Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 27 febbraio 2011

Pensieri di un vecchio nel letto del suo lamento


a Giovanni Casoli, poeta e maestro, con gratitudine e amicizia eterne

Ho sposato la povertà
ma furono sponsali combinati
dal saggio padre e dalla casta madre
con una madre casta e un padre saggio
prima che io nascessi – alquanto prima.

La sposa non era di mio gusto
un po’ perché – la giovinezza è vana –
in città non piaceva a nessuno
ma soprattutto (lo dico in un tremito
del mio ossequio di figlio e servitore)
perché non io, non io l’avevo scelta.

Certo, la legge è forte e parla chiaro,
si deve amare il nodo delle nozze
voluto da chi ti ha generato
e nello stesso nodo s’è annodato –
amare anche la donna, quella donna,
non è propriamente necessario.

Poi (è noto) per la dolce ironia
e triste, che sempre, oscuramente,
spezia l’asciutto pane dei decreti,
finisce per piacerti anche la sposa,
quella sposa, e così l’amarezza
del si-deve è un sale, un dono robusto,
un farmaco pungente e salutare;
ma resta l’ansia di voler amare,
la curiosità di poter amare
chi si vuole, lo spasimo
di poter volere chi si ama:
e quando tutto, la forza e il piacere
e i debiti che le generazioni
pellegrinando ancora si consegnano,
quando tutto è già speso, proprio allora
ti torna dai visceri su in gola
a farti ridere e sbadigliare
e a soffocarti e a farti nauseare
a forzarti a cantare e vaneggiare
il più piccolo ignoto dolore
della tua misera infanzia fedele,
e il desiderio – la vecchiezza è folle –
d’inzupparti l’avanzo di quel pane
secco in un po’ di vino.

E allora sogni di sposarla ancora,
la povertà cui t’hanno fidanzato
il luminoso padre e la tenera madre
ma per il tuo diritto, regalmente,
o piuttosto così, come un pitocco,
senza condizioni, perché la strada è dura,
senza l’ameno e senza il focolare,
senza recinto e tetto, senza travi
sulla tua testa nuda, come un povero.
E allora arriva il giorno, che si muore.

E sono morto, e il giorno ancora arriva.

Perché, per forza, esiti, e resisti,
per forza sei impaziente, e prendi tempo
nell’attesa di chi non conoscevi,
di chi ti era promessa, la tua sposa...

Non ero ancora neanche fidanzato.


- 20 Giugno 2003 –

martedì 22 febbraio 2011

Veglia di Natale 2004


Non eripit mortalia
regna qui dat coelestia.
Inno Hostis Herodes impie

Mi bracca un infante
per tutte le contrade del cuore
lungo i sogni del giorno e le sue opere
m’insegue uno
che è piccolo e immoto
una piccola carne offerta
servita in un cestino
da pranzo di nomadi
da uno stazzo di nomadi
sopra una terra nomade
misurata da un cielo che fugge
in cerchio disegnando meraviglie

L’essere mi sospinge all’essere –
mi trova e mi sollecita la nostalgia
dello yehì or che qui fra le pietre
della Giudea prendiamo per l’ordine
di uno che è grande
e trabocca di vita come un tino, di uno
che ordina qualcosa a se stesso,
che dona a qualcos’altro il suo ordine –
ed ecco stanotte il sussurro
aprente, la valva vocale del bereshìth, ecco
stanotte lo yehì or mi trova e mi prende
e mi stana, l’infante
poggiato sul cestino e la pietra mi legge
e rilegge e rivolta, e non c’è lettera
del mio passo, né apice e yod della mia
porzione, del mio breve giorno liturgico, che
resti intera, ogni cosa sospinta
al nulla, ogni essere
sospinto all’essere

Oh la preghiera che l’essere
muove a se stesso per più
essere, per altrimenti, per minutamente
minuziosamente essere,
per essere piccolo e tutto, per
essere dono –
ancora di nuovo noi
faremo e ascolteremo –
e la tua parte è nascere ed ostenderti
in una notte che è preghiera
della luce alla luce



NOTE:

Secondo John D. Derrett, studioso delle fonti ebraiche del Nuovo Testamento, Gesù neonato potrebbe essere stato disteso in una delle ceste di vimini con cui i pastori della Giudea portavano i viveri negli stazzi.

Yehì or sono le prime parole che Elohim pronuncia nella Bibbia: wayyomer Elohim yehì or wa-yehì or (“Elohim disse: Sia luce, e fu luce”).

“Faremo e ascolteremo” è la risposta d’Israele al dono-vincolo della Torah: Kol ashèr-dibbèr YHWH na‛asèh we-nishmà‛ (Es 24,7).

domenica 20 febbraio 2011

Luca 10, 30-37


…l’olio e il vino che il Samaritano applica alle piaghe sono legalmente contaminanti, perché provenienti appunto da un Samaritano…
J. Duncan Derrett (cit. da E. Zolla)

Vorrei che questa piccola inutile storia non vada dimenticata; quanto alle altre storie in cui sia passata, indugiando o in volo, la mia ombra, spero, con stanca e perfetta nausea, che finiscano annientate. Si consumi tutto nella desolazione e nel terrore, e continui però a sanguinare nel buio questa efflorescenza senza gloria, che per caso mi ha redento dalla mia rispettabile umanità.
Ero un decente funzionario del Ministero dei Sacrifici Quotidiani. Avevo ottenuto, per stretta giustizia, dopo un paio di concorsi infiniti, una delle mansioni più basse, facili e sicure: fotocopiavo i decreti delle segreterie della mia città, una metropoli fruttuosamente abituata alla decadenza, per poi trasmetterne i bruniti simulacri agli ufficetti di quartiere o alle sezioni dei partiti politici. Con gli uffici era d’uopo ogni buona severità e un’asciutta vigilanza; ma alle sezioni non risparmiavo mai i frutti dell’arte lieve cui sembravo predestinato – il ballo della condiscendenza impotente, la bonaria e fresca tenzone poetica sulle formule prescritte, magicamente sempre inoperanti e sempre, quasi divinamente, vittoriose di tutto e di tutti. Non parlerò, per il voto iniziale, della mia esistenza, che del resto comunicava circolarmente, consapevolmente e indifferentemente con quelle di tutti gli altri funzionari inferiori (ciò costituiva appunto la mia massima lode); non traccerò un superfluo ritratto della mia debita calvizie, del mio smidollato incedere da fantasma, della mia accurata e smorta eloquenza: della mia diafanità.
La storia è questa. Fui visitato, dopo una decina d’anni di servizio, da una variante piuttosto insueta della cosiddetta melancholia ministerialis. La melancolia – nota anche vulgo come “la circolare spiacevole” o altrimenti “la pratica inevasa” – è trattata con discrezione e parsimonia nelle Massime dei Padri, al segno che i più non ricordano se non un rapido detto del Burocrate