica come mortificatio è la consumazione della carne, del nostro frammento di mondo presente (ʻolam ha-zeh). La sua morte è santificazione di Dio, qiddush ha-Shem, martirio e morte di uno tzaddiq, l’ombra tragica proiettata dalla parabola del suo maestro Aqiba. La tradizione gli attribuisce uno dei midrashim più laceranti, oscura illuminazione, mitema solidamente antignostico su cui pare effuso un aroma di narrazione gnostica: quello della diminuzione della luna, principio di ogni male, per la quale Dio si impegna ad offrire un sacrificio di espiazione.

Ben Zoma, incarnazione del remez, impazzisce: il delirio dell’interpretazione si impadronisce di lui, il miele del derash, primizia del nutrimento messianico, dà un’ebbrezza ancora tragica, anzi più tragica, perché un eccesso di mondo a venire in questo mondo costringe al vomito, la tracimazione del derash oltre il ricettacolo dell’io. I due responsi halakici citati fanno intravedere questo allargamento del derash oltre il proprio alveo: l’uso di un versetto che estende una pratica in modo virtualmente indefinito; l’introduzione nel territorio normativo di una discussione, ricca di risonanze simboliche, sull’impregnazione di una vergine (in cui si parla di acqua e di seme, quindi di interpretazione, forse il soffio del Messia sulla faccia delle acque nel primo giorno).

Nella scena della sua contemplazione delle Acque, Binah e Malkut si sfiorano: la Shekhinah discende sulla terra, la Ruach cova dolcemente le acque della Torah senza toccarle. Ma ciò è detto del primo giorno, il Giorno dell’Uno (yom echad), dell’indivisione, e quel soffio è il soffio dell’interprete messianico: mentre l’alto e il basso si sono separati nel secondo giorno, il giorno di Gevurah, del timore e della minaccia. Ben Zoma è fuori di sé ed anche fuori del Pardes, perché il Pardes è proprio la Scrittura, e la visione rapita-delirante del rabbino è un’esperienza unitiva che riporta al caos l’articolazione creazionale e profetica. Se la lettera ha ucciso Ben Azzai, se un’esperienza del divino troppo letterale non fa stare più nella pelle, l’abuso del remez, del suggerimento metaforico, dell’allusione, tratta la Scrittura come qualcosa di fluido, la dissolve in un metapherein illimitato: per questo Ben Zoma non ha più i piedi per terra, è fuori dal mondo (mibbachus).

Ben Avuyah (Acher, l’Altro, l’innominabile) taglia i germogli: la sua apostasia ripete la colpa di Adamo, la rottura della comunicazione tra le sefirot. Ben Zoma è fuori, Ben Avuyah taglia: taglia, soprattutto, l’unità della Torah scritta con quella orale, l’unità della kenesset o comunità spirituale, ecclesia. Anchi qui è questione di star seduti-stare in piedi. Metatron, lo scriba di Dio, l’interprete che è manifestazione angelica di Malkut, sta seduto davanti a Dio, è un servo dallo statuto particolare (gli altri angeli devono stare in piedi, in attesa di ordini): ma il suo star seduto è umile, come Malkut è l’ultima sefirah, la più bassa. Ben Avuyah ha lasciato che la sua bocca (la sua interpretazione) seducesse la sua carne, la sua esistenza limitata; in un altro passo, il suo rifiuto di Dio come Giudice, Dayan, era legato alla testimonianza di un precetto non retribuito. Il rabbino, grande commentatore, maestro di Me’ir che butta la scorza e mangia la polpa del suo insegnamento, affascinato dal pensiero greco cade nella afiqorsut, nell’“epicureismo” drammatico del monoteista (ribellione, straziato plaisir de descendre) a causa della sua perplessità per la ricchezza infinita del mondo divino. Uno sguardo sulla duplicità di Dio e del suo interprete, e si insinua il dubbio dualista, gnostico: che in uno spirito innamorato dell’unità genera la disperazione della salvezza, quel “tranne l’Altro” che è coda velenosa del richiamo scritturale alla teshuvah udito da dietro la Cortina celeste, il Pargod. L’apostasia, culmine del climax tragico (morte-delirio-taglio dei germogli) che è già oltre il tragico (per questo è l’Altro), sta tutta in questa estensione del derash che distrugge il Pardes, i suoi limiti che mediano tra Alto e Basso, tra il Giubileo spirituale di Binah e il commento infinitamente rinnovato di Malkut. La “ricerca” di significati che amplia la lettera del Testo induce Ben Avuyah a credere che esistano due dèi, perché solo così si placa la “ricerca” di una risposta alla domanda sul male del mondo; e quindi diventa apostata (manicheo), opera un taglio tra sé e la comunità, tra i vari Nomi e Attributi di Dio, separa ciò che non si deve e non si può separare.

