Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 30 aprile 2010

Signore, aumenta la mia perplessità


- Io credo a tutto, e a nulla: sono Gimpel e Pirrone insieme.

- Non dire sciocchezze! Nelle situazioni concrete, reali, rispondi in modo preciso: fai ciò che sei, ed è questo che credi.

- Certo, ma questo credere sta alla fede come il fatto di esser nato sta all’amore per la mia vita.

- L’amore sorge dal riconoscimento dell’esistere, dalla riconoscenza per l’esistere.

- No, non è così naturale. L’amore e la fede di cui ti parlo, e che non ho, sono una grazia che scende su una vita già spezzata o già piena, su un uomo già verme o già adamo, su un pagano, su un ebreo, su qualcuno o su nessuno.

- E tu pretendi di essere meno, o magari più, di qualcuno e di nessuno? Pretendi di essere altro? Non è che stai scambiando la realtà misteriosa della tua specificità per l’orribile sortilegio della solitudine di chi si sa speciale?

- Te l’ho detto: non mi sento più speciale in questo senso. Ma non tutto di quella solitudine era sortilegio e delirio; nell’informe fluire di sofferenza e colpa si addensava il volto irrefutabile del mio destino, che ancora non conosco. Forse – questo intravedo oggi – il destino di uno che non ha una religione.

- Amico, fratello, ma chi mai può avere una religione?

giovedì 29 aprile 2010

Metaformosi del Golem: magia, alchimia, tecnica/3


Le petites perceptions di Leibniz, che Sacks accosta fuggevolmente alla propriocezione: flusso di messaggi su una tremula frontiera che rimane sempre sullo sfondo, confusa, materia prima da cui fiorisce la differenziazione conscia. Il corpo sottile ha forse a che fare con questo livello psico-corporeo, su cui agisce la suggestione di una malattia o di una fantasia carica di fede, cioè magica.

L’africano che trascriveva per terra le linee, il ritmo delle parole del bianco per non esserne sopraffatto. Continuamente il corpo e in particolare l’occhio – organo del tatto spirituale, sottile – ferve di un’attività subliminale che è quindi, nell’uomo ordinario, esposta quasi senza schermi alle correnti immaginali dell’ambiente, anch’esse incarnate in questa attività corporea fluida e proteica.

Il mago, come a diversi livelli e con diverse modalità chiunque voglia sottrarsi alla passività, al sonno del condizionamento sociale ordinario (ad esempio il politico, il demagogo manipolatore, oggi il tecnico della propaganda, del marketing...), lavora anzitutto a dominare, ad assimilare questo livello di piccole percezioni subliminali attraverso la volontà e la fantasia. Questa ascesi prepara la costruzione del doppio che, come quello inviato da Dio ad Antonio nel deserto per indicargli la via, è la chiave d’accesso all’esoterismo come diplomazia (diploûn mathos, duplice conoscenza). La semplicità, il ritorno all’Uno o Vuoto è mediata da questa duplicità non-duale nella quale l’asceta, divenuto mago, può smarrirsi. (Discorso di Adamo nel Talmud: non create un altro uomo, affinché il mondo non soccomba all’idolatria. Zolla: forse è l’ingiunzione di non proiettare nell’estasi un angelo o doppio che venga poi associato a Dio. Pare sia stata questa la “recisione dei germogli”, l’apostasia di Ben Avuyah: vide Metatron come un secondo Dio; forse c’è allusione alla letteralizzazione del mundus imaginalis – ad un estremo abbiamo un dualismo di tipo manicheo, all’altro l’ateismo libertino e di Feuerbach che ha una comprensione limitata del Deus creatus).

Intuizione di Illich sulla teologia sacramentale come origine della tecnica (i sacramenti come instrumenta divini). Idea complementare di W. I. Thompson: il sacramento è “segno esterno di uno stato interiore”; il système technicien è la letteralizzazione (spada di Damocle della magia, in generale della psiche) di questa concezione: il culmine è la cibernetica e il suo massimo sogno, la “realtà virtuale”.

I jinn ribelli rinchiusi da Salomone nei vasi di bronzo: esseri immaginali di fuoco e aria, sono costretti a ripetere un solo messaggio, quello della loro sottomissione, a chi per audacia o ventura infranga i sigilli di piombo. Ma la loro obbedienza è ambigua come il loro status ontologico: esaudiscono desideri letteralizzandoli e svelandone quindi la potenza distruttiva (il nafs, l’ego è il supremo nemico) o manifestano – ad esempio nella storia del pescatore e del demone (‛ifrīt) – una volontà omicida, vendicativa, per certi versi elementare, ma anche esito ultimo e meccanico di una psicologia da schiavo (se fosse stato liberato nei primi secoli il genio avrebbe colmato di doni il pescatore, ma col passar del tempo l’impazienza di beneficare si è trasformata in rancore e poi odio assoluto nei confronti dell’intero genere umano). Il pescatore truffa il demone solleticandone la vanità e inducendolo a rientrare nel vaso – così potrà chiuderlo di nuovo col suo coperchio: il potere del jinn è neutralizzato quando lo si riconduce ingegnosamente nel suo vaso, nel veicolo apparentemente inanimato della sua espiazione. L’energia mortale liberata può essere indotta a rientrare nel segno bronzeo che la tratteneva in fondo agli abissi.
Salomone ha fatto un incantesimo agli esseri sottili, elementari, daimonici: li ha congelati in automi, in segni stereotipati che poi ha gettato negli abissi del mare, dell’inconscio. Le generazioni dell’evo moderno, più o meno quando si raccolse e ordinò il materiale delle Mille e una notte, vollero trarli in superficie – o semplicemente così accadde loro, perché il tempo era maturo: ma o i jinn reclusi si dichiarano servi – robot – e diventano la chiave facile e pronta del potere dei loro padroni, o scompaiono dopo aver attestato la loro penitenziale docilità, oppure minacciano con la loro irrazionale ferocia omicidia. La letteralizzazione dei desideri è la potenza distruttiva della magia – della techne: solo il saggio pescatore, umile erede del Re Mago, sa ingannare il demone chiedendogli di ritornare allo stato di virtualità sottile ed ermeticamente sigillata.
Noi non possiamo dialogare con la macchina.
L’automa elettronico, il golem cibernetico, va contemplato come homunculus, usato come servo e decostruito cancellando dalla sua fronte la alef divina, cioè proprio quel principio di “intelligenza” e comando che gli conferisce una relativa autonomia, un simulacro di vita-nefesh organizzata. Poiché il nefesh trasferito su di esso è comunque un fenomeno entropico che però produce per noi informazione, ordine, sintropia – è necessario mortificare ciò che di per sé è morto e, lasciato a se stesso, moltiplicherebbe la morte e l’inganno, la menzogna.

Liberazione degli schiavi: si è prodotta spontaneamente e gradualmente per effetto di una mutata visione del mondo. Così avverrà – forse – con gli esseri elementari schiavizzati dalla techne umana.

mercoledì 28 aprile 2010

Il celibato è una condizione illusoria


Poche cose sono belle
come un matrimonio ordinario
il suo esoterico riserbo
disegna emblemi di pelle lucente

Alcune cose sono dense
come il tempo di un matrimonio
gli anni pigiati in una botte che rotola
offendendo la polvere

Forse l’ignota pienezza
di un matrimonio suppergiù riuscito
è una risorsa del combat spirituel
fatta apposta per gli uomini della luna

«A chi lo dite!» Il diuturno lavoro
che il verbo del matrimonio ricapitola
è un capolavoro della morte
e più una sprezzatura della carne

Ma se la bellezza è quello che è
e il fatto del matrimonio ci umilia
tutto questo non sarà che un discorso
degli animali di Giobbe alla bestiola del cuore

martedì 27 aprile 2010

Metaformosi del Golem: magia, alchimia, tecnica/2


Affinità tra la preparazione del golem e quella dell’Embrione d’Oro nell’alchimia interiore taoista.
L’immaginazione, attraverso le lunghe iterazioni della pratica ‘meditativa’, cristallizza il corpo sottile a partire da un grumo in cui sono impastati l’agente maschile e quello femminile, la pura vibrazione che regge il respiro, il soffio, e l’umore seminale, il ricettacolo della luce incarnata nell’uomo, ovvero lo stesso principio vibratorio immerso nella vita organica seminconsciente.
Nel caso del golem, un gruppo di iniziati proietta la propria luce immaginale, sottile, attraverso il veicolo delle lettere: la voce è il sacrificio umano per eccellenza, è seme sublimato in soffio sonoro, impregnato di realtà e vita divina. Forse a volte si svolgevano parallelamente o successivamente due riti: quello alchemico o spagirico (la terra vergine e l’acqua di cui parlano i testi sono forse gli agenti ottenuti nelle Fatiche d’Ercole della Prima Opera), con una trasmutazione fisica operata in un contesto ieratico, magico-teurgico, e quello propriamente golemico dell’amalgama di ‘semi’ sottili, eiaculazioni quasi del corpo sottile ‘individuale’, nell’embrione unico che poi veniva fatto maturare e infine ricondotto alla sua scaturigine, riassorbito. Come al solito, il risvolto più essotericamente ‘magico’ del rituale non è che uno sviluppo incidentale, e gravido di pericoli, di alcuni aspetti dell’operazione nel suo insieme.
Nel caso dell’alchimia interiore taoista, il metodo a ritroso di circolazione della luce e di sublimazione della forza seminale porta ad un coitus effettivo fra il soffio cristallizzato e l’umore radicale corporeo purificato: lo zolfo e il mercurio si congiungono tramite la mediazione del sale, la terra dei pensieri localizzata nel cuore – tutto avviene attraverso le immagini ardenti del cuore esercitato nel proprio lavoro. La luce interiore ordinaria, quella luce dello stato di sogno che si riversa continuamente all’esterno, perdendo la propria dolcezza, finezza e umidità, si addensa così in spissitudo spiritualis, nella quarta dimensione che è il valico segreto del ventre, l’integrazione aurorale, embrionale appunto, del corpo della coscienza e del corpo inconscio. Questa irruzione nella quarta dimensione è la fecondazione interiore: l’embrione viene poi lasciato crescere, lasciato libero, perché il corpo sottile è più me di me stesso ma non è me – proprio come un figlio (vedi anche Le rovine circolari di Borges). Una volta giunto a maturità, il feto luminoso è riassorbito nel Vuoto: ritornato all’unità, liberato, libera il proprio padre. Il movimento è sempre quello: il ritiro della proiezione immaginale è una morte-resurrezione, preparata eppure impensata; generando il proprio corpo spirituale si è rigenerati spiritualmente. Questa pratica di alchimia interiore è una iniziazione al mistero supremo, quello della creazione, della fecondazione: di qui il pericolo della magia come sezione incompleta, infelice e infetta dell’intero opus, il pericolo della magia come corpo sottile della techne carica di hybris.
È possibile ‘animare’ un composto inerte proiettandovi il proprio ‘doppio’ o la fusione dei semi psichici di un gruppo di iniziati? La Qabbalah ritiene di sì, pur limitando l’animazione al primo livello, quello del nefesh, l’anima vitale, vegetativa-sensibile, l’anima-sangue. Resterebbe comunque un nefesh non propriamente ‘creato’, anche se il Talmud e le opere esoteriche parlano della possibilità da parte del ‘giusto’ di partecipare in senso forte all’attività creatrice divina. Avremmo in tal caso un automa prodotto magicamente e non meccanicamente: un risultato buono al minimo per stupire e gettare fumo negli occhi, al massimo per ‘dimostrare’ sperimentalmente i poteri dell’anima, o meglio del corpo sottile. Se si riflette sui numerosi fenomeni cosiddetti paranormali, ad esempio il Poltergeist, non è difficile immaginare quale livello di potere e conoscenza implichi la fattura di un golem, in cui quel tipo di energie psichiche viene manipolato e diretto come in un sogno lucido, coniunctio di conscio e inconscio.

Il corpo sottile costruito come ‘doppio’ può avere poteri telecinetici: se nel fenomeno del Poltergeist può avvenire inconsciamente, a fortiori potrà realizzarsi consapevolmente.
Il golem come automa con un’anima-nefesh “esterna”, proiettata-fabbricata dalle operazioni teurgiche di un singolo o di un gruppo.
Il suo fine spirituale sta nella sua fine o distruzione: il suo uso tecnico sta in mezzo, ed è soggetto appunto ai tralignamenti della techne (Apprendista Stregone, civiltà della macchina).
Il mago usa il golem-embrione d’oro-corpo sottile: è l’homo technicus germinale, corda tesa tra l’uomo ordinario e il sapiente.

Ipotesi: buona parte delle storie sul golem possono essere allegorie dell’opus ermetico. Così il passo talmudico di rabbi Me’ir che ‘crea’ un vitello e lo mangia col suo collega potrebbe essere un’allusione al lapis come medicina universale e cibo filosofico (il vitello d’oro dell’episodio biblico va calcinato, sciolto in acqua pura e bevuto). Il golem-umanoide potrebbe essere l’embrione ermetico nel suo stadio di immaturità, l’homunculus paracelsico in grado di compiere alcuni ‘servizi’ all’artista. La leggenda ammonisce che gli si può conferire solo l’anima più bassa, nefesh, l’anima-sangue, vitale, vegetativa-sensibile, l’anima spermatica: forse è una chiave per far comprendere che si sta parlando di un prodotto minerale vivificato dall’arte e dalla natura insieme, nel quale non bisogna investire speranze infantili e cariche di hybris luciferina. Tuttavia la lettera dei testi talmudici e cabbalistici farebbe pensare proprio a una capacità creativa acquisita dal giusto, da colui che è mondo da peccati: da intendere però in senso teurgico, credo, e non ‘faustiano’ (ma l’ambiguità è significativa, profetica, segnala una preoccupazione antica del pensiero ebraico sul punto di giunzione tra magico e ieratico-profetico). Perché i testi parlano spesso di un lavoro di gruppo nella produzione del golem? Tratto specifico dell’ebraismo? Allegoria anche questa?

Fantappiè: l’uomo non può produrre fenomeni sintropici (finalistici-vitali), ma solo entropici (causali-meccanici). Gli automi rientrano in quest’ultima categoria, sebbene con un grado molto alto di illusionismo: così anche le ‘macchine’ cibernetiche ed elettroniche, nonostante comportino un profondo mutamento dell’imago mundi e un’interazione più elastica, mercuriale, con il nous umano. L’uomo partecipa all’atto creatore divino consumando le finalità della techne nel fuoco della contemplazione, dell’ars come spazio e tempo rituale. Le opere umane sono segnate radicalmente dalla morte: se l’opera divina “inghiotte” la morte nella spirale trasmutatoria, resurrezionale – mai senza l’assenso co-creatore dell’uomo – l’opera umana deve sempre, e con grande e ritualizzata attenzione, essere bruciata come idolo potenziale, come il Vitello d’Oro, come il Golem, come lo stesso nome di Dio nell’ordalia della donna infedele.

domenica 25 aprile 2010

Metaformosi del Golem: magia, alchimia, tecnica/1


Tre categorie, distinte e procedenti da un’unica radice (Iside): meraviglioso, magico e miracoloso.
Il meraviglioso è il pagano, il naturale: ne tratta il IV capitolo di Orthodoxy di Chesterton. Il cristianesimo ha introdotto un’intuizione nuova, quella della contingenza radicale, ma il fondamento poetico dell’esperienza umana, della mente umana incarnata nel rito, nel simbolo vivente, è questo senso del cosmo come qualcosa di fatto, come l’opera di una volontà e di un artificio divini e daimonici insieme.
Il magico è l’ambigua sophia del meraviglioso: conoscenza applicata, manipolazione, techne – ma ha la sospensione, l’indecisione morale-metafisica di Merlino, l’arcimago celtico (figlio del diavolo e di una penitente), e dell’albero edenico della conoscenza del bene e del male (l’albero buono-e-cattivo).

La suggestione usa l’amo del desiderio, di cupido. Platone sul pithanòn meros dell’anima (la sua parte sottomessa a Peithò, la Persuasione che fa parte del corteggio di Afrodite), Bruno sul vinculum erotico. Il mago lavora sul tessuto di suggestioni che è il mondo: deve unificare e distinguere la mente umana (la soggettività individuale) e la mente non-umana, la cui oggettività vela un nucleo soggettivo più profondo, sovraindividuale.

Gli istanti di mutamento-movimento. Uspenskij li considera istanti di intersezione fra la 4a dimensione e il mondo 3D; Rabbi Dov Baer, il maestro hassidico, li chiama istanti di steresis (privazione di forma, transizione da una forma all’altra), che è il Nulla (En) della Sapienza creatrice. (Anche Eckhart parla della potenza negativa dell’intelletto, che de-crea le creature, le riconduce – epistrophè – al loro archetipo che è un’idea di Dio).

Pico: il mago fa passare le cose dalla potenza all’atto – mostra (e realizza) la totalità quadridimensionale nel tessuto tridimensionale, agisce nel farsi del tessuto invece che nel fatto: negli insterstizi delle forme e del tempo.

Stato di sonno ipnotico (“subconscio”) come fonte della mente sognante-desiderante e di quella desta, realistica, legata però da un sonno più ambiguo, il torpore del “positivo”, l’incantesimo del fatto.

Alla luce di Florenskij, la magia è quasi il cuore sottile, immaginale della techne.

Potenza della parola. Nomina barbara, lingua degli uccelli, rotazioni di lettere nella Qabbalah – c’è parallelismo con la disarticolazione del logos, della trama mentale. Il trauma del sacrificio e dell’incesto ne è metafora.

Le suggestioni operano “direttamente” sul subconscio, fatture e altre actiones in distans vanno lette congiuntamente alle prime, in teoria, ma in pratica richiedono la psicobolia, l’impregnazione telepatica, e il medium è una proiezione del corpo sottile del mago, un suo doppio.
In che modo il corpo sottile interviene fuori dal corpo, ad esempio nella telecinesi, nel Poltergeist etc.? Lo si può comprendere solo esaminando in che modo agisce sul “suo” corpo grossolano, con cui tende a identificarsi.

Con la meditazione – unione di volontà e intelletto, desiderio puro e attenzione – si de-crea l’oggetto, lo si riduce al nulla, quindi al suo statuto di immagine nell’unus mundus, nella 4a dimensione, nel cuore.

La differenza fra l’orante-contemplante e il mago è che questi usa in primo luogo una volontà immaginale, una fede fantastica centrata su un aspetto della totalità della Sapienza, o meglio su una sua icona, su un suo eidolon visto come specchio del Tutto (panta en pâsin).

Il sogno guidato, fiore dell’autosuggestione, della vinculatio sui, prelude al suo frutto che è l’actio magica come “formazione” (yetzirah), interazione corpo-mondo tramite il medium dell’immaginazione (pneuma phantastikòn) per proiettare sulla trama degli eventi forme volute, o meglio per maneggiare la stessa spoletta del telaio.

Guida dei sogni: conciliazione di conscio e inconscio, veglia e sogno; si agisce sul corpo sottile invece di esserne agiti. Così si sta, parzialmente e temporaneamente, dalla parte del marionettista che regge i fili (neura, i “nervi”), ovvero del corpo causale, della sapienza unificata/unificante.
Si può acquistare la facoltà di oggettivare, plasmare e proiettare il corpo sottile o astrale o immaginale: la fucina è il cuore, col fuoco centrale del suo calore magico o tapas (vedi la lettera del Pontano).
Imparando ad agire sul corpo sottile, ordinariamente inconscio o subconscio, si può imparare ad interagire col sogno in cui è immerso il mondo naturale, con la sua immaginazione. Il non-io/mondo non può essere “vincolato” (suggestionato) come un uomo, sia pure un uomo in trance: non ha ego, desideri egoici da offrire come appiglio. Il suo eros, la sua fede, la sua fantasia si manifestano (l’analogia col microcosmo umano in parte funziona) nelle patologie (mostri, eccezioni), negli “atti mancati”, nei transiti delle metamorfosi etc.

La magia: costruzione del corpo sottile come doppio attraverso la congiunzione-circolazione di sogno e veglia sul caduceo. La volontà diurna si carica di percezioni notturne, oniriche, tramite un continuo esercizio di apertura dello sguardo – scepsi meditativa – e la fede sempre più densa e acquisita (incorporata, incarnata) nella realtà del possibile, nella pluridimensionalità del simbolo.

venerdì 23 aprile 2010

Geometrie della forza


Non so cosa farebbero i tibetani, una volta passati dall’altra parte della spada: o meglio, so che i tibetani in quanto entità collettiva, in quanto “noi”, la grande bestia di Platone e Simone Weil, agirebbero più o meno come i loro attuali oppressori. La forza è un incantesimo impersonale, è il sortilegio della quantità, dell’illimitato: per la giustizia è necessario il limite, la forma – è necessaria la necessità (io, tu, una famiglia, una fratria, un villaggio, un paese... Gli imperi, masse senza volto, se non si impongono e non impongono il giogo della forma e della giustizia sono, parola impeccabile di Agostino, magna latrocinia – “enormi associazioni a delinquere”).
La pagina di Tucidide è soprattutto un pezzo di grande teatro tragico, ma privato di canto e di duende, quindi la crudeltà del logos vi fa brillare più lucidi i suoi denti. Sia gli Ateniesi che i Melii sono imbambolati dalla forza. Gli Ateniesi: le cose vanno così in cielo, figuriamoci in terra, per cui regolatevi di conseguenza. I Melii: ma che vi costa osservare una giustizia così facile, così per voi indolore? La brutalità promossa a Weltanschauung (Cina) contro il candore di chi esorta al dialogo (Tibet). Ovviamente i Melii sono dalla parte della ragione – la provvida sventura li ha collocati tra gli oppressi – ma non hanno del tutto ragione: come si fa a dialogare con la bestia? L’illusionismo della potenza è allo zenith: gli Ateniesi dicono quello che non si può dire (come Clitennestra che recita: Io non sono io, sono un demone vendicatore), o meglio, dicono ciò che può essere detto solo da un terzo, da uno spettatore sulla gradinata, non da un attore. Mi ricorda una delle scene epiche più grandi di tutti i tempi, nella Storia segreta dei Mongoli: Jamuqa, che è stato fratello di sangue di Temujin, il futuro Chinggis Khan, diventa suo rivale, è sconfitto, viene trascinato in catene davanti a lui. Il vincitore freme di compassione, non solo gli offre la libertà, ma gli chiede di rinnovare l’antica amicizia. Jamuqa obietta (cito a memoria): “Fra il forte e il debole non può esserci amicizia; io sarò sempre un pidocchio sulla tua veste regale. Uccidimi piuttosto – te ne sarò grato, la vita per me non conta più nulla – e io benedirò la tua ascesa da morto”. (Veramente eccelso).
Dov’è dunque questo sortilegio, che detta agli Ateniesi e a Jamuqa parole terribilmente veggenti e terribilmente inconsapevoli? Gli Ateniesi dicono: la giustizia richiede che entrambi i contendenti siano sotto ise ananke, un’eguale necessità; ma questa è la normale condizione umana! Non solo, in termini buddhisti, urtiamo contro una barca vuota ma, in termini popolari-dostoevskiani, siamo tutti nella stessa barca: siamo tutti solidali nella colpa, solidali in tutto. Hen kai pan. Ciò non libera dall’indignazione (contro gli Ateniesi, figuriamoci contro questi Cinesi), ma libera l’indignazione. Swift diceva: più mi disgustano gli avvocati, i medici, i preti, i politici etc. (categorie, “noi”) e più amo e rispetto questo e quel singolo avvocato, questo e quel singolo medico etc. Proprio così! La nostra ira, quando è libera, è molto saggia.
Nietzsche è stato un buon lettore di Tucidide. Il grande greco vedeva il forte e il debole perpetuamente avvinti in un abbraccio: l’uno limita l’altro, l’uno appartiene all’altro, l’uno ha bisogno dell’altro. Tutti e due sono incantati: “non resta/ che far torto, o patirlo”. Ma anche Adelchi è personaggio tragico, anche lui non può vedere tutta la scena: la dialettica forte-debole, padrone-schiavo, torturatore-torturato, è un equilibrio fatto di continui capovolgimenti; e qualcosa resta sempre, ed è la libertà di Ermengarda in limine mortis, il dolore di Adelchi in limine mortis. Persino chi è nella posizione peggiore, cioè il forte (gli Ateniesi, la Cina), non può non lasciar spazio, tra le fessure dei suoi pietrami disumani, a fiori di consapevolezza perfetta – anzi, forse della consapevolezza più perfetta: un Tucidide, un cantore tragico, uno che ha la spada in pugno e guarda il suo bagliore sinistro.

La chair est triste


Quando vedo certe stradine di periferia disseminate di preservativi appena un po’ involuti, ancora umidi di sperma agonizzante e ingialliti dal soffio della terra giustissima, non posso non pensare a com’è triste che ogni notte tanti sbattano la testa, più e più volte, contro la porta del cielo, come dolci e inviolabili autistici che si dondolino all’infinito sul loro cerchio di gomma.

giovedì 22 aprile 2010

Lottando con una zanzara durante una seduta di meditazione


Una culex pipiens come lo Sconosciuto al guado dello Yabboq.
Aggredisce soprattutto di notte, come il piano infero dell’anima, ha bisogno di sangue, è ladra (“Sei forse un ladro?”, chiede Giacobbe all’Uomo nel midrash), attraversa l’aria tenebrosa con uno strombettio continuo, penetrante, sottilmente allarmante. All’inizio l’aggressione induce l’aggredito a rispondere solo letteralmente, a reagire in modo simmetrico, speculare: “Ti schiaccio, ti elimino, intruso, invasore, errore dell’universo”. È la suggestione propria della prosbolè, come i Padri cristiani chiamano il primo movimento della tentazione: l’avvicinamento, il contrarre la distanza. La trombetta della culex, come la presa dell’Uomo nel racconto biblico, restringe lo spazio della mente e del cuore attizzando l’impulso all’uccisione: perché se è vero che all’origine di questo impulso c’è una delle passioni primarie, la difesa-paura, non è meno vero che nell’“istinto dell’avversione”, nel thymòs, c’è una passione omicida o comunque un pathos dell’uccidere, dello spegnere, del rimuovere dalla luce comune.
Se non che, nel cuore della stretta, del vincolo che è forse il segreto di ogni aggressione (da Eraclito a Nietzsche), traluce un volto impensato di quell’impulso: è ancora notte, ma la costanza nel difendersi non coincide più con la contrazione del cuore, o meglio, cuore e mente sono im-pegnati (vincolati) nella passione, ma il corpo che sente il corpo dell’avversario e risponde istante dopo istante apre la consapevolezza ad una scoperta erotica. “Non m’importa che l’aggressore se ne vada, m’importa che mi benedica!”. È sì una brama di vincerlo, ma soprattutto un riconoscimento della sua divinità, del suo essere: è divino come l’ospite, più dell’ospite perché il volto dell’aggressore è più tenebroso, più velato, più iniziatico. Anche tu, culex, non te ne andrai finché non mi avrai benedetto! Finché non mi avrai rivelato il mio nome profetico, il mio nome immaginale, iniziatico, quello che devo ascoltare e leggere nel guado notturno, nella lotta tenebrosa: il nome di uno che lotta con una zanzara perché la zanzara lo benedica, lo sollevi dalla solitudine troppo umana di essere un Giacobbe, Ya‛aqov, un usurpatore, uno sradicato, un io separato dalla notte in cui gli insetti, gli sconosciuti, succhiano il caldo e intimo sangue.
(Nota dell’Io: Quanto ribrezzo, infatti, mi viene ancora dal volto e dal corpo degl’insetti, specialmente nelle fotografie, nelle immagini! Forse perché manifestano un aspetto – panìm, volto – assai profondo del Divino: la mistica ebraica paragona En Sof, l’Infinito, rivestito dai suoi attributi o sefirot, alla cavalletta, il cui vestito è parte del suo corpo).

mercoledì 21 aprile 2010

Anima mundi


“Perciò bisogna attenersi a ciò che è comune-collettivo (xynôi). Ma, sebbene il logos sia comune-collettivo, la gran massa degli uomini vivono come se avessero un’esperienza privata (idian... phronesin)”.
Questo grande pensiero di Eraclito rimane per me bronzeo e distante, se non lo rileggo insieme a grandi terapeuti del mio secolo come Hillman, Corbin e, insisto, Wittgenstein. Il logos, il linguaggio del mondo è ovviamente il logos dell’anima, il logos di psyché: il discorso delle immagini, cui non si attaglia tanto la spiegazione causale, deterministica, quanto la descrizione sinottica, lo sguardo d’insieme – morfologico, fenomenologico. Al posto delle cause, iniziamo a scorgere intrecci di condizioni, di compresenze e sincronismi. E per educarci a questo sguardo, dobbiamo o possiamo recuperare ciò che la mente cartesiana e imperialistica relega tra le ombre, le aberrazioni, le malattie infantili dell’umanità: l’animismo, la magia che, cogliendo l’anima delle cose nelle cose, vi coglie anche il pathos, la patologizzazione inerente all’anima mundi e non solo segregata nella stanza imbottita dell’io solitario e orgoglioso. Se leggiamo i canti di depressione sciamanici, ma anche i salmi babilonesi e davidici, siamo addirittura sconvolti e oppressi da questa animazione perturbante di ambienti, eventi e cose, che accetteremmo più volentieri nelle paranoiche lettere dal manicomio di Artaud, nei deliri dell’alienato di strada affidati al vento (in effetti, alla comunità) o ai muri piatti, vuoti e inquietanti delle periferie.
Ricordo uno stupendo passo di un filosofo cinese dell’XI secolo, Shao Yung: “L’abilità del saggio di sintetizzare le circostanze relative alle diecimila cose consiste nella facoltà dell’osservazione capovolta. Con l’espressione ‘osservazione capovolta’ non intendo l’osservazione delle cose attraverso l’io, bensì l’osservazione delle cose attraverso le cose stesse. (...) In tal modo si acquista la facoltà di usare gli occhi del mondo come se fossero i propri...”. Mi riporta a Corbin e a Hillman, alla loro idea di presenza, di auto-ostensione delle cose, a quella loro riscoperta di un terzo mondo tra materia e spirito, il mondo del corpo sottile, che potrebbe liberarci dalla mitologia moderna del mondo come materia morta, come segno privo di vita su cui la mente soggettiva imprime dei significati parimenti soggettivi. Non è facile, perché di questa mitologia siamo ancora, quasi tutti, impregnati, e poiché il logos è collettivo, disincantarsi in privato è un eroismo insensato e suicida.
A proposito di suicidio, penso che Leopardi abbia individuato perfettamente la potenza autodistruttiva della ‘ragione’ moderna, la qualità del suicidio moderno. Non che il suicida di oggi sia necessariamente un ‘suicidato dalla ragione’: la maggior parte di queste morti oscure, col loro rituale che sempre ci provoca e interpella, sono parenti dei suicidi accadici, greci, romani, tungusi – parenti vicini o lontani, non so. Ma è giustissimo sottolineare il legame tra la festa moderna e il suicidio moderno: e non è un legame da poco, è la noia, la noia leopardiana-schopenhaueriana, il vuoto che la mente egoica-solitaria ha aperto tra sé e il mondo, l’incapacità di rito e quindi di festa nel senso antico, che è un senso per noi troppo ricco – il sacro, per noi, è troppo ricco e/o troppo semplice, primitivo, la sua prossimità all’arché ci rende goffi, penosi, inconsci. Ci sentiamo chiamati alla festa, alla sua ritualità, al suo conciliare vecchio e nuovo, senex et puer, ma avvertiamo, per lo più senza potercelo confessare, di brancolare tra frammenti, rovine – la ‘lucida nevrosi’ del sacro divenuta oscura nevrosi che ci sembra impossibile o assurdo trarre fuori dalla nostra pelle, dalla camera di torture sadiane dell’ego occidentale. Ed è così con tutto, perché tutto è uno: facciamo finta di mangiare il pane e di bere il vino dei nostri avi, frutto del lavoro di uomini, e non riusciamo a confessarci che oggi mettiamo in tavola dei golem industriali; proviamo a convincerci di abitare case, ma la depressione e l’ansia dovrebbero indicarci che sono pensate, e il più delle volte vissute, come garage in cui la macchina-uomo si parcheggia durante la notte (Ivan Illich); mangiamo il pollo e il vitello, ma non osiamo dirci che quelle carni stinte non vengono da un sacrificio o dalla già triste macelleria profana dei nostri nonni e bisnonni, bensì dalle Auschwitz, raramente benedette da pensieri alla Adorno o versi alla Celan, in cui si mozzano becchi, si simulano giornate di poche ore e si praticano torture ben calcolate. Ecco, m’accorgo d’essere stato afferrato da archetipi diversi eppur reciprocamente risonanti mentre scrivevo, da musiche che ho seguito con fede, come un tarantolato: dall’apprezzamento afroditico, delicato e pericoloso, di tutte le cose, allo sguardo saturnino verso il passato-arché, alla marzialità polemica e quasi apocalittica di chi sente l’Occidente come un tramonto perpetuo.
Se vuoi continuare, amico, sono pronto a ballare su altre arie.

martedì 20 aprile 2010

Fede: un punto di vista tragico-ermetico


La fede è la Shekhinah, è la reciprocità tra Dio e uomo, tra rabb e marbūb (=il Respiro della Misericordia): senza di essa non si può attingere la gnosi divinizzante, la resurrezione. C’è nella fede un momento ineliminabile di oscurità, di non-conoscenza che è caparra nell’anima della non-conoscenza mistica: il momento dello tzimtzum umano, del ritrarsi nel timore che è principio di sapienza, il radicamento come ciò che è il sommamente semplice (il popolo, lo spessore tradizionale, il retaggio) e il sommamente profondo, esoterico (nesso presente nel Daodejjing).
Nella rivelazione profetica un evento, un’azione, un ordine carico di senso e portata simbolica ma che eccede ogni spiegazione e motivazione viene proposto all’anima comunitaria come una potenza schiacciante e interrogante, qualcosa che è sia fuori che dentro, causa di timore, di un coinvolgimento che è insieme coazione e assenso o meglio qualcosa di ulteriore rispetto a ognuna di queste diadi (spunto svolto in Lévinas). L’atto fondatore della profezia come capovolgimento-fondazione della prospettiva sapienziale: “non farti sapiente attraverso i tuoi occhi”, sii sapiente attraverso l’ascolto totale del timore, dell’assenso profondo, rituale, attivo.
La fede stessa apre lo spazio della ragione come ri-appropriazione del fondamento della fede, dell’oggetto della fede. Fede e ragione, dialettica inestinguibile, che addita la resurrezione, la pienezza unimolteplice.
“Chi crede in me...”. L’io di Gesù come testa, caput, anticipo dell’io gnostico dell’uomo che crede in lui: chi crede nel Me di Dio, dell’uomo-Dio. Ma ha diritto di saperlo solo chi concede l’assenso, chi accede all’evento fondatore. La fede come angelo mediatore, custode e ostacolo, guardiano kafkiano, donna portatrice di sapienza. “Io credo, aiuta la mia incredulità”: l’assenso apre, fonda il territorio dell’umano fragile, ragionante, al tempo stesso lo pone e lo medica, lo assume.
La tensione ineliminabile tra riappropriazione della tradizione che ci costituisce (il Levin tolstojano) e strappo profetico, esodo, metanoia: non posso non dirmi cristiano, non posso dirmi cristiano. L’aspetto eversivo dello strappo è il segno che la vera meta del cammino umano è la pienezza, sempre ulteriore (anche se non assolutamente ulteriore – il che sarebbe del resto impensabile).
Io non posso non dirmi radicato sulla, nella mia tradizione, e al tempo stesso non posso dire, onestamente, di aver incontrato il suo fondamento, il suo Fondatore. Ma posso dire che il mio cammino non è separato dal suo: la mia distanza da lui non è estranea alla sua distanza dalla propria tradizione – in cui sono di nuovo e anzi paradigmaticamente compresenti il radicamento e l’esodo. Gesù vero ebreo, ma anche fondatore di un nuovo mondo: Abramo vero harraniano, Mosè vero egizio, ogni inizio invera e nega l’apparente passato, la tradizione. Il cristiano prolunga Cristo, è aperto nella rivoluzione permanente alla pienezza promessa. Ma la crisi del tempo cristiano prolunga a sua volta la dialettica fondante e fondamentale: apocalissi del suo verbo e suo nascondimento, kenosi in cui il Dio di Gesù (il Dio che Gesù incarna) muore sia nel senso cristiano che nel senso nicciano; crisi che è cristiana nel senso originario, come Gesù era ebreo.
L’uomo, pianta imperfetta, sacerdote-paria. Radicato, errante. La sua povertà come possibilità angosciante di pienezza divina – l’uomo come interlocutore profetico del divino, come colui che non può vivere ed esistere se non in virtù di questa tensione, di questo spazio aperto che è il suo logos. La fede è l’immaginazione creatrice, è il velo della Maya creatrice: ignoranza più sapiente di qualunque sapienza. Ignoranza che crea la sapienza, oscuro timore da cui albeggia la luce della gnosi-resurrezione. La tragedia è nel mezzo di questa mediazione, è l’arte e il rituale del tempo di krisis.

Rapporto sempre dialettico (dualismo che addita un tertium ulteriore) fra tradizione (radicamento) e fede come immaginazione animale, profetica, esodo abramico. La fede come mediazione mercuriale fra saggezza del sangue e sapienza del Pleroma, della resurrezione. Più s’allarga nell’organismo della cultura la ferita del logos, più la fede si fa problematica, e la riappropriazione di Levin deve vincere demoni strani, come la relatività, la percezione sempre più acuta della molteplicità, del decomporsi dell’oggettività nel mercurio della volontà creatrice ma debole, che sempre più inclina al dualismo sentimento illusorio/verità annichilente.
L’anima religiosa deve decostruire in sé (operazione culturale e non meramente soggettiva) il tribunale, recuperare il senso del destino, una sorta di sguardo fenomenologico, ferito e debole ma senza l’appoggio, la giustificazione che gli presta il cosiddetto ‘pensiero debole’. “Tale è il mio paesaggio interiore: così posso e debbo descriverlo”. Rispettare l’anima vuol dire anche rispettare questa decomposizione dell’anima comune.

lunedì 19 aprile 2010

Saggio su “Una valigia di cuoio nero” di Elena Bono


Il seguente saggio di Daniele Capuano è stato pubblicato dalla rivista Nuova Umanità XXVII (2005/3-4) 159-160, pagg. 609-629

domenica 18 aprile 2010

Μακάριοι οἱ πτωχοὶ τῷ πνεύματι


Non voglio restituirti il biglietto d’ingresso, come Ivan: né ti chiedo perché dobbiamo accorgerci di quello che c’è già, di respirare per la prima volta l’aria che respiriamo ab aeterno, di diventare fedeli a ciò cui non possiamo essere davvero infedeli. Tutto mi sta davanti, aperto, perché non so più nulla, e tutti i miei perché? tacciono come Giobbe davanti alla maestà, davanti alla misteriosa umiliante bellezza. Ma qualcosa da chiederti mi resta: fino a quando canterò la mia nota nel tuo canto senza potermi muovere e danzare? Forse finché non sarò storpio davvero, come Epitteto, come Giacobbe, come i santi che non riesco, per timidezza di sedentario, ad amare con questo corpo, con queste ginocchia, con questi piedi?

sabato 17 aprile 2010

Il seme del male e il legno della croce


Le vite di certi grandi assassini, come Peter Kürten, il “mostro di Düsseldorf”, o Jeffrey Dahmer, il “mostro di Milwaukee”, sembrano implicare una sorta di destino criminale, di vocazione al crimine ben formata e quasi nitidamente disegnata sin dall’infanzia, come quella di Mozart per la musica, di Rimbaud per la poesia o di Epicuro per la saggezza. Forse, in epoche più avvinte alla norma – i cui corollari sono spesso orribili –, avrebbero potuto trovare uno spazio, una giustificazione collettiva (schifose Eumenidi) facendo coscienziosamente a pezzi Ravaillac e Damiens, mutilando e arrotando gli “untori” della Colonna Infame o scuoiando vivo Bragadin; oppure, ai margini di guerre ancora abbastanza regolate, avrebbero potuto razziare, violentare e seviziare intatti da sanzioni, salvo quella – sottile, ma potentissima – della memoria dei luoghi sfregiati dal loro passaggio. La tentazione del dualismo manicheo è qui più forte che mai: se a quanto pare in loro il male è così precoce e per così dire originario, viene da inferirne che forse il male stesso, il male in sé, è una sostanza e non un orientamento della volontà e dell’intelligenza. Ma il doloroso razionalismo dualista cede, se contemplo le Tre Croci del Golgotha, ad uno sguardo più complesso, ignorante e risoluto ad un tempo: anche Kürten e Dahmer sono lì, sebbene nessuno possa sapere con certezza su quale legno siano stati crocifissi, e se soltanto su uno dei tre. Così il loro seme tenebroso si scioglie sotto i miei occhi, diventa un mistero di sofferenza e colpa in cui è empio – anche se forse necessario – tracciare confini; non un mostro che alzi il capo, con decisione funesta, in un lago tranquillo, ma un’onda scura in un oceano fremente, o meglio: un tormento dell’oceano, qualcosa di cui l’oceano si fa carico, che gli appartiene da sempre e per sempre, oltre la sanità e la malattia, oltre l’elezione e la dannazione.

venerdì 16 aprile 2010

Recensione del libro “La bellissima perdita” di Giovanni Casoli


Il seguente articolo di Daniele Capuano è stato pubblicato dalla rivista Nuova Umanità XXIX (2007/6) 174, pagg. 705-718

giovedì 15 aprile 2010

Ultimo spleen


Che rapporto può esserci
tra una pipa e la croce? L’una e l’altra
sono presenti: sono
il presente – l’una con
l’altra.

Questa cosa qui
è un esalare di tutto, una
dolcezza librata, molle
d’attenzione e armoniosa tristezza,
ricca, spugnosa, beffarda
col peso che, pensandosi, la effonde.
Questa cosa qui è il tempo
che vedi esattamente, crocifisso
l’istante alla sua forma, superando
col destino la forma, con il lieve
struggimento dell’impronta
smarrita il cruccio
insostanziale del fato.

È questa cosa qui, come una scelta
di dimenticarsi, di ridere del fato
non abbastanza folle, il desiderio
di fumare e la dolcezza di perdere,
è il presente, la soffitta sfondata
ad ospitare il cielo coi suoi fumi,
la testa spiccata per amare
l’impossibile mondo come un cane,
come uno schiavo. Il dandy è morto del tutto
vituperosamente. Gli sopravvive
l’inanità del fumo. S’è immolato
qualcuno.
Qualcuno s’è giocato con se stesso
l’impossibile mondo, il tutto-amabile.

“La testa del profeta” di Elena Bono, dramma biblico


Quello che segue è il testo di una conferenza tenuta a San Miniato il 22 luglio del 2009 in occasione dell'incontro La parola viva di Elena Bono per la LXIII Festa del Teatro di San Miniato


But vain the Sword & vain the Bow,
They never can work War’s overthrow.
The Hermit’s Prayer & the Widow’s tear
Alone can free the World from fear.
W. Blake, The Grey Monk

È forse opportuno cominciare sempre dal Libro, soprattutto quando un libro lo interroga, lo provoca, e testimonia del transito della sua Parola in un cuore umano – come nel ventre di Ezechiele quando mangiò il rotolo che Dio gli offriva (Ez 3,1-3) – effondendola di nuovo, sulla scena del teatro e dell’esistenza.
Questo dramma illumina in modo molto limpido, e proprio per questo molto perturbante, quella che sembra essere la specifica e terribile vocazione della morte del “più che profeta” Giovanni: la lotta, oscura e midollare, e il quasi insolubile intreccio, tra due prospettive: quella del mito, con la sua umida avvolgente circolarità, e quella della Scrittura, il cui Soffio ardente e assetato aggredisce l’apparente compiutezza del mito, come il vento del deserto assedia la fortezza di Macheronte, luogo dove si svolge l’azione. Laddove l’arte barocca amava proiettare su questo groviglio i suoi fasci di luce obliqui e sublimi, e l’arte decadente si compiaceva di raccoglierne i fremiti più sfuggenti, le risonanze psichiche estreme, l’opera di Elena Bono recupera imperiosamente lo sguardo tragico e totale della Bibbia: sceglie la fedeltà al groviglio umano e divino, ma una fedeltà straziata, coltivata in modi impensati con una regale ricchezza d’invenzione.
Il profeta-“più che profeta” attrae a sé tutto il molteplice, preciso gioco del mondo: tutto è magnetizzato dalla necessità del suo sacrificio, sia le chiuse passioni che il logos atroce della politica. Eppure, questa necessità, soprattutto quando è intravista o duramente contemplata, è (biblicamente) lo scandalo. Il potere, la conservazione del meccanismo mondano, si svolge, in realtà, non linearmente, ma sinuosamente, con spire serpentine, al richiamo – come del suono obliquo di un flauto orientale – della fede: serve l’Evento; non solo tutto è permesso da Dio ma, in questo gioco di specchi e d’enigma, tutto è portato da Dio. Il potente disegno dell’opera, la sua scrittura, che è lettura di tutto il testo biblico in tutte le sue dimensioni, si svela esemplare (con un tratto mirabile di ermetica erraticità) di quella che, a giudizio di chi parla, è la grande vocazione drammaturgica di Elena Bono: battezzare Dioniso nel Giordano di Giovanni, ovvero il tragico greco nelle acque tempestose e purificanti del messianismo ebraico e cristiano; battezzare il verso finale delle Trachiniekoudèn toutōn ho ti mē Zeus – “e non c’è niente di ciò che non sia Dio”. Nel patimento dell’uomo il divino è tutto presente, non tanto però perché Deus vult, perché Dio lo voglia; anzi, quando l’uomo crede di poter conoscere e indirizzare la volontà celeste, come nel discorso di Caifa sulla morte del Cristo, in realtà si addensa la tragica ombra, e quella del Gran Sacerdote è una profezia, cfr Gv 11,49-52: ma perché Deus tollit, perché Dio lo prende su di Sé, già nel Suo Precursore, nel Suo Elia che è Giovanni. Giovanni precorre in tutto: la sua morte nascosta, nel carcere, prepara, inizia (come il battesimo d’acqua quello di fuoco e spirito) la morte, sul monte, di Gesù. Qui emerge, appunto, il parallelismo perturbante del mito: Gesù sacrificato in un rito maschile, primaverile, diurno – la lucidità politica di Caifa, la tollerante impotenza di Pilato, l’eterno alibi di Erode, l’infedeltà degli amici e della Città, incarnata dagli uomini dell’ordine religioso –; Giovanni sacrificato in un rito femminile, notturno, di mezza estate. È falciato come un sole segreto in una notte dominata dal volto cangiante della luna; e così c’è la lunarità isterica di Erodiade, miserabile Ecate, l’adultera incestuosa che si vuole Iside, e non può vedere nello specchio del proprio delirante narcisismo il vero riflesso: l’altra luna, la figlia Salomè, nel cui ritroso e sfuggente lucore di perla o d’argento si affina, si estenua il crudo raggio della madre, e appare come la passività e la dolcezza della lunare coniglietta – ma sul rovescio sta la faccia ancor più nera dell’astro, quella pace negativa (cui il nome della giovinetta allude)[1] e vuota della piscina di Mallarmé,[2] il delicato abisso precosmico sul quale traccia le esili figure della sua danza di morte. Proprio queste figure sa tracciare, con la pieghevolezza e l’esattezza della sua parola, l’arte della Bono, che scivola dietro la scena del racconto scritturale mostrandone la tragica machina, e di lì addita quella scena, la danza nel convito (su cui indugia morbida l’immaginazione romantica e post-romantica), come l’obscoenum stesso, con grande sapienza drammatica e finezza di lectio biblica. Ed è parimenti finissima l’intuizione di Salomè come “nuova generazione” destinata, secondo la desolata saggezza del Qohelet, a scoronare la madre per ripetere e conservare tutto, tutto il gioco. Ancora è lunare Erode “figlio d’eroe”, il toro idolatrico sotto chiave nella sua stalla di re fantoccio, tributario dei gentili, con la sua virilità disfatta e inerte, il suo disgusto di senex che non riesce a disperarsi per stanchezza; Erode il discendente dei Maccabei che finisce incastrato da un giuramento frivolo e fatale alla vivente immagine, fatta impalpabile idolo (promessa, appunto, di nullificante “pace”), della propria perdizione. La chiave della parata è tenuta – sembra esserlo – da un personaggio mirabilmente evocato, Cusa, il ragno, il tessitore, il sacerdote egizio della politica: l’intendente di Erode, colui che più di tutti odia Giovanni perché ha rubato il figlio Daniele a lui e al mondo, così come il Ladro delle anime gli ha rubato la moglie, che Lo serve (figura stupendamente biblica ed ebraica) con i suoi beni maledetti; e lo odia con l’odio più gelido e perfetto, proprio per il vivo e segreto tormento della paternità delusa e traditrice. Così la presenza, rimossa ed insistente, del santo è un giudizio per tutti, anche se operante sul rovescio dei fatti: tutti si svelano, e tutti sono sconfitti. Sembra sfuggire alla pungente, trafiggente confutatio solo Salomè, amata dall’innocente Daniele con un amore in cui è la primizia della carità verso l’originaria innocenza della fanciulla, sfondo puro della sua passiva morbidezza, e sua possibile redenzione: ma l’innocenza di Salomè si corrompe quasi inavvertitamente al contatto stuprante del mondo, scivola nella propria ombra lunare; quella di Daniele (vir desideriorum come il profeta della cattività babilonese) patisce invece la vera violenza, lo scandalo che rende tutto impossibile, l’unico scandalo, quello della promessa paterna delusa, doppiamente, nel padre carnale e in quello spirituale. Con Giovanni incatenato in carcere, veramente il mondo è distrutto, veramente è apokalypsis: ma in incognito, in un battesimo d’acqua e tenebre; e tuttavia ciò è un segno anche della morte esibita, l’innalzamento, e la resurrezione, di Gesù: poiché il Suo battesimo definitivo, di fuoco e spirito, si manifesta, nella morte di croce, come un battesimo d’acqua e di sangue, un nascondimento sempre più paradossale e scandaloso; il mondo è come prima (anzi, Erode e Pilato si riconciliano, ci racconta Luca), eppure il mondo è giudicato, perché il suo male segreto è esploso nella malattia che modella orrendamente il corpo della Vittima d’Espiazione, dell’Agnello crocifisso.
Giovanni stesso aveva mandato a chiedere, dalla segreta: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2). I suoi discepoli umiliati (il buffone e il guardiano del Tetrarca, Abba Dima[3] e Daniele), dopo la morte del Precursore forse seguiranno Gesù-Messia, ma ormai sanno il destino dei profeti disarmati (che “tutti” necessariamente “rovinarono”, secondo la bronzea parola di Machiavelli in esergo):[4] la loro fede sarà la stessa di Giovanni, e in fondo la stessa di Gesù, che sa la propria vittoria e insieme la crede, in quanto uomo sconfitto. Il Messia disarmato ha anche esortato a comprarsi una spada, e ha detto d’esser venuto come una spada: e poiché accetterà insieme e la lotta e la sconfitta (una povera fuga, una preghiera nell’Orto, il grido sulla Croce), allora il suo “rovinare” è la primizia della Pace (non la pagana pace dell’annullamento, di Salomè, né quella paganamente politica, tra Erode e Pilato), come intuisce Abba Dima, povera Cassandra dell’esilio ebraico, faccia da sputi. La Pace è da venire, troppo bene lo vede il vero israelita, Daniele: eppure è anche racchiusa (come da uno scrigno) nel segno della sconfitta, perché segno della guerra apocalittica che intronizzerà l’Agnello, il Dio che vuole redimere i poveri, il Medico che è venuto solo per i malati.
La testa di Giovanni è quindi segno della morte di Gesù in quanto Testa del Corpo Mistico: entrambe sono parti più forti del tutto, simbolo incarnato (e quindi inveramento) del Resto d’Isaia, del “verme di Giacobbe” che schiaccerà e giudicherà le bestie idolatriche, la Bestia: del piccolo popolo che, secondo i rabbini, mangerà la carne di Leviatano e di Behemot, cioè la cruda potenza del mondo e l’oscura potenza sacrificale della natura.
Behemot e Leviatano cooperano per martirizzare Giovanni: sulla scena pesa il fascinans del rito sacrificale che si svolge in accordo con gli astri e i cicli (vi alludono, grottescamente, gli astrologi babilonesi stipendiati da Erodiade), e quello dell’idolatria politica, il posto del dolore usurpato dal riso dell’odio (Cusa), la fredda Wille che, quasi parodia del tempo perfetto delle profezie e della fede orante, delibera e agisce come tutto fosse già accaduto; sono entrambi l’unico Serpente, l’incantatore cananeo e l’astuto. Anche il tragico lealismo ebraico (come quello dell’antica Ester), straziato tentativo di equilibrio nel pozzo dell’esilio, finisce per logorarsi, per allearsi con l’Aquila, come fa il sacerdote Anna con il Tetrarca e gli odiati romani; e la saggezza temperata, come il vino dei conviti, del filosofo Clizia è perfettamente e dignitosamente sorda ai goffi e terribili Segni, è un’etèra in più al banchetto, e il suo aureo equilibrio di amabilità e gravità è già pronto a sciogliersi nelle future risate ateniesi sull’Areopago, all’indirizzo di Paolo. Ma Gesù è davvero Serpente di Bronzo (e colomba), vittima e insieme crocifissione della politica: scontando in Sè Stesso tutto il processo, non è vittima del processo ma di Dio. Egli infatti restituisce la moneta al Cesare: è sua; così inizia il giudizio, la separazione, così i giusti si giustificano e i dannati si dannano. Non è che si debba pagare il tributo, come hanno letto in troppi (i figli sono esentati anche dal didramma templare), ma restituire la moneta idolatrica all’idolo; se hai la sua moneta nella borsa, sappi che non ti appartiene, che devi rendere a Dio la Sua immagine, cioè te stesso, proprio rendendo al Cesare la sua. La politica del Messia è ricevere dall’Impero lo stigma del servo, e questo servo è l’Eved, il Messia Agnello: non lo si confonda con il Divo Cesare, con l’Everghete, col Filadelfo – con il loglio. Il cerchio non potrà mai quadrarsi: solo lo svuotamento del mondo affretta il Regno; i regni umani sono lasciati essere per la Misericordia e il Giudizio, per rendere il miracolo finale perfetto e perfettamente impensato.
Dalla platea, ormai trasformati ed istruiti dal pathos, ci sembra che la rudezza della sentenza del Machiavelli alluda, in finem, alla rudezza stessa della Croce. Lo scherno di Daniele, dopo la morte del maestro, dopo tutta la scena, è dolorosamente veggente: è vero che il carnefice è stato l’unico a vedere il Signore atteso da Giovanni; è vero, è stato l’unico perché ha partecipato col Profeta alla morte, se ne è caricato, mentre i “politici” intriganti o banchettanti fanno solo spazio al martirio, è giusto che si sentano, almeno a tratti, pupazzi ed ombre. L’unica libertà appare quindi, a quell’estremo di derelizione, il contatto impuro e purificante, tragico, con la morte, la morte del santo.
Note:
[1] Salomè=“pace”.
[2] Cfr il poema Hérodiade, di Stephane Mallarmé.
[3] Dima o Disma è il nome che la tradizione attribuisce al “ladrone” crocifisso alla destra di Gesù, quello che riconosce il Messia nel suo compagno di patibolo.
[4] “Di qui nacque che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno” (Il Principe VI, 6).

mercoledì 14 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/5


Martedì sono state celebrate le esequie di M.; il giorno dopo, mercoledì, una mia amica ha messo al mondo un bambino, F. Ebbene, io non credo che la nascita di F. sia meno incomprensibile del suicidio di M.; non credo che la gioia un tantino impersonale, spontanea e recitata al tempo stesso, che ha salutato quella nascita, sia meno strana, folle ed eccessiva dell’assenso di quell’uomo al richiamo, distante e familiare, del fiume che gli scorreva sotto casa. Né del promettersi a una donna, che è un’altra morte, in un certo senso un altro suicidio.
Quando si parla di ‘immagine’, come fanno Jung e Hillman, il rischio è quello di confonderla con un tipo particolare di rappresentazione o con un duplicato visivo o fantasma (immagine di...). Hillman scrive molto giustamente, nel 1978: “le immagini non significano niente”, e Casey osserva che l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui si vede. Se la parola ‘immagine’ ci porta fuori strada, possiamo dire ‘rito’. “In principio era l’azione”, dice il Faust di Goethe. In principio era l’azione rituale.
L’anima è una metafora. L’anima è immaginazione. Noi immaginiamo un’immagine, piuttosto che vederla. Secondo Lao-tzu, il saggio trascura l’occhio e si prende cura del ventre: l’Occhio è il massimo stregone. La suggestione è immaginare l’immagine duplicandola: ma l’immagine non significa niente, è primaria, è un archetipo. Se la duplichiamo, degradiamo il simbolo alla sua versione razionalizzata, l’allegoria. Ma l’immagine non significa: l’immagine mostra. “Mostra che cosa?” Mostra sé! “Come, un riflessivo?” Forse, allora, il mondo è un riflesso – ma non di qualcosa!
Non mi risulta che Hillman abbia mai citato seriamente Wittgenstein, ma penso che, dopo Nietzsche, l’austriaco e l’americano siano stati i più coraggiosi distruttori del soggettivismo, della psicologia mentalistico-soggettivistica: il primo con la sua dialettica socratico-apollinea, l’altro con la sua retorica ermetico-dionisiaca.
Possiamo recuperare il vecchio termine schopenhaueriano, ‘rappresentazione’, solo se lo specifichiamo, come fai giustissimamente tu, con l’aggettivo ‘teatrale’: l’immagine è rito, è teatro.
L’anima è caduta – ma non al passato prossimo: è (copula) caduta (aggettivo o, meglio, sostantivo: Caduta). Il suo rapporto con la necessità (ananke), cioè con la morte, è originario, essenziale. Le anime fiutano in direzione di Hades, dice Eraclito. L’Hades, dice Platone, è l’Invisibile (aeides), la prospettiva in cui l’occhio cede all’udito e all’odorato. Perfetta espressione popolare di ananke: “oramai siamo in ballo, e allora balliamo”. Ci siamo dentro. Bravissimo anche Chesterton (più epico-etico): chi viene al mondo non può avere l’occhio critico di un uomo che stia cercando una casa e a cui venga mostrata una serie di appartamenti; “nessun uomo è in questa posizione: l’uomo appartiene al mondo già prima che possa iniziare a chiedersi se sia piacevole o no l’appartenervi... Per dire in breve quel che sembra essenziale, c’è in lui una fedeltà che precede l’ammirazione... Il mondo non è una casa d’affitto a Brighton che si debba lasciare perché è miserabile; è il castello di famiglia, con la bandiera sventolante sul torrione, e più è miserabile e meno dobbiamo abbandonarlo”.
L’anima ‘patologizza’ perché, come dice stupendamente Eraclito (con un aforisma che annienta ogni soggettivismo), “le anime vivono la nostra morte, e noi siamo morti alla loro vita”. L’anima vive la morte dell’io: l’anima vive la morte. Gli fa eco, in modo quasi altrettanto regale, Antonio Maria Zaccaria: “Come il corpo muore se lungamente starà senza il suo nutrimento, così l’anima muore se lungamente starà senza la meditazione della morte...”.
Ci sono molti suicidi, e quindi molte fantasie di suicidio. Il suicidio può essere l’atmosfera quotidiana di un’esistenza, uno sfondo sublime, una possibilità che innalza la fiamma del tragico, un ricatto agli dei e agli uomini, un tentativo di iniziazione che mette alla prova il mondo, l’essere, una possessione che arriva come il precipitato improvviso di una lunga nigredo lasciata a se stessa. Insomma, è colorato di tutte le sfumature infere dell’anima, di tutte le peripezie mitiche dell’anima: è essenziale al destino dell’anima – chi non ha mai pensato al suicidio? Quello che tu dici, alludendo ad una sorta di vipassana nel cuore della fantasia suicidaria, è verissimo, ma lasciami aggiungere qualcosa: il suicidio è l’aporia suprema dell’immaginazione, la dimostrazione per assurdo, la consequentia mirabilis del mondo immaginale; metterlo in atto lo vanifica: letteralmente, la lettera lo uccide. Uccidersi uccide la fantasia di uccidersi. Scusami, ma mi viene ancora in mente quel solennissimo buontempone di Chesterton, quando dice di aver scritto un trattato Sui venti modi di uccidere la propria moglie; ma sconsiglia il lettore di metterne in pratica anche uno solo, se non altro perché si priverebbe dell’indiscutibile piacere di realizzare gli altri diciannove. A me viene molto da ridere, anche se non ho mai pensato di uccidere la mia; il fatto è che ho avuto per anni la passione, non solo intellettuale, del suicidio: non so in che mondo sia entrato M. prima di consegnarsi alle ombre, né (quindi) dopo, ma so che la fantasia del suicidio è quella che accosta più pericolosamente da vicino alla fede immaginale, al timore-devozione per le immagini. Perché in tutte le tradizioni la devozione è, anzitutto, timore.
Ricordi Giacobbe allo Yabboq? Forse ad Hillman sembrerebbe una manifestazione del paradigma eroico, ma a me pare una buona introduzione al paradigma ermetico (quello della psicologia archetipica, insomma). Yaaqov è lo Spodestatore, l’io: migrando di notte, lascia che gli passino davanti tutte le persone e le bestie e le cose della carovana, poi guada il fiume da solo. Allora lo aggredisce un “uomo”, l’ombra del suo spodestare, del suo cercare potenza: come un ladro, come un vampiro succhiasangue, come una larva del mondo dei morti. Giacobbe lotta con lui: cioè gli resiste, standogli avvinghiato. A cosa resiste? Alla possessione. Perché quell’uomo, lui ancora non lo sa, è Dio. E lo ferisce alla coscia, lasciandolo storpio per sempre. All’alba l’Uomo tenebroso gli dice di lasciarlo andare – come Dracula, o il fantasma del padre di Amleto. E Giacobbe: Non ti lascerò se non mi avrai benedetto. La radice di benedire per i semiti non ha niente a che vedere né col dire né col bene: b-r-k, piegarsi, inginocchiarsi. Giacobbe, insomma, vuole ancora vincere, come al solito, seguendo il suo sogno di potenza? No. Giacobbe vuole essere distinto dall’ombra ed eternamente a lei legato – come un lottatore. L’ombra gli chiede il nome e gliene dà uno nuovo, Yisrael, “perché hai lottato con gli dei e con gli uomini e sei uscito vittorioso”. Eroismo? Poi ovviamente Giacobbe chiede reciprocità: e il tuo, di nome? “‘Perché mi chiedi il nome?’ E lì lo benedisse”. Quella domanda distanziante è la benedizione. Il sole spunta, Giacobbe zoppica, e chiama quel luogo Fanuel, “perché Dio mi si è mostrato faccia a faccia eppure la mia vita è salva”. Giacobbe il prediletto, l’astuto, scopre il proprio destino di adoratore, di devoto dell’immagine, rifiutando di lasciarsene possedere. (Il che non vuol dire che la possessione di uno sciamano o di un estatico yoruba sia contraria alla devozione verso le immagini! È solo un’altra immagine, o meglio un altro modo di vedere, un altro rito).
Pensare M., ricordare M. (con la preghiera, con l’attenzione), credo sia giusto ed efficace: è forse l’unico modo per deletteralizzare l’atto suicida, quell’estrema espressione dell’individuazione, della solitudine apparente di essere se stessi. C’è un senso in cui si è soli nella propria ananke, nel proprio destino, eppure la nostra solitudine stessa non è privata, è universale, archetipica: non siamo isolati neanche nella solitudine, perché “invitati oppure no, gli dei saranno presenti”. Questa non è una consolazione, è congiungere gli opposti, essere d’accordo con la necessità (anankei synchorein, dicevano gli stoici).

martedì 13 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/4


Sì, vaghiamo nel buio in attesa della nascita vera ma, come per il feto, si tratta di un’attesa densa, ricca, magnetica: traiamo nutrimento da un ventre cui siamo legati così confusamente da non riconoscerlo mai, o quasi (e ogni riconoscimento, ogni differenziazione, ogni piccolo svezzamento è una piccola morte, una piccola preparazione al grande parto); siamo radicati come piante, mobili e cercanti come animali, sognanti e smarriti come uomini. Ed ogni morte-nascita è un ritorno a casa sulle vie dell’alterità, del non-sapere, della sorpresa, del timore. Una delle poesie che più intimamente ha percosso e rivoltato gli strati della mia memoria spirituale è Elogio dell’ombra di Borges: nel giro di pochi versi, il vecchio dichiara con dolce serenità la percezione del ritorno che accompagna il suo accostamento alla morte (l’ombra della cecità, iniziazione alla morte che il destino gli ha donato, con tremenda sollecitudine, negli anni della prima maturità) e suggella la conversazione dell’anima con parole magnifiche: Pronto sabré quién soy. Presto saprò chi sono. Poiché ‘saremo’ davvero noi stessi, passeremo – passiamo – nel fuoco purgatoriale che consuma ogni ingannevole identificazione: avremo la nostra vita nella pienezza multidimensionale della sua destinazione prima e ultima. Il protagonista di un romanzo di Chesterton dice che rifiuta di venerare l’Infinito, l’Assoluto senza determinazioni, l’Uno-Tutto del panteismo, perché sa-crede che oltre il fiume della morte lo attendono, in un modo che però lui non può prevedere, anticipare, il lampioncino, la buca delle lettere, il giardino della casa sua e di sua moglie. In un senso (forse) diverso da Chesterton, anch’io lo penso: oltre l’iniziazione, oltre la porta dell’utero mortale, siamo-saremo più noi di noi stessi, anche se – dice Borges – lo ‘sapremo’ al momento giusto. L’amico di Florenskij, Ivanov, riassumeva questo itinerario nel motto: a realibus ad realiora; ci muoviamo da cose reali verso cose più reali. Ci muoviamo verso un’altra nascita.

lunedì 12 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/3


Vengo periodicamente (circa ogni quattro anni, ho notato, ma osservazioni future potrebbero smentirmi) visitato da infinite settimane d’insonnia quando incontro un’immagine che mi parla dell’archè in modo intollerabile (ad esempio, la foto del supplizio cinese venerata e studiata da Bataille): notti come d’infanzia, di terrore che costringe a tenere gli occhi sbarrati, a guardare le inesauribili formazioni d’anima che dalla tenebra emergono dubbiosamente per poi venirne riassorbite – ma non senza aver lasciato impronte più o meno consapevoli nel cuore squassato dai palpiti. La tua esperienza è evidentemente più vicina al panico in senso classico, la mia è una paura più mediata, anche se l’evento-immagine determinato che la occasiona è subito promosso a simbolo di qualcosa di universale. L’angelo con cui lotto in quei periodi, sul guado notturno che separa-congiunge sogno e veglia, Ade e terra, si chiama Inaccettabilità: “Oh, se QUESTO è possibile, se questo è stato ed è, allora il mondo riposa su qualcosa di inaccettabile” (c’è un passo incredibile ne L’immortale di Borges che dà voce con l’esattezza della grande arte a questa mia percezione).
Quando lessi le parole consegnate a Silvano dell’Athos (“Mantieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare”), mi sentii direttamente interpellato – come te, come qualunque senziente, credo. Scrissi anche qualcosa su di lui, ma il punto è che quell’istruzione divina suona notevolmente efficace perché riunisce i contrari di botto, un istante infinitesimo prima che le Simplegadi si richiudano. E l’unità dei contrari è la Via: inferno – ma non disperazione (e quel ‘non’ attraversa gli strati della coscienza come una deletteralizzazione di una disperazione reale, una sorta di quintessenza della disperazione); senza distogliersi e senza afferrare etc. etc.
Ricordo una storia chassidica, minima e infinitamente meditabile. Un povero devoto va dal Rebbe, è scosso da tremiti, percorso da sudori freddi. Gli dice: “Rebbe, io ho una gran paura – lo vedi – di pregare nell’assemblea”. Il Rebbe gli sorride, gli poggia la destra su una spalla e gli fa: “Beh... Abbi paura – e prega!”. È insipida, e ha il sapore della libertà.

domenica 11 aprile 2010

All’ombra della montagna di Yeshua‛


Chi ha esplorato, anche solo per un breve tratto, i territori dell’anima, sa che non c’è differenza reale, qualitativa, spirituale, tra l’esser stati adolescenti e aver ucciso più di un uomo e violato più di una donna.

Corrispondenza sulla morte/2


Amare l’ordine del mondo è morte e liberazione. Cosa c’è di più crocifiggente? Ma al tempo stesso, cosa c’è di più alleviante e lieve? Pensa agli ultimi ‘capitoli’ del libro di Giobbe: al terribile Dio che mostra al suo principesco prescelto, a quel bersaglio di maledizioni funeste e ancor più funeste menzogne, un tessuto di verità da cui l’uomo – l’io – è assente (ma più profondamente presente come testimone umiliato e pacificato). E la visione culmina su quei due mostri fantastici, il Behemot (lett. “gli animali”), simbolo della quieta potenza della natura, e il Leviathan, simbolo della sua qualità inquietante, minacciosa (“Puoi forse catturare il Leviatano e farci giocare le tue figlie?” – come a dire: puoi forse possedere la natura con la tua conoscenza-tecnica e metterla a disposizione delle potenze dell’anima asservite all’io?). Dopo, il vecchio idumeo si mette la mano sulla bocca, come un iniziato, e lascia agli uomini quella sua stupenda dichiarazione di moksha raggiunta: “Ti conoscevo per sentito dire (attraverso cenni giunti al mio orecchio, auscultandoti con la ragione, con la fedeltà alla tradizione, con una fede ancora legata alla parola data, una fede ancora troppo ingenuamente fiduciosa), ma ora i miei occhi ti hanno veduto”... Ricordi il passaggio dalla terza alla quarta dimensione? Prima seguiamo la traccia del tempo come se fosse indipendente dalle cose, poi intuiamo (per la maggioranza è solo questo, ma alcuni, Giobbe, i mistici, i santi, diventano tutto occhio) che tutto è uno, che spazio e tempo e tutte le determinazioni sono conflati insieme, per dirla con Dante – e Einstein. Questo transito è una morte. Ma il dolore, la morte di Giobbe non vanno letteralizzati: o meglio, non vanno anticipati con l’immaginazione. La morte non possiamo anticiparla, proprio perché è la porta della realtà, il superamento dell’immaginazione (in senso weiliano): la morte che vivremo e viviamo ci appartiene, la prepariamo noi, eppure ci sorprende sempre, l’io non può non restare sorpreso, l’idolo non può non subire una rottura, una distruzione.

sabato 10 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/1


Uno degli infiniti modi per definire l’iniziazione è: diventare, attraverso la trasformazione della schiavitù umana in servizio, ciò che si è per diritto di nascita, maestri, quindi padroni, signori. E sulla via per diventare-essere signori, si affina la concezione del destino: non ‘me-la-sono-voluta’, ma ‘così (profondamente) ho voluto’. E la violenza di questo transito è, come la chiama impeccabilmente Eschilo, charis biaios, “grazia violenta” (espressione degna di Giovanni della Croce, di Maddalena de’ Pazzi...). C’è una violenza, una rottura nel fondo dell’essere: chiamala peccato originale, chiamala complessità dell’archè in cui coincidono (ma già sono sul punto di scindersi per la coscienza nascente) gioia e dolore; comunque tutte le tradizioni ci parlano di una frantumazione, di un sacrificio (spesso un autosacrificio), di uno schianto dell’unità multidimensionale – infinita e conchiusa nella sua pace – nel mondo limitato alle tre dimensioni (più o meno, diciamo), o meglio nella percezione tridimensionale del mondo. Ma questa violenza ha a sua volta un carattere multidimensionale, perché è appunto primordiale, principiale: e l’ambiguità della natura, della maya, ha sempre preso sembianze femminili per il pensiero arcaico. Goethe, come chiunque pratichi la bhakti, dice che nell’amore per una donna sperimentiamo proprio questo mistero metafisico, l’accostamento doloroso-gioioso a questa alterità (a questo pathos che è l’esperienza dell’alterità) che è più noi di noi stessi, che ci fa morire una volta e mille volte (perché la vita terrestre è una e molteplice, e il Buddha ricorda che dura quanto un istante, un pensiero, una bolla, un giro di ruota). Insomma, nell’amore per la donna ciascuno o quasi tocca le profondità dell’iniziazione, perché la vita, che è donna, ci corteggia e ci sfugge, ci mette alla prova e ci annoia, ci sorprende e insomma ci mette in cammino, in un continuo mutamento, un continuo pathos che è – parola del vecchio Platone spallelarghe sul tempo – un’immagine in movimento dell’aion, dell’eterno presente infinitamente ricco di vita.
Ti saluto con Seneca, che in un’epistola a Lucilio dice: come nell’utero, pur essendone inconsapevoli, ci prepariamo alla nascita al mondo, così in questa vita, in questo mondo, in alium maturescimus partum (diveniamo maturi per un altro parto). E usa alium, non alterum: cioè un parto diverso, che possiamo intravedere, ma che non possiamo davvero conoscere, qui, nel buio uterino del mondo.

venerdì 9 aprile 2010

Povertà e forma


Due versi del drammaturgo elisabettiano George Chapman: “Chi non è povero, è mostruoso: solo il bisogno/ dà FORMA e DIGNITÀ (valore) ad ogni umana semenza”. La forma postula la povertà, implica il limite: chi vuole la forma, vuole limiti. C’è una sentenza di Pasolini, che cito a memoria, e mi sembra una delle più efficaci degli ultimi cento anni: Quando si aveva solo il necessario, la vita stessa era necessaria; ora che si ha il superfluo, la vita stessa è divenuta superflua. Quando ti volgi, con lo sguardo del cuore – dell’immaginazione –, alle epoche in cui era forte e collettivo il senso della morphé, ricordati che erano epoche in cui era parimenti fortissimo il senso dell’ananke: epoche di esistenze brevi e minacciate, in cui decine di figli, di cui solo pochi sopravvivevano, venivano messi al mondo senza strategie malthusiane, in cui si poteva essere squartati per sovversione ed impiccati per un furtarello, anche a dodici anni, in cui la vita di una donna, ma anche di un uomo, era stretta in una rete di aspettative (di forme) culturali e sociali straordinariamente forti e, ai nostri occhi, straordinariamente rigide. Il senso dei diritti dell’uomo (idea illuministica, soggettiva e tendente all’illimitato) era molto debole, mentre era saldo il senso della giustizia (idea legata alla forma, quindi al limite). Ora, questo nesso forma-limiti (e povertà) rende fatalmente storte tutte le diagnosi sull’informità moderna che vogliano trasformarsi in posizioni – tutte le idee che vogliano consolidarsi in ideologie. Anche se ricostruire le forme in privato è impresa münchauseniana e votata allo scacco, vagheggiare una cultura fondata sulla forma vuol dire desiderare la povertà e il limite, che è come desiderare la croce o la guerra (ascoltata tempo fa al mercato: “A signò, qua ce vorebbe ’n’antra guera...”). Come insegnano Simone Weil e Melville, ci è chiesta l’attenzione, non il desiderio (in questo senso). Ci è chiesto di vedere le forme attraverso i limiti che la nostra piccola vita ci offre-impone, ma anche di vedere questa nostra piccola vita-esperienza in modo non privato, bensì alla luce della presenza delle cose, alla luce dell’anima mundi. Evagrio diceva impeccabilmente: “Monaco (solitario!) è colui che, separato da tutti, è a tutti congiunto”: un programma difficile, ma oggi più che mai necessario. Perché anche l’oggi ha la sua forma, anche il regno della quantità è costretto alla qualità. Secondo Musil, chi oggi voglia parlare agli uccelli come Francesco, deve seguirli non sugli alberi da frutto o nelle pozzanghere dell’Umbria medievale, ma sulle grondaie dei condomini urbani, nei tubi di metallo, nelle fessure del cemento.

giovedì 8 aprile 2010

San Giuseppe


per Giovanni

Troppo a lungo ho disprezzato
la tua silenziosa giustizia
fiorita in santità.
Ora ti vedo all’ombra
dei tuoi angeli – ti visitavano
perché soffrivi il vuoto
senza cercare scampo e spiegazione –
ora ti vedo raggiare
della tua mite luce
come un mandorlo carico
in un eterno equinozio.

mercoledì 7 aprile 2010

Tommaso d’Aquino: filosofia del concreto come pluralità di dimensioni


La ragione come accostamento: discorre, si muove intorno al reale, compone le prospettive; attraversa e ordina gli universali, ma all’inizio e alla fine della sua discursio è guidata-magnetizzata dalla fede, pensiero accompagnato dall’assenso, partecipazione alla certezza.
La fede sta all’intelligenza come la carità alla volontà. Il movimento è dal particolare al reale personale (dal reale al realissimo) attraverso l’universalità astratta delle essenze. Fede e carità guidano l’accostamento al concreto, all’esse come actus essendi. Armonia di continuità e disconuità, analogia entis (-participatio) fondata sulla creatio ex nihilo, che distingue ab origine tra essentia ed ens-esse.
I ragionamenti apodittici o dimostrativi, necessari e deduttivi, connettono gli universali (la 3a dimensione del pensiero come proprium dell’uomo): fede (e carità) sono invece accostamento alla 4a dimensione, alla totalità personale inattingibile dall’uomo quia talis. Qui il ragionamento si fa dialettico, ma non irrazionale o pratico tout-court: si distinguono preambula fidei e dogmi per unificare gli sforzi conoscitivi. Lo status della teologia (rapporto con la filosofia come regina ad ancella o sacerdotium a regnum) è quello dei “piccoli misteri” eleusini (i “grandi misteri” sono l’esperienza mistica), il suo spessore dialettico dialettizza anche la metafisica/filosofia.
La Rivelazione è l’ultranoetico non come impersonale ma come sommamente personale-concreto: è questa-cosa-qui, vivente, individuale, legata all’evento, ed è l’Unitotalità manifestantesi, atto di manifestazione. L’autolimitazione del Divino è accesso alla pienezza del Dio personale, in cui essenza ed essere, natura e volto, assoluto e relazione sono uno (non-due, non-separati).
Nella teologia c’è il cuore – nous – della filosofia di Tommaso.
Trinitologia: la Triade delle Persone è relatio subsistens e multitudo transcendens: la relazione sussiste simpliciter in Dio, la molteplicità è un trascendentale al pari dell’unità. La rivelazione cristiana rende noto il Dio Ignoto (Florenskij): dà all’Assoluto lo spessore personale dell’amore.
Cristologia: natura divina e natura umana (le morphai-formae dell’epistola ai Filippesi) si uniscono nella persona divina del Verbo; l’assunzione è il movimento con cui il Verbo sumit ad se, attrae a sé (indivise et inconfuse) l’umanità.
Alla luce di Florenskij: egli, il Verbo, pur sussistendo – hyparchon – nella morphè – forma, natura – di Dio, non ritenne – heghesato – (atto di conoscenza-volontà) un harpagmos l’essere uguale a Dio (harpagmos: 1) bottino, possesso; 2) raptus, estasi divinizzante. Il Verbo-Figlio di Dio non ritenne la propria uguaglianza con Dio, la propria divinità personale, ipostatica, l’esito di un’azione o di una passione divinizzatrice, di un’ascensione), ma (ne) svuoto sé stesso assumendo la morphè di servo (di creatura umana) (l’uguaglianza, la personalità ipostatica “sorge” dall’/nell’atto intradivino dello svuotamento, della privazione, dell’annullamento, che storicamente si prolunga nell’incarnazione come unione ipostatica del divino e dell’umano nel Verbo – come personizzazione dell’umano nella persona divina, assunzione, nuzialità messianica e sacerdotale).

Il Cristo è una totalità, un intero: le facoltà umane gli girano intorno, lo accostano raccogliendo e confrontando le prospettive contraddittorie, le sezioni limitate la cui tensione reciproca culmina nello spettacolo (icona ed evento efficace) della crocifissione.

Stretto legame tra la croce e la consistenza ontologica delle causae secundae, della creatura umana; senza questo spessore, questo conferimento di realtà, la croce non è croce – il dolore si estingue e si assorbe in un sonno mistico, anche lo strazio erotico della nostalgia, anche il tragico inerente alla dialettica semitica Creatore-creatura, tolta la uni-dualità del dogma calcedoniese, non è lo strazio specifico, il tragico specifico della croce.

La persona – per analogia con la maschera – è il volto ricevuto, assunto: supera l’immediatezza del volto naturale, dato, immediato. Il neutro della natura una si realizza nella trinità delle persone-relazioni (quindi negazioni, distinzioni) sostanziali: ma in modo che non vi sia priorità logico-ontologica fra una natura astratta e la concretezza delle persone o l’essenzialità principiale della natura e la manifestazione secondaria delle persone.

L’assenso come passaggio dalla terza alla quarta dimensione, dall’astratto al concreto, dall’universale all’individuale-personale: dal pensiero ‘puro’, oggettivante, al pensiero che si riconosce proveniente, come soggettività, dalla Soggettività divina (l’occhio non può vedere se stesso, la luce non è visibile in quanto tale).

lunedì 5 aprile 2010

Ut unum sint


Di giorno in giorno aumenta il numero delle persone per cui prego: un piccolo tesoro in crescita aritmetica, che conto doblone per doblone. Se continua ad ingrossarsi così, tra poco non mi basteranno i viaggi in autobus o in metro (non prego più né in chiesa, né in ginocchio), le soste nei giardini pubblici, le ore immobili della malattia. Forse non mi basteranno più le ore – le ore del giorno e della notte, della salute e della malattia – anche se incontro e frequento sempre meno persone: non ho bisogno che di un racconto, di una voce, di un nome. Questa folla di anime e corpi non si ridurrà mai a “tutti”, quantificatore logico che traveste la pienezza del santo o l’impazienza del sognatore: la sua molteplicità è un peso, una somma, pur essendo anche una comunità, una famiglia, un’amicizia, cioè una forma vivente, dove in ognuno sfolgora l’Uno. Ma la mia colpevole debolezza di orante mi fa sentire la fatica, la proliferazione immaginaria del loro, del nostro dolore, del nostro dolore e della nostra gioia, crescenti, sorgenti in montagne di luminoso spavento: mentre ogni dolore, ogni gioia, è il dolore-gioia dell’Adamo, di ciascuno-tutti, è comune proprio perché non si accumula, ma si rastrema a seme e gioiello.