Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 16 aprile 2011

Note su Leibniz


Omologie. La forma sostanziale di Aristotele può forse essere concepita come la monade di Leibniz: centro di vita-espressione (conoscenza), punto di vista irrappresentabile delle rappresentazioni. Oggetto della percezione è sempre il corpo, che però non è uno in sé, bensì aggregato (di infinite sostanze corporee, in infinitum). La materia, il corpo in quanto tale, cioè in quanto materia secunda, è fenomeno: risulta dalla relativa passività delle monadi che lo compongono, ovvero dalle loro percezioni-espressioni confuse. Le monadi “semplici” sono forme che percepiscono-esprimono il mondo in modo puntuale (minerali) o lineare (vegetali), lo proiettando reagendo (quindi in modo relativamente attivo) con la pura manifestazione di forme (minerali) e/o con la crescita regolare e lo sviluppo delle piante. (In ogni caso c’è polarità, pulsazione: ovunque ci sia vita-espressione c’è azione-reazione, il riflesso dello specchio di Dioniso). La materia dunque “si riduce” alla forma, come le cause efficienti sono il punto di vista proiettato dalle monadi (che agiscono in base a fini, tendono spontaneamente all’actus, alla perfezione) sui corpi. (Monadi, sistema teleologico, sintropia: corpi, sistema meccanico, entropia, risultato fenomenico, oggettivato, della sintropia).

La monade “dominante” è relativamente più attiva, in un mondo pieno-continuo: eppure l’indipendenza reciproca anima (forma)/corpo è il risultato dell’indipendenza reciproca delle monadi tutte, microcosmi variamente lucidi o perfetti o dispiegati (manifesti). L’armonia prestabilita (fra tutte le monadi, fra ogni monade e tutte – tà panta, il mondo –, tra la monade e il suo corpo, suo punto di vista sul mondo) è l’attualizzazione della pienezza-continuità: la parte è parte totale, tutto è in tutto, ogni sostanza è mondo che (in quanto) rispecchia-esprime il mondo. Il composto (corpo) simboleggia-esprime il semplice (anima – e viceversa), e tutto è uno nel molteplice. Non c’è percezione-espressione se non incarnata in segni, non c’è forma se non corporea.

Il sentimento esprime il mondo attraverso attenzione e memoria: è bidimensionale, e dunque animale (l’immagine psichica è un’atmosfera, uno stile comportamentale-conoscitivo, ed è accompagnata dalla comparsa del sistema nervoso, con i suoi neura o nervi che sono anche i fili della marionetta-individuo). La polarità espressiva di ogni vita acquista nell’animale un’altra dimensione, ritorna su se stessa accompagnata da sensazioni di piacere e dolore etc. Il dolore esprime la puntura dell’ape nella modalità proiettiva del sentire: spontaneo, ma non volontario – è azione della forma sostanziale-anima, ma si presenta come (relativa) passione, diminuzione di perfezione conosciuta in modo (relativamente) confuso, e infatti appare immediato.

Il pensiero ragionevole (umano) esprime il mondo in modo tridimensionale (sempre relativamente: tutto è continuo, natura non facit saltus, la vita è come la fiamma che cresce nei suoi vari livelli, come un organismo che sviluppa nuove forme senza deporre le precedenti): le percezioni sensibili e i sentimenti acquistano la dimensione della necessità, l’espressione-sentire ritorna su se stessa, la polarità ora è “massima” (la ragione è legata a un maggiore sviluppo dell’ego, della separatività, dell’astrazione che può indebolire come intensificare la vita).

L’uomo è l’animale più espressivo, ma proiettando in maggior misura l’espressione fuori di sé può acquistare la vera libertà, lo spirito, oppure smarrirsi nell’alienazione della techne, della sua opera che ripete-rispecchia quella divina. Il corpo segnico del pensiero è così arbitrario e insieme ben fondato, nomôi kai physei, e le habitudines che mettono in proporzione espressione ed espresso (il logos, insomma) sono abiti viventi, regole operative – la percezione/espressione è l’azione e la vita della monade (vedi il libro di R. Fabbrichesi Leo, che segue la lezione di Sini e di Peirce).

Percezione confusa: la molteplicità è espressa come un’unità che è “nota a se stessa”. Dolore e piacere sono percezioni più distinte, tuttavia la loro conoscenza è in buona parte “primitiva”, sono quasi Urphänomena dell’animalità, della sostanza senziente. Dico “quasi” perché la loro analogia, ad es., con la percezione dei colori ha un limite: proprio per la loro maggiore attività e distinzione, vengono conosciuti come “stati interni”, inerenti all’io. (Di nuovo, si dispiega la gradualità e la continuità di un’unica esperienza-mondo).

Secondo Ibn ʻArabī i minerali e le piante, in quanto obbediscono (reagiscono) prontamente all’azione divina mediata dai corpi, hanno una conoscenza intuitiva (per “disvelamento”, kashf) superiore a quella umana, mediata dalla ragione (ʻaql, ovvero “vincolo”). La loro percezione-espressione (re-azione) puntuale, confusa, è un sonno profondo: come prajña, la sapienza del sonno senza sogni, è superiore alla vijñana, alla coscienza animale-umana, ma anche meno perfetta in quanto esprime il mondo a un numero inferiore di dimensioni, in modo più complicatus. L’uomo, accedendo alla meditazione propria di Idrīs-Elia, può parzialmente recuperare (in quanto già lo possiede, velato) questo piano unṣūrī, “elementare” (meditando come un monte, come una pianta, come un animale…).

Leibniz ha una concezione “sovramaterialistica” della trasformazione-metamorfosi come verità metafisica della generazione e corruzione (nascita e morte) delle sostanze composte. Sembra tendere alla fisica di Anassagora. Alla morte il corpo dell’animale si disgrega in altri corpi, “mentre” la forma sostanziale o anima o monade dominante permane con un corpo più piccolo. Quindi resta nel flusso dei corpi come se stessa-eppure-non-se-stessa, ovvero entrando in altre composizioni senza perdere la propria identità: di nuovo, panta en pâsin, tutto è in tutto. Alla nascita accade l’opposto: quindi il mondo naturale è da sempre e per sempre (dall’alfa all’omega) un fiume, un continuo in cui lo stesso si fa altro e l’altro ritorna lo stesso (Empedocle, Eraclito, forse anche Parmenide). Per le anime umane razionali invece Leibniz postula la creazione nel tempo: ma ciò non spezza il continuo? Forse vuol dire che ad ogni concepimento umano si “aggiunge”, si infonde lo spessore “storico” della ragione umana, la memoria che non è accumulo ma la presenza conoscitiva-espressiva a Dio, lo star-di-fronte-a-Dio che costituisce l’uomo (“crescendo” come ulteriore dimensione sulla sensibilità animale, ma anche esprimendo la capacità di essere “specchio lucido” di Dio – secondo Ibn ʻArabī –, microcosmo nel senso più distinto, dinamico, spirituale). Così l’immortalità umana è in continuità con l’indistruttibilità delle altre monadi-esseri (tutte le cose “risorgeranno”), ma ha il novum specifico della memoria cosciente. L’uomo è l’anima del cosmo perché è conspevole di essere ciò che il cosmo è confusamente. L’uomo è il re-sacerdote, califfo (vicario) di Dio, proprio perché è la più bassa tra le creature. Solo se si umilia verrà esaltato: questa verità è in fieri, dinamica, la prima è evidente, è il suo humus. È il ribelle del creato, è quasi Satana. Isacco il Siro esorta a considerarsi inferiori alle creature “irrazionali” (aloga), perché non saranno giudicate (ovvero non sono giudicate dal logos, ur-teil, “partizione originaria” secondo Hölderlin).

In quanto sue espressioni-creature, tutti gli esseri contingenti tendono all’Essere necessario, come tutte le verità di fatto tendono a risolversi, in infinitum (in Dio), in verità di ragione, assolute. Ma l’espressione è caduta (beatrix culpa), ogni esistente e il mondo nel suo insieme ha un limite: non tutti i possibili esistono, non tutte le idee di Dio si realizzano. Proprio i possibili non realizzati sono il limite che circoscrive quelli realizzati: sono quasi il quadro o lo sfondo dell’espressione-Creato. Ma come pensare lo statuto ontologico dei possibili, soprattutto di quelli non attualizzati? È forse analogo al caos?

In virtù della corrispondenza armonica, i corpi sono un flusso e gli stati o atti percettivi in continuo mutamento. La meditazione, congiungendo sonno e memoria, rende il punto di vista (inesteso, “quadridimensionale”, limite del mondo) trasparente a se stesso, quindi più libero-attivo. La monade “dominante” al suo apice è hegemonikon, testimone, punto di stupore creaturale-creativo, di prajña che emette e sintetizza la sua interiore-esterna unimolteplicità percettivo-espressiva.

I possibili sono le essenze o idee in mente Dei. Il mondo non è Dio, lo esprime (=sua creatura-riflesso vivente), quindi la sua determinazione, il suo limite, sarà effetto della saggia volontà divina: non la sua necessaria (absolute) emanazione, che implicherebbe l’esistenza in atto di tutti i possibili. La loro “lotta per l’esistenza” nella mente di Dio è dovuta al fatto che i possibili, pur reali per Dio e tra loro non assolutamente contraddittori, non sono tra loro tutti compatibili o compossibili, data la volontà di creare un (il) mondo. (Si può forse dire che i possibili non esistentificati sono l’abisso che separa Dio dal mondo? Anche l’uomo, lo spirito, in quanto specchio diretto di Dio, imago Dei, non esprimerebbe tutti i possibili, pur potendone concepire appunto la possibilità).

In Leibniz è come se l’interdipendenza-shunyata (tutto è connesso a tutto – tutto è in tutto – ogni cosa è specchio del tutto, quodammodo omnia, “parte totale”) cercasse una formulazione ipotetica, fisico-metafisica, mentre Wittgenstein e il buddhismo “tacciono di ciò di cui non si può parlare” (il limite del dicibile-pensabile fa stagliare il tutto, il vuoto quanto non-indipendenza, in senso negativo, è lo spazio libero e dinamico dell’interdipendenza in senso positivo). Ma la “metafisica dinamica” di Leibniz sembra, almeno a volte, risolvere l’idea ingenua e cosificata di sostanza in un intreccio di rispecchiamenti, dove “il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte” (Dio esprime sé nel mondo).

Forse Leibniz avrebbe dovuto ripensare il principio di identità: A è non-A e quindi-eppure A. O in una chiave appunto “buddhista” (Zen), o in una luce trinitaria, come in Florenskij. Altrimenti lo iato tra verità di ragione e di fatto rimane astratto, razionalistico, invoca il passaggio al limite in modo poco chiaro. Una cosa è se stessa in quanto è (esprime) il mondo: la “filosofia dello specchio” richiede una sorta di circolarità, di rimando infinito che si chiude o curva su se stesso. (L’ut unum sint, il corpo del Christus Totalis come realtà non sembrano trovare un posto adeguato nella visione leibniziana).

venerdì 15 aprile 2011

Intravedendo la montagna del Purgatorio


Les animaux, me disait-il, sont, dans nos mains, les otages de la Beauté céleste vaincue… [Léon Bloy, La femme pauvre]


come una vacca in un mattatoio

irto di macchine da lunapark stregato

sotto la smorta consapevolezza

di luminarie drogate

come un vitello e un nobile porco

familiari e studiosi dei tormenti

la nostra parte graziosa muove

in un’eternità di grido

a qualcosa di estraneo e destinato

e sente nella pienezza

della sua carne paziente

ciò che il macellatore s’è addestrato

compiutamente a trascurare

a prendere per buono mortalmente

nella caligine del cranio inchiavato

nella stretta delle mani assonnate

il macellatore – noi – le nostre dita e la nostra testa –

il bricco screpolato i ricurvi becchi

dalla consegna impegnati

di un maestro astuto e indolente

nel rito che perpetua

la felicità per le strade la regalità nelle stanze

il rito facilissimo che il porco e la vacca

lavorano l’uno dopo l’altro

a sdipanare a rendere palpabile

sanguinoso esatto molteplice

complesso come la tua morte e la mia

candido come la tregua

fra i nostri giorni di furia



- 7 Gennaio 2004 -

giovedì 14 aprile 2011

Frammenti saturnini


Nietzsche: Se vuoi restare giovane a lungo, affrettati a diventare vecchio.


Figlio di Urano, il cielo profondo e oscuro, l’archetipo-limite, sublime-nullo, e di Gea, la ricettività, il peso-stabilità, Crono-Saturno è l’archè. Ovviamente tutti gli dei sono archai, ma Crono-Saturno, l’arcititano, è per così dire l’archè delle archai, e come tale sta al margine (perché costretto, ma forse “ama nascondersi” come la physis eraclitea). Il padre degli dei e degli uomini è suo figlio, posteriore all’archè, il patriarca Zeus (il regno patriarcale si accampa come ri-cominciamento, sempre debole e minacciato – vedi la profezia di Prometeo incatenato).

Crono-Saturno è il senex: la sua congiunzione col puer è originaria, quindi si è perduta-spezzata e va “recuperata”. Le origini sono auree, libere, spontanee, ricche, fluenti (età dell’oro, Eden anarchico); ma anche regolari, rituali, sacerdotali (Città del Sole, Saturnia regna).

Il mito di re Mida è una tragedia dell’età cronia: chi trasforma tutto in oro è il contemplante, digiuno, impotente, immobile. Aporia del possesso assoluto: il Vecchio non ha più niente, quindi ha la chiave del potere (del potere impotente – e del potere spirituale, come in Byzantium di Yeats).

Nelle rivoluzioni, il puer dionisiaco e il senex saturnino sono entrambi presenti: storicamente (dal punto di vista della diacronia umana) sono in conflitto dialettico, archetipicamente (sul piano della sincronia divina) sono legati, abbracciati. Ci si ribella e si distrugge sempre per riconquistare il Paradiso terrestre, la libera-regolata archè. Ma nel tempo storico, appunto, la scissione tra puer e senex porta all’oscillazione tra la licenza festosa e lugubre dei tumultuanti col berretto frigio (simbolo dionisiaco) e la successiva dittatura (il Terrore), preludio alla tirannia (Napoleone) e alla restaurazione (monarchie ‘borghesi’).

Il martello di Efesto e la falce di Saturno, branditi come armi dall’Ares-Dioniso rivoluzionario, rivoltano il campo per prepararlo alla squadrata regolamentazione dei piani quinquennali.


Urano, l’onniavvolgente vacuità dello spirito, genera Saturno-archè, che lo evira: l’archè soppianta la vacuità, che da allora in poi sembra nulla, impotente. L’archè viene poi evirata a sua volta dal figlio Zeus, l’azione geniale, il giudizio folgorante, la regale creatività. (Saturno divora i suoi figli: si è ormai consumato il distaccato dal puer, il vecchio re aborrisce il nuovo, assimila tutto a sé. Ferocia dell’Unità. Il mondo sub specie Saturni è il mondo qoelethico, in cui non c’è novum).

Viene gettato nel Tartaro: da lì regola i ritmi naturali della terra, ma anche le rimozioni, le coazioni profonde, essenziali, petrose, arcaiche.


È il dio dell’accumulazione gelosa, dell’immobilità, e anche della purificazione, della nigredo, della spoliazione. Accumulo e denudamento sono congiunti nella fucina alchemica del carattere, ethos-daimon, che non è l’ego ed anzi è in un rapporto di continua lotta-elusione con l’ego. L’ego è ciò che impedisce all’anima di vedere in trasparenza.

mercoledì 13 aprile 2011

Andrea ho Salos




Anche capita
di perdere la faccia
non al modo comune di chi rode
la sua tetta d’ombra sul cadavere
ipnotizzato di Bisanzio,
quando frusciando plana in qualche scolo,
(e il complice specchio copia ancora
la sua molle memoria domestica,
però dalla giustizia di un incontro
con una viva psiche ti ride
la luna demente del tuo cranio
);
capita anche, a volte, di deporla
come quel melo
che lavora il suo amore nella tenebra
dell’attenzione, e piange ed esulta
a lungo, sontuoso nel disprezzo
del mite peso sillabico,
del grumo che non osa misurare
il proprio fiato di smania e abbandono,
e si gonfia di luce e di midollo,
lento sinuoso quaderno
per cui la terra manda a memoria
la pazzia del raggiante Imperatore
che vide la Sua faccia nella perdita,
e sognò e dispose la Sua sorte
di esatto disonore,
di vasta e minuziosa nullità,
di dolcissima morte.


NOTE:
Andrea ho salos (“il folle” per Cristo), schiavo di origine scita, seguì la via della santa idiozia a Costantinopoli fra il V e il VI secolo d.C. (secondo l’agiografia di Niceforo, presbitero di Santa Sofia).


- Luglio 2002 -

martedì 12 aprile 2011

A De Sade patrono








Kafka alzò le spalle.
«È possibile giungere al bene attraverso il male? La forza che si oppone al destino, in realtà, è debole. L’abbandono e la sopportazione sono molto più forti. Ma questo il marchese de Sade non lo può capire.»
«Il marchese de Sade?» chiesi io meravigliato.
«Sì», annuì Franz Kafka. «Il marchese de Sade, di cui mi ha prestato la biografia, è il vero patrono della nostra epoca.»

Gustav Janouch, Conversazioni con Kafka

Eroe è chi oscuramente patisce
per incitare altri a superarlo.

Hai venerato con furia lo strazio
di un Dioniso crocifisso – non come, più tenero,
lo scorse e abbracciò un folle mendico
cent’anni dopo: ti ubriacava lo stento
del dio del vino appeso alla Macchina,
inscritto negli stantuffi, ritorto
dalla norma fino al silenzio,
eppure nella tua contemplazione
dell’avvilimento perfetto, in cui tutto quadra
perché squadrato dall’ordigno del carnefice
che è una mente dimentica della carne,
non ti era stato nascosto, penso, il sublime,
l’incanto di farsa che avrebbe gettato
sulla faccia delle generazioni future,
sulla faccia dell’abisso. Questi due secoli
sono stati un’immane processione
al tuo sacello d’ombra, ai tuoi recessi
aperti sulla terra, aperte piaghe
come d’incesto a una sorella muta.
E dunque, Aldonze Donatien, prega per noi:
sii, nella morte, servo; con tua pena
offriti alla visione necessaria,
perché dopo di te niente può vivere
né morire, se non già vincendoti
con più forte sapienza, con vero amore.

- Agosto 2005 -

sabato 9 aprile 2011

Da vecchie conversazioni sugli dèi


I.


L’ambivalenza mitica, arcaica dello specchio è famosa: Dioniso-Zagreo si distrae, si aliena da sé mirandovi stupito il suo riflesso – e in quell’istante i Titani lo uccidono. L’universo è quel riflesso smemorato, fissato in illusoria permanenza da un gesto sacrificale-omicida (“violenza e gioco”, commenta saggio, e nicciano, Colli). Anche Narciso è figura eminentemente orfica: amando sé come altro nella parvenza che gli rimandano le acque cosmogoniche, originarie, il giovinetto muore e rinasce come fiore il cui odore stordisce, trae fuori da se stessi, dona un breve e leggero sonno di stupore (narkào, narcosi). La sua orficità è forte nell’eludere pervicacemente l’eros come apertura all’alterità, atteggiamento che gli attira la nemesi: ma come al solito il mito non moraleggia, disegna per quanto possibile la manifestazione di un archetipo. Narciso simboleggia certo il narcisismo come passione umana, ma anche la passione del Divino autosufficiente che esce da sé, che sperimenta un’estasi mortale-creatrice nella molteplicità, passando attraverso le acque – il cui riflesso di superficie cela l’abisso della morte trasformante, dell’iniziazione profonda – della Materia. Quindi è anche vero che la passione umana, come sempre, è imitazione seminconsapevole – assonnata, stordita – di una passione divina, e la sterilità di Narciso, quintessenziata in “un bel fior senz’alcun frutto”, è anche la morte che fa dell’Uno Molti, caduta originaria (e in quanto tale stigmatizzata da Plotino, e da tutti gli spirituali) e insieme ekstasis, compimento del divino nel fiore della bellezza odorosa, il fiore come essenza del simbolo, culmine fragile e mediano dell’opera creatrice (apprezzato dall’anima, che in questo mito, appunto, si specchia e tragicamente giustifica).

Dice bene questa gloria ambigua (spirito-anima) dello specchio e di Narciso uno stupendo sonetto orfico di Rilke:


Specchi, nessuno ancora ha mai descritto

sapendo l’esser vostro nella vostra essenza.

Voi, come un setaccio di buchi fitto

voi, del tempo spazi interstiziali.


Voi, ancor di vuoti saloni generosi –,

come foreste immensi nel crepuscolo...

E il lampadario, cervo dalle ramose corna,

muove attraverso il vostro impenetrabile.


A volte siete colmi di pitture.

Alcune sembrano in voi venute –,

altre remote respingeste timorosi.


Ma la più bella rimarrà – ,

finché nelle sue gote altrove trattenute,

irrompa il chiaro Narciso liberato.


II.


La proporzione Jung:Corbin=Pensa:Buddha credo meriti di essere sviluppata. Per passare dal lettino della terapia psicanalitica al mondo delle rivelazioni angeliche, si deve percorrere una strada cui Hillman allude, anche se non è detto che gli interessi tracciarla: perché Hillman vuol restare fedele al destino della psiche occidentale, alla sua storia-cultura, quindi le sue indicazioni sono ermetiche, sfuggenti, a volte risultano più preziose certe sue allusioni, certe risonanze inerenti al suo stile di pensiero e di sensibilità, che non molte sue apparenti prese di posizione polemiche, brillanti e sottilmente fuorvianti. Non troppo diversamente, la vipassana di Pensa deve uscire dallo stanzone e dalla stanzetta ed entrare nel mondo, lasciarlo entrare, fare spazio alla sua manifestazione, “così com’è”: e che sia difficile per il praticante occidentale, abitante delle metropoli impersonali, murato nelle sue nevrosi, motivato spesso segretamente dalle sue richieste di sollievo o di benessere, è qualcosa che possiamo testimoniare direttamente. Eppure, in un tempo in cui gli angeli “non si rivelano più”, nel “tempo di privazione” dell’elegia di Hoelderlin, è urgente e possibile esercitare, senza la paranoia che è ansia soffocante di significati definitivi, l’ufficio profetico che fu del Precursore: “preparare la via”. Non possiamo ritrovare gli angeli solo con sforzi privati – come il barone di Munchausen che pretendeva di sollevarsi per i capelli – ma senza partire da questi sforzi non è pensabile alcun accostamento all’immaginale: non possiamo non partire da “qui”, dalla nostra necessità, dalla nostra malattia, dal nostro io che forse è un’apertura sul mondo, una presenza carnale, non una chiusura, una porta sprangata, un muro. Entrare nel mondo delle fiabe, nel mondo immaginale insomma, vuol dire (parola di Cristina Campo, e degli gnostici, dei sufi etc.) “ragionare a rovescio”, vedere la forma, la faccia dell’evento invece della proiezione, della rappresentazione soggettiva: ma per farlo non abbiamo altra lente che quella, deformata e quindi viva, prensile, delle nostre proiezioni, della nostra prospettiva. Ogni visione del mondo è un quadro, un ritratto del mondo, quindi qualcosa di prospettico: ma la prospettiva, che all’inizio mi sembra “la mia”, si rivela essere quella del mondo, dell’oggetto stesso che mi guarda, che mi si fa incontro. L’angelo viene a cercare Maria, non viceversa: eppure Maria, dice Ibn Arabi, vede un uomo perfetto, perché è una donna, ed è piena di casto-bruciante amore divino. Gli antichi sostenevano che ogni visione, a partire da quella fisica, oculare, è un incontro erotico, una sorta di coito fra il ‘soggetto’ e l’‘oggetto’, tra l’irradiazione che mi viene dal mondo e il raggio del mio occhio che è di origine solare, che insomma è parente del dio Sole, degli archetipi.


III.


Non avevo rilevato la presenza del Dio-Capro nella selva ricca e inestricabile dei tuoi ultimi sogni, ma poiché l’hai pensato, in effetti è così: Pan c’è (come nelle scritte sulle autostrade, che sono un segnale in codice per informare gli eroinomani della presenza di pusher nella zona). Il grande Pan è morto, ma ritorna sempre, insiste sempre, come fantasma diabolico e inquietante, come pathos morboso in cui risuonano, respinti in un sottosuolo di dissonanze, gli armonici del pathos mitico e tragico, del pathos dell’archè. Ma la sobria e fremente preghiera di Socrate a Pan, nel Fedro, ci indica una strada “agli incroci del cuore” (Rilke) e ci pone sulle tracce di un altro dio dei crocicchi, l’ermetico Eros figlio di Poros e Penia, vagabondo che vive sul crinale della morte.

Gli assalti coattivi di Pan sono la sostanza della nostra adolescenza, delle nostre molte adolescenze: tu ne stai attraversando una, non meno, anzi forse più importante della prima, perché sei nel mezzo del cammin di nostra vita, la selva oscura degli archetipi ti sta cingendo da ogni lato e attendi il lume dei padri, la guida di Virgilio e di tutti i morti che rischiarano (così spesso non visti, non ringraziati, non amati) i comuni – eppure ogni volta solitari – percorsi intrecciati del karma. Pan è il divino nel naturale: dopo l’oracolo di Plutarco, per noi cristianizzati è difficile coglierlo nella pianura abbacinata dal sole, nell’ansa segreta del fiumiciattolo, nella vibratilità profetica degli animali; ma, se reimpariamo la reverenza di Socrate, possiamo ancora scorgerne le vestigia forcute nel mondo apparentemente privato del sogno, nella presunta solitudine e separatezza del nostro corpo percorso dai fremiti di adolescenze sempre nuove.

Il panico ci apre l’occhio dell’immaginazione sul divino nella natura. Si può applicare alla religione dei Molti questo versetto dell’Unico Dio abramico: reshit chokhmah yirat YHWH, “principio della sapienza è il timore del Signore”. Rabbi Mendel di Kotzk dice che è come il terrore che prende quando si incontra un lupo in un bosco: si ha paura e basta, senza tempo di interrogarsi e pensare. È un paradosso: come può un sentimento istintivo, irriflesso, essere la scaturigine, la fonte, il seme, l’inizio della sapienza? Questo timore-paura (che non è ancora il panico, ma è un phobos estremamente intenso e pervasivo) va assunto su uno sfondo di accettazione del divino, va per così dire abbracciato da una sorta di sati permanente: è la mindfulness della paura, la presenza di anima e cuore alla paura a costituire “il principio della saggezza”. Non diversamente, credo, con Pan.

La preghiera socratica a Pan fiorisce significativamente durante un dialogo su Eros, sulla mania erotica, il Fedro. Quando Dante ha la tremenda visione sciamanica di Amore, nella solitudine della sua stanza, parla di un “segnore di pauroso aspetto”, e i versi ci comunicano un phobos violento, che fa rizzare peli e capelli, una presenza da incubo lucido che sta al confine tra il “timore di Dio” dei Proverbi e gli assalti di Pan alla psiche politeistica:


Quando m’apparve Amor subitamente

Cui essenza membrar mi dà orrore.


IV.


Il sacro conosce solo la configurazione del mythos, dell’intreccio mitico, la sua ananke supera le motivazioni, le intenzioni – come nel caso di Uzzà, uno dei portatori dell’Arca dell’Alleanza, che stese la mano per sorreggerla quando rischiava di cadere a terra (gesto che sembrerebbe di squisita bhakti, dal punto di vista dell’uomo che l’ha compiuto) e venne immediatamente fulminato. Kafka dice che le nostre interpretazioni del mito esprimono solo la nostra disperazione di comprenderlo: meno nichilisticamente, direi che le interpretazioni sono quadri umani 3D, sezioni molteplici di uno sfuggente e spaventoso (per noi) Oggetto 4D. In questo senso, anche le motivazioni umane rientrano nel mito, ma non nella sua archè, che è sovrarazionale, bensì nell’agone dionisiaco del teatro tragico, in cui l’umano e il divino lottano facendo risplendere qualcosa che sta al di là del sacro stesso. Le perplessità del logos sono più sacre del sacro, o per lo meno ci mettono sull’unica via lungo la quale è possibile relativizzare persino il sacro – la via dell’iniziazione, la via del pathos che insegna trasformandoci nella tenebra. Ricordi Eschilo (pathei mathos)?


Scende goccia a goccia nel sonno, in faccia al cuore,

un affanno memore di angosce: anche a chi non la vuole

giunge saggezza; grazia violenta

degli dèi che seggono al venerando timone.

Fogli sparsi e ingialliti (2008)


Ai margini dell’Isagoge di Porfirio

Ghenos – come la stirpe, come il bosco: unificante – analogo alla materia per la sua indistinzione, se considerato dal basso (dal punto di vista logico, cioè dell’uomo che conosce astraendo); ma simbolo dell’ordine angelico come unimolteplicità se considerato dall’alto (dal punto di vista heno-ontologico, cioè dell’Uno che si manifesta). La specie-eidos è il punto di giunzione tra il ghenos e l’individuo: è la morphè, la sua conoscenza è morfologica, fenomenologica, sta al confine tra unità e molteplicità (la specie introduce la differenza-diaforà nel ghenos, ma è l’unità dei suoi individui): corrisponde all’angelo, ognuno dei quali è specie. Il proprio-idion media tra la specie (che è forma, essenza e logicamente la definizione) e l’accidente-symbebekòs. L’idion non rientra nella definizione intesa come classificazione (massimo comun divisore, prospettiva logica), ma è inerente alla forma, seppure non sempre in atto (minimo comune multiplo, prospettiva ontologica). Il symbebekòs è ciò che si predica dell’ente o sostanza (le 9 categorie dopo la prima, l’ousia appunto) senza appartenerle necessariamente (=la sua assenza non implica la phthorà, la distruzione, del soggetto). Di fatto, da un punto di vista henologico (cioè al di sopra e al di là dei limiti della prospettiva logica e anche ontologica), si può dire con Ibn Arabi che l’universo intero rispetto a Dio è majmū‛ a‛rād, un insieme di accidenti, oppure che ogni cosa è necessaria nell’Essere Necessario (nella prima formula si allude al fanā’, nell’altra al baqā’); ma proprio alla luce del tawhīd integrale di cui parla Corbin, dell’unificazione di fanā’ e baqā’, è importante congiungere la prospettiva henologica a quella ontologica e quindi logica, tenendo i piani distinti ma sapendone l’interdipendenza. Così la relativa consistenza degli esseri creati fonda e necessita il sapere logico, col suo riferimento formale e fenomenologico alla sostanza, pur lasciando aperta nel linguaggio e nel pensiero la possibilità di rotture che alludano simbolicamente al rapporto originario.

Dell’individuo (atomon) non si dà episteme: l’individuo è il punto più basso dell’emanazione, del depotenziamento inerente alla moltiplicazione, è il confondersi della forma nell’apeiron della materia, è atomon in quanto irripetibile e (ulteriormente) indivisibile – ma proprio per questo è anche atomon come l’istante, punto di partenza dell’epistrofè, della conoscenza, inconoscibile, segreto della rubūbiyya. L’uomo come essere più “individuale” del creato – di qui il rapporto dialettico con gli angeli, pure forme. L’individuo sostanza prima di Aristotele e di Tommaso (corollario: concettualismo) e punto più basso dell’emanazione nei platonici. Porfirio dice che il primo è lo sguardo dal basso, logico, il secondo quello dall’alto, heno-ontologico: ma da una prospettiva di tawhīd integrale si può dire che l’individuo è la manifestazione dell’universale – tutto è in tutto – e al tempo stesso che, in quanto individuo, parte irrelata, autoidentità impossibile e inconoscibile, è illusorio.

La scienza non lo attinge, perché oggetto della scienza è l’astratto, l’universale post res (dal punto di vista logico – dal punto di vista del nous è l’universale in rebus e ante res. Duplice accezione del termine episteme). Se l’individuo entra in un sillogismo, rende impossibile la deduzione necessaria, la dimostrazione (Newman: “Tutti gli uomini muoiono, Elia è un uomo, dunque Elia è morto”). L’individuo è una sorta di corda tesa tra l’universale astratto e la persona concreta – o tra l’universale astratto e l’universale concreto (l’Uomo, il Cristo Totale etc.). In questo spazio – in questa intersezione che è davvero atomon – fiorisce la fede abramica, o l’eros antico.


Riduzione di tutte le proposizioni a quelle categoriche, riduzione di tutte le proporzioni all’uguaglianza, di ogni somiglianza e uguaglianza all’identità. L’identità numerica come orizzonte ultimo: è l’identità immediata, concreta, quella di Conoscente e Conosciuto nella Conoscenza.


Il realismo ‘forte’: legittimo se gli universalia sono le idee platoniche, le idee divine, gli angeli-dèi; illegittimo se ipostatizza i concetti della logica. Il concettualismo (realismo o nominalismo moderati) come posizione mediana, affine a quella aristotelica: parte dal basso e vede nell’individuo la realtà primaria, il sinolo concreto, ciò che partecipa dell’atto d’essere. Il nominalismo estremo come posizione scettico-razionalistica: presente nello scetticismo religioso, fideistico, nel misticismo che immerge nell’Uno ogni determinazione razionale tendendo ad annullarla, e tutto il soggettivismo che cerca giustificazione nel criticismo kantiano etc.


Diversi modi di esprimere la quaestio de universalibus: ciò che è comune, ha realtà? Il nesso tra pensiero ed essere, tra soggetto e oggetto, è una relazione vivente, fonda una totalità?


* * *


Le Urworte di Goethe.

Daimon-Sole: l’intima necessità, l’essenza, la forma sostanziale, la ghianda, il centro, “porta a termine il contratto dell’anima col tutto”.

Tyche-Luna: la fortuna, gli accidenti, la materia come alterità, potenzialità, cibo (l’anna vedantico) che l’entelechia assimila, “porta a termine il contratto del tutto con l’anima”.

I due serpenti, le due correnti si intrecciano sull’asse centrale. Il loro bacio è Eros (Venere): congiungimento di bocche, di logoi, reciproca fusione di fiati, di pneumata; intersezione, nell’istante dello sguardo, di sé ed altro, dell’identità che si rispecchia narcisisticamente e dell’alterità che trae fuori dal consueto, di necessità e casualità. L’eros cosmogonico, l’Afrodite-Philotes di Empedocle foggia il composto organico, la physis, la ghenesis, l’unità dinamica di eidos e hyle. Eros è l’anima, è Ermes-Afrodite, è il movimento del cosmo verso Dio, è l’epistrofè, è la conoscenza congetturale umana come movimento dialettico dalla rappresentazione alla presenza contemplativa.

Il nodo inferiore che le serpi intrecciano sull’asse è Ananke (Saturno?): destino e caso, sé ed altro si radicano in un’unità profonda e inconscia che si manifesta come necessità che limita desideri e passioni, come traccia petrosa del carattere, come persistenza e invarianza per cui interno ed esterno si consumano reciprocamente, in un accordo discorde sempre più doloroso-purificante. Ananke è la morte progressiva del desiderio che progressivamente rivela l’anima nella sua scaturigine noetica, intellettuale: ma può vivificarla solo facendole prendere le ali di Elpis, che è Mercurio stesso, sostanza sottile e dinamismo dell’intero caduceo. Elpis è il possibile che fa accedere istantaneamente al reale, è l’apertura del destino al Bene, sua origine e meta.

(Per completare il settenario dei pianeti mancano i nodi di Marte e Giove).


Il limite della henologia platonico-plotiniana mi sembra stia in questo: che concepisce l’Uno ancora dal punto di vista dell’intelletto, del Nous. Ma perché la realtà sia davvero hen-kaì-pân, hen-kaì-pollà, bisogna che la trascendenza apofatica dell’Uno non sia colta come il negativo dell’Intelletto, come la negazione pura e semplice del suo oggetto. L’Uno platonico-plotiniano è soprattutto il Bene, ma la sua semplicità sovraintellettuale e sovraessenziale andrebbe piuttosto intuita-pensata, in modo più dinamico, nel punto eterno di distinzione/contatto tra l’Uno e il Nous, quel principio amoroso e ipernoetico del Nous che riconcilia il platonismo con Parmenide (il cuore di Aletheia è l’Uno nella sua non-ipostatizzazione, colto dinamicamente e senza porre un “oltre-la-manifestazione” – un “dentro”, semmai, ma un’interiorità vivente, organica) e lo apre alla Trinità cristiana.

venerdì 8 aprile 2011

La libertà del Quattro


Caro * * *,

sono felice che tu riesca a goderti qualche fine settimana come Dio comanda: che grande opportunità è anche la minima vacanza! Vacare sibi, vacare Deo... La radice è vacuum, vacuità, libertà. Ci sono alcune stupende righe di Chesterton sul tentativo, da parte dell’economicismo moderno, di distruggere o meglio di evacuare la vacanza: perché, appunto, ogni vacanza è tragica e ricca di senso come le antiche feste, come gli antichi riti, è preparazione alla morte e quindi all’eternità, che è la suprema vacanza. Ah deliziosa umiliante avventura!

Per una buona fruizione di Uspenskij non ti consiglio di riprendere in mano Kant: basta quello che ricordi delle tue passate e non banali letture. L’aspetto più interessante della grande stagione di riflessioni sulla quarta dimensione è proprio questa esigenza di superamento del razionalismo kantiano. Il kantismo è l’ultimo e nobile fortino assediato di una concezione del mondo che sopravvive angosciosamente in un’epoca essenzialmente nuova e caratterizzata da una Weltanschauung intimamente differente: un po’ come molti elementi del pensiero ellenistico persistevano nella nascente era cristiana, alcuni mutati di senso, altri come reliquie a volte consapevoli, a volte inconsapevoli, sempre in conflitto (anche qui, un conflitto a volte autocosciente, a volte sordo e patologico). Florenskij sosteneva profeticamente che all’inizio del XX secolo il mondo occidentale stava ritornando alla visione medievale della natura e dell’uomo – cioè, secondo lui, alla visione simbolica o quadridimensionale, spezzata (altrettanto simbolicamente!) dall’uomo rinascimentale, che ha fatto emergere una visione prospettica, piatta (tridimensionalismo, meccanicismo, razionalismo etc.) e in fondo antireligiosa, culminata nell’apologia del kantismo. Per tornare a Uspenskij, il suo libro (Tertium Organum) mi sembra utilissimo perché l’ipotesi delle dimensioni superiori vi appare come uno strumento per immaginare e pensare, attraverso delicati ma resistenti fili analogici, le più antiche intuizioni della filosofia (anima, forma, incorporei e corpi, eternità e tempo) non più, razionalisticamente-dualisticamente (cioè in modo ‘metafisico’ secondo l’accezione nietzscheana-heideggeriana-wittgensteiniana del termine, per la quale metafisica=superfisica, proiezione astratta della fisica), come ‘oggetti-che-stanno-dietro-il-fenomeno-o-da-nessuna-parte’ etc. (praticamente, concetti utilizzati per tappare buchi cognitivi) – ma, appunto simbolicamente-unitariamente, come realtà sovradimensionali ed ‘eterne’, in cui siamo immersi, e di cui conosciamo solo sezioni temporali. L’ipotesi può essere sfruttata in molti modi: dalle elucubrazioni di Hinton, al patchwork sbrigativo della teosofia, alle suggestioni della fantascienza, al progetto di recupero del pensiero simbolico in Florenskij, etc. etc. (Fuori dall’Occidente l’integrità si è conservata soprattutto attraverso la trasmissione diretta, sapienziale, delle scuole: la metafisica dell’immaginazione nel sufismo iranico, l’essere-tempo del Soto Zen di Dogen etc. etc.).

Anche gli sciamani avrebbero molto da dirci – se potessero comunicare con noi! Putroppo è già difficile tra culture un po’ più segnate dalla storia, addirittura fra culture sorelle (ma non è troppo strano: il vicino è il più arduo da accostare). A proposito di dimensioni multiple: come un essere tridimensionale, attraversando un mondo bidimensionale, appare come una successione di esseri bidimensionali bizzarri o come un unico essere bidimensionale sfuggente e inquietante; così una sessione sciamanica offerta ai sensi e alla mente di un abitante di Roma del XXI secolo il più delle volte apparirà come un caos futurista o surrealista di suoni inarticolati e articolati, parole suggestive e parole insensate, gesti mimetici e danze monotone svariate da elementi casuali...

A presto, tienimi informato sui tuoi viaggi (in qualunque dimensione). Daniele

Parziali per troppa totalità


Nei romanzi di Tolstoj ad un tratto compare un mužik dolce e severo, perfettamente fiabesco, che con la sua semplice presenza fisica, un paio di battute folgoranti e di proverbi meravigliosamente ordinari illumina un borghese torturato da splendidi vizi spirituali e da una violenta fame di giustizia, o un aristocratico crocifisso fra cielo e terra, flagellato da antiche finezze e nuove volgarità. Quel contadino, quel Platon Karataev realissimo e idealissimo, è ad un tempo il Povero Aggraziato di Pasolini e il Sapiente Aggraziato di Zolla: e tutti e tre sono miti, tre miti diversi, nitidamente e confusamente diversi, sono un unico mito – sono mito. Un’Arcadia, un Eden, perché nessuno muoverebbe un passo senza la ferita luminosa del Giardino negli abissi del cuore: ma appunto, come insegna il grande quadro di Poussin, anche nell’Arcadia c’è la morte, la fragilità, la frattura.

Il Sottoproletario Innocente è facile da demolire: la sua stoffa è più borghese e decadente che marxiana (sebbene anche la critica marxiana non possa sottrarsi alla legge secondo cui la lotta assimila distinguendo), e nonostante Pasolini sia tortuoso e complesso, davvero c’è qualcosa di irrimediabilmente viziato persino nelle sue visioni migliori. Ma perché? Perché sono profezie: e il profeta sbaglia sempre. Il profeta, cioè il più prezioso fra gli uomini.

E il Sapiente di Zolla? Sembra più resistente, perché più sottile: ma qualcosa non va lo stesso. Elémire aggira il tragico: vede troppo chiaro, manca spesso di stupidità, di ironica cedevolezza umana. Come tutti i sapienti, mi si dirà. Non esattamente: come i fini intellettuali che filtrano sofia dalla foglia secca ed enigmatica del passato. Il suo Sapiente è un mito, necessario ed anzi eccelso, ma anche in questa Arcadia c’è la morte: la Sapienza non si incarna mai in modo così sapiente. Non parlo solo dello Zolla guenoniano e tradizionalista; lo Zolla magnificamente equilibrato degli anni ’70-’80, generosamente acquariano, centrato e perplesso, è pur sempre il profeta di una delicata gnosi occidentale che dissolve i nodi turpi e sacri dell’occidente – una gnosi che supera il tragico con un gesto sovrano, fiabesco e imperfetto. Ricordi le sue repliche a tormenti occidentalissimi, come quello di Primo Levi nel racconto Trattamento di quiescenza, quello del Cioran “sadiano” etc.? Ricordi il suo Kafka cabbalista, l’umido di quella grande anima straziata cauterizzato da un ferro rovente? La sua inquisizione sul fantasticare? E i quadretti francofortesi dell’Eclisse dell’intellettuale, pur genialissimi – quelle visioni di subumani che ascoltano con rapimento autistico motivetti di due note, quella critica ferocemente sistematica del cinema, dell’arte moderna, di ogni minimo sussulto rivoluzionario –? Sublimi, profetici, parziali per troppa totalità, per troppo Uno.