Aqiba, meravigliosamente, entra in pace (be-shalom) ed esce in pace, integro, inafferrabile come la voce silenziosa del soffio che atterrì Elia, chiamato al destino tragico del martirio (e alla sua ancor più tragica premessa, l’investitura messianica del resistente Bar Kokhba), ma trasportato ad esso, ed oltre, con la levità amorosa di chi è un segno delle miriadi di Dio, un uomo totale proprio perché delicatamente e ardentemente innamorato della molteplicità della manifestazione di Dio nella Torah e nell’universo.

Solo Rabbi Aqiva, che corrisponde al sod, alla lettura esoterica-cabbalistica, entre ed esce dal Pardes salvo, pieno di vita, di shalom: solo lui riesce a tenere distinte le acque senza separarle, solo lui unisce vita terrestre (legge) e visione celeste (esoterismo) – e lo dimostra quando muore ridendo perché ha compreso un versetto importante della Bibbia, e l’ha compreso vivendolo nella morte.

domenica 30 ottobre 2011

Ancora sulla moneta


per Andrea Sciffo, cavaliere della terra

In una delle più smaglianti tra le sue Diatribe, Epitteto chiama nomisma, “uso consuetudinario/moneta corrente”, il desiderio che muove un uomo al soddisfacimento, e che è stato imposto alla sua anima da un altro. È l’idolo, appunto, il dio del desiderio, dell’attaccamento, il marionettista che muove i fili (neura) di psiche, l’immaginario nel senso di Simone Weil. La circolazione monetaria è il mercurio, l’aria come vento della fama e pneuma plastico, magico e passivo all’azione magica. L’attesa messianica rende impazienti: il vitello d’oro, l’idolo aureo, tratto dalle gioie indossate quotidianamente, sostituisce il vivo desiderio – animale e spirituale – necessario all’opus trasmutatorio con la sua letteralizzazione fuori-di-noi, in un simulacro che arresta l’eros perché l’oro è perfetto, o piuttosto è simbolo della perfezione. Per così dire, gestisce l’eros. La moneta è un idolo e va restituita, secondo Gesù, a chi ha impresso su di essa il proprio nome e la propria faccia, o i propri simboli: pagare il tributo può diventare, da ossequio servile, atto profetico di neutralizzazione dell’idolatrico potere imperiale. Mosè fa calcinare l’idolo, poi scioglie la polvere nell’acqua e la dà da bere al popolo, idolatra e insieme fedele: l’idolo deve perdere la propria fissità e la propria figura, essere deletteralizzato, riletto, ma il residuo dell’oro calcinato resterebbe pur sempre “là fuori”. Va quindi assunto, introdotto in se stessi, per mezzo di una soluzione: come il cartiglio disciolto nelle acque amare per l’ordalia dell’adultera (ovvero, profeticamente, dell’idolatra). Le acque (plurali, molteplici perché duali, mayim: acque superiori e acque inferiori, mondo spirituale e mondo visibile-tangibile) sembrano essere il flusso incoercibile dell’interpretazione, dell’esegesi che congiunge i piani del creato, che li mette in comunicazione. Restituito l’idolo al suo fabbricante (ciò è la polverizzazione, la contrizione), restituita la moneta a colui che l’ha coniata, bisogna ancora restituire a Dio ciò che è di Dio, cioè l’argento e l’oro, il Tempio e i beni: tutto si tiene in un mondo magico-simbolico, quindi il potere che l’Impero aveva su di noi, una volta che gli è stato sottratto restituendogli i suoi simulacri, è reso a noi e a Dio, trasmutato. L’oro del Mercato è distrutto, il suo Mercurio è fissato: è l’anticipo del Regno, del Sabato in cui non si tocca denaro; il mondo si autodistrugge se ritiriamo la nostra fede in esso, ma il permanere nel mondo senza appartenere al mondo è ciò che appunto ne trasmuta la materia, lo fa risorgere.

Se bisogna restituire al Cesare – al mago, al manipolatore – l’immagine e l’iscrizione sulla moneta, forse si dovranno restituire a Dio “solo” la materia e l’essenza della moneta? Ma ciò non toglie che anche e anzi soprattutto l’immagine sia di Dio. Non bisogna confondere la lotta contro l’idolatria con l’iconoclastia. Né letteralizzare l’uso sacrale-templare della moneta: Gesù sferzò i cambiavalute che nel cortile del Tempio mettevano in comunicazione, in commercio, l’interno e l’esterno, il santo e il secolare (mentre la morte del Messia ha squarciato per sempre il Velario, la Paroqet). Nella parabola dei talenti si condanna la prudenza saturnina (e ieratica) della conservazione, e si lodano il traffico mercuriale, il rischio, gli interessi percepiti sul deposito. Il talanton è l’imago Dei nell’uomo, che costituisce l’uomo: l’archetipo va messo in pericolo, o come minimo fatto fruttare mettendolo in banca (come dire che lo splendido eroismo pagano non è necessario: il Mercurio profetico sa essere persino più oculato del Saturno sacerdotale).

Il commercio sta alla dialettica come il gioco finanziario sta alla retorica. L’economia secondo gli archetipi (secondo gli dei, secondo Elohim) sta alla nostra economia a-tea (o piuttosto dominata da un Mercurio totalitario, dedito in modo monomaniacale al furto, al gioco d’azzardo, alla manipolazione esoterica del caso) come una civitas sensibile e tumultuosa sta ad un Impero universale anticristico, contraffazione di shalom, magnum latrocinium.

venerdì 28 ottobre 2011

Per i novant’anni di Elena Bono


“Nessuno ha macellato Europa”
dice ridente, Odisseo tenebroso,
colui-che-non-è, la parodia
del Volto mitemente accline ai volti,
la maschera bianca balenante
dietro ogni nostra angoscia impersonale.

Europa sa e non sa il suo macello.
Si crede vacca, ciclope accecato,
piange il latte versato, il lungo transito
per mare dei montoni, commisura
crescita e bancarotta. Non ricorda
la sua aurora di fanciulla velata,
la corona di stelle, lo sgabello
di luna, il drago molteplice e vano.

Ma su una lingua asciutta della proda
una fanciulla ha spartito il suo pane
con le larve: le più vili ancora
lo gettano intero sulla faccia
delle acque, con riso di maschera,
in alto silenzio. Non immaginano
che dopo molti giorni – questa sera –
lo troverà un piede vagabondo,
un capo velato, una mano
trepida e vuota, una bocca dischiusa
come fiore e ferita
della sua e nostra aurora.

mercoledì 26 ottobre 2011

Meditazioni nevrotiche


I.

Esagero i miei tratti. Non conosco

la faccia del mio male, del mio bene.

Di quando in quando sogno, intuisco,

che ho voluto ogni cosa: c’è una pace

essenziale al fondo del disastro,

un accordo ridente tra me e il cosmo

sotto un leggero velo inorridito.

Crepando, bene o male, fenderò

l’inconsistenza, trovandola forse

come i capricci di mio figlio amabile,

come quelli impossibile, una pura

ostensione d’altrove, ricca e sterile,

tracimante l’economia del sé,

puro splendore sterile ed umano.

Ma non è giusto ridere con gli angeli

dell’umano che ad essere fatico,

confutato all’istante, impermeabile

ad ogni soffio che non sia segreto,

l’umano impalato al suo crocicchio,

cui è nausea e tormento l’insostanza,

l’umano occidentale, accidentale,

l’ala mozzata, forte, declinante –

riderne non è giusto, per adesso,

durante il giorno, tempo di tragedia,

di lavoro ed attesa – non è giusto

pensarlo troppo disumanamente

e troppo umanamente – niente sazia

la sua fame di schiavo e d’eroe.

Sobbolle lento il brodo di mio figlio,

il cielo s’ammala per mezz’ora

di muco ai bronchi, malumore e vomito,

la luce artificiale mi protegge

dalla rivelazione che la pioggia

è buona, e quieto e grave il cielo

nel gioco alterno delle passioni,

e purgante nel vuoto la città,

e io schermato da una lampadina

che cuocio nel mio brodo il più disutile

dei figli di Adamo. Ciascun essere

è quel che è in pienezza d’attesa,

si scrive mentre ara la sua vita,

il suo passaggio sicuro e leggero,

conosce la sua casa e non sa nulla,

sorvola il nulla, lo respira, lascia

emergere dal nulla il suo mattino,

non teme la notte, suo giaciglio,

ma sente che il fiato gli si ingrossa

se il giaciglio è una polvere di strada,

un ponte, un batter d’occhio, un’altra cosa.

Il brodo si consuma. Stendo i panni.

Il cesso mi ammonisce vanamente.

Nella casa, che faccia ha l’universo.

Come ci divertiamo, sedentari,

a nascondere sotto l’abitudine,

per averne fastidi e dilazioni,

lo sgomento glorioso delle origini,

la faccia dei mondi nella casa,

la casa tracciata nelle stelle.

Che gusto, no? Ed anche il no è gustoso –

ha il sapore di un’antica elezione,

come se in ogni fastosa rovina,

in ogni eccidio giusto, necessario,

splendesse un tesoro di vanità.

II.

Il cane che mi latra l’orizzonte

è il mio dio. Il vicino che col tacco

mi martella il mio cielo è il mio dio.

La porta che si nega è il mio dio.

La finestra che mi chiude e ostende

gli strani universi è il mio dio.

Ogni fantasma chiede devozione.

Mio figlio li insegue, li gioca

e ne è giocato, in tremiti di risa

e di terrore. Io non so più farlo,

chino il capo dopo ogni ribellione,

sfioro, mordo, deploro, mi aggiro,

attendo il succo, lo lascio colare,

perdo il fiore, mi congedo dal frutto,

temo il cane, il vicino, la finestra,

trascuro la porta, e faccio male,

perché se questa porta non è ancora

la porta, io ancora non esisto, punto.

III.

A trentacinque anni si è davvero malmessi,

il samsara è al suo culmine. L’ascesi

dell’adolescenza è una ruggine, la giovinezza

un rimorso e un bagliore. Non si è ancora

vecchi, e lo si è più che mai.

Preghi per la cena di tuo figlio,

per un nuovo lavoro, per un po’

di carezze precise, sostanziali.

La ruota è un vortice, non puoi toccarla

senza romperti un dito: e proprio questo

fa belli molti mali. Vorresti morire

per aprire la fica nella luce,

per avere più luce. Sei davvero

malmesso a trentacinque anni,

i pasti di polvere ti inquartano,

il tuo peso è più esatto, incalcolabile,

qualche dettaglio inizia a farsi lieve,

ed è una trasparenza che ti umilia

e ti diverte, scaglia dopo scaglia.

domenica 16 ottobre 2011

Ballata del suicida imperfetto


a Gianna che, come me, non capisce i suicidi

Questo cappio è una porta: ma la stanza

cui mi introduce è un carcere più vasto.

Da solo non potrò darmi quietanza,

né caricare un altro del mio basto.

Non c’è iato tra il mondo e il cimitero:

voglio morire, ma morir davvero.


"Io sono il punto!": un punto complicato

tra i molteplici incroci del tappeto.

Se cancello il mio mondo, l’altro lato

mi attende imperturbabile, né lieto

né triste, come quando ancor non ero.

Voglio morire, ma morir davvero.


Chi soffre molto pesa sé e l’ignoto,

e alla bilancia resta crocifisso.

Chi soffre immensamente sa che il moto

d’ogni granulo come stella è fisso:

e si consuma lento, come un cero.

Voglio morire, ma morir davvero.


Non ho forza per correre o per stare,

per agire o patire: ma ne ho troppa

per ricadere in me, o così mi pare.

La chiave guata il buco della toppa

alla distanza esatta di un pensiero.

Voglio morire, ma morir davvero.


Giobbe rinacque quando sulle merde

vide Behemòt nel turbine di Dio.

Il ribelle si placa quando perde:

resta la bolla di sapone, l’io,

trafitta dalla luce sul sentiero.

Voglio morire, ma morir davvero.


Noi bandiamo la merda, e l’idumeo

nulla vedrebbe sopra i nostri cessi,

tranne un biancore un po’ paranoideo.

Sono privati tutti i nostri eccessi,

è recita il tormento più sincero.

Voglio morire, ma morir davvero.


Dunque, che fare? si chiedeva il russo.

Niente, risponde – e ride – l’orientale.

Contemplo il cappio, mia porta, e non busso.

Nella cella c’è tutto il bene e il male:

da un forame mi occhieggia il mondo intero.

Voglio morire, ma morir davvero.

Note pedanti

v. 31: “l’idumeo” è Giobbe, che non era un ebreo ma un ricco gentile di Uz (a est dell’antico territorio israelita e a sud di Damasco).

v. 37: “il russo” (con apporti tatari, ebrei ashkenaziti e svedesi) è Lenin, che pubblicò nel 1902, a Stoccarda, il celebre opuscolo intitolato Che fare?

mercoledì 12 ottobre 2011

Lettera di un suicida immaginale-immaginario


Cari amici,

dopo vent’anni di sofferenze offensivamente sproporzionate ai loro frutti malati, inconsistenti, insostanziali – non che io presuma di giudicarle solo con questo metro: le sofferenze mimano una faccia e un corpo che qui non si conoscono, se non tra dubbi illimiti e illimitamente logorati – dopo quattro lustri, due decenni, duecentoquaranta mesi di sofferenze di cui ho avuto, ricevuto, conquistato solo chiavi irrisorie, irridenti, deludenti, eludenti – dopo tanto patire, sempre più chiuso, cifrato, straccato, strozzato, sempre più lussuosamente votato agli inferi, sempre più sfumatamente profumato di impossibilità, di nascondimento, di iniziatica vergogna – io vado via. Ora che l’ho scritto m’accorgo di non avere forze sufficienti se non per accarezzare, configurare confusamente, canticchiare imprecisamente il suicidio. Il mio cuore è così stracciato e sbranato da non potersi gettare nemmeno in questa impresa rituale, in questo ricatto dove la disperazione si tinge del sangue teatrale, istantaneo, cerimoniale di una speranza orribilmente pura, solo superficialmente paradossale. È un eroe tragico anche il più immondo dei suicidi. Anche, soprattutto, oggi, il più comico, il Papageno che si guarda attorno fino alla fine, il Narciso lambiccato e banale, lo sconfitto che non ha mai gareggiato, il letterato che si guarda scrivere, parodia di libertà, l’ultimo biglietto.

Si può immaginare: il correlato mentale e psichico di un dolore come il mal di testa, un dolore complesso, centrale e marginale insieme, che è dato esibire solo in corrugamenti di fronte, cattivi umori, pose contorte. Se tale dolore, tale mal di testa voglio dire, fosse continuo, salvo quelle brevi pause di ristoro che solo un carnefice esperto saprebbe calcolare, e per molte ore, molti giorni, non dico nemmeno molti anni perché è impossibile immaginarlo a chi l’abbia appena assaggiato, se tale pressione, torsione, tensione, ustione fosse praticamente ininterrotta, ovvero interrotta giusto quel tanto che valga a lubrificare la macchina, a ravvivare l’obbrobrio, nessuno si meraviglierebbe se il paziente cercasse la morte con un trasporto animale, ma anche del tutto lucidamente umano. Pure, non si trascuri l’essenziale: il correlato, l’analogo, lo specchio mentale, psichico, interno di tale specchio minuzioso degli inferi, dell’inferno, della dannazione perpetua, perenne, illimite, sarebbe aggravato dalla vergogna che contagia ogni piaga nascosta, da quell’acerba passione che è il senso di responsabilità proiettato sulla pietra, sulla terra dei fenomeni visibili e tangibili, quell’angoscia metafisica calata, abbassata, schiacciata confusamente sulla scena terrestre, sul densissimo impasto, sulla fittissima stoffa del destino subsolare e sublunare: insomma, sarebbe irritato, infuocato, affumicato, accecato da un concorso mirabilmente funesto di tutte le passioni animali e umane, immaginarie e razionali, sognanti e vigilanti, mute e loquenti, da un accordo di orologio barocco, di automa illuministico fra tutte le maschere strazianti, fameliche, curiose che affollano il proscenio di una malattia iniziatica abortita, di un allenamento sciamanico sfarinato, esploso, quasi incenerito, quasi sbriciolato, quasi fottuto in figure di pura sorte, di puro malanno. E qualora si sia riflettuto, quanto lo concede la misura del proprio intelletto e della propria esperienza, su tali verità fluttuanti, su tali certezze semisonne, semimorte, semi-nate, si osi ancora parlare della morte con leggerezza, per anime simili, per simili sentieri umani e inumani!

Qualcuno, se maturo, giusto e giustamente crudele, potrebbe lasciar aperta una porta come ci si accoltella una mano per rabbia: “Ma un’anima simile, un simile sentiero umano, inumano, è in tutto questo, per l’appunto, umanamente, inumanamente chiamato a balzare oltre il mal di testa, oltre la testa, a perdere la testa, a troncarsi la testa e far zampillare la fontana turata, la linfa compressa, il destino difficile del sacerdote velato, del sovrano dal fianco squarciato!”. Ma io ho già sentito questa voce: perché anch’io sono, di quando in quando, maturo e giusto e crudele con la mia anima, con la mia sorellina fatale e fatata. Si è chiamati solo se si è chiamati. Non è un invito ad avvolgersi il capo, consegnandosi al carceriere, alla ruota dentata, alla faccia impossibile e predestinata: no, si legga bene, per favore. Si è chiamati solo si è chiamati. Si può saltare oltre il settimo cielo solo se si è chiamati. Si può perdere la testa e tenerla in mano per l’ultima danza solo se si è chiamati. Si può entrare nella breccia del fianco, nel fianco squarciato come un firmamento, come un fico, come una bocca canora, solo si è chiamati. Si può vivere la propria morte solo si è chiamati. Non si può essere chiamati, se non si è chiamati. Si può essere chiamati solo si è chiamati. Ci si può preparare ad essere chiamati, solo si è preparati ad essere chiamati. Si può immaginare di essere chiamati, solo se si immagina di essere chiamati. Tutto il resto è buono, come tutto è buono – ma buono per altri, buono per altre persone, per altri mondi, per altre vite. Non c’è nulla che vada perduto: ma per me, tutto è perduto. E io sono il tutto di cui devo rispondere. E rispondo scrivendo una lettera che non è un biglietto di suicida, perché non posso, non voglio, non devo suicidarmi, ma una lettera che cade nella morte, che viene consegnata alla morte, che viene spedita alla morte, che ha senso solo per chi vuole morire e non può, per chi non può accedere né alla luce né alle tenebre, né all’eroismo segreto, mitemente lucente, glorioso di chi lascia fluttuare la pelle staccata verso la sua polvere, né l’eroismo grave, splendidamente cieco, tutto figurale, figurato, perennemente inquieto, di chi si soffoca con la propria pelle su un altare di vittime crude, di sconfitte inviolate dal fuoco, di olocausti immaginari, immaginali.

A voi, amici, che siete i destinatari manifesti, cari, viventi delle mie parole, devo inviare un saluto che sfugge alle parole, che forza malignamente le parole: non addio, perché scivolo sul rovescio del mio dio, non arrivederci, perché spero di non rivedere nulla e di vedere quanto c’è da vedere, non “salve”, “state bene”, “siate benedetti”, perché non è giusto augurare ai compagni fraterni quanto non si osa augurare a se stessi. Eppure qualcosa mi resta da augurarvi, forse: una comunione più alta col dolore che ora intravedo e intravivo, una fraternità più desta, uno spartire il pane dopo che i denti e le bocche sono saltati, sfigurati, spariti.

Egesia Anfirropo

martedì 4 ottobre 2011

Edipo e la Sfinge


La Sfinge è l’Angelo dell’Umanità, l’Uomo come sintesi di animale e dio. Nel mito tebano è colta nel suo aspetto malevolo, apollineo: l’enigma è la sfida mortale lanciata all’uomo, “o me o te”, non c’è spazio per entrambe le essenze sulla rupe scoscesa del pròblema, alle porte della conoscenza del bene e del male. Edipo vince, ma vivrà la morte dell’Angelo, dispiegherà la sequenza inesorabile del proprio destino, espressa nelle parole dell’enigma, saldamente attaccato alla cavezza dell’ananke tragica. Lo shesepankh egizio, la “statua vivente” dell’Asclepio ermetico, è qui la sphinx dell’aspra saggezza ellenica, “colei che stringe”, come uno sfintere.

All’alba l’uomo è quadrupede: la lettera dell’indovinello parla di debolezza crescente con il numero dei piedi, ma la lettera è per definizione ironica, ironicamente mortale. Il bambino ha l’animalità della Sfinge, è intero, scorre tra i quattro stati del Vedanta (veglia, sogno, sonno profondo, estasi) senza fissarsi in un io, in una maschera sociale. A mezzodì è bipede: l’adulto è un pais dimidiato, non getta ombre solo in quanto ha rigettato l’Ombra; vive scisso, oscillante tra i due “piedi” della veglia e del sogno, della necessità e del desiderio, proiettato in avanti, più cieco di un cieco. Al tramonto è tripode: il vecchio è profeta, media tra adulto e infante, recupera la terza gamba, il terzo occhio del nous, ma nell’opus contra naturam (Sailing to Byzantium di Yeats), sotto forma di un bastone che palpa l’altro lato delle cose e della vita. Il vecchio zoppica perché gli manca il quarto piede, accessibile nella morte, e perché gli altri due vacillano, si confondono.

Edipo Piedegonfio diviene uomo totale e mostro, Sfinge, dopo la vittoria contro la Sfinge, di perdita in perdita, col passo squilibrato, dionisiaco, sottilmente ermetico, del sacrificio tragico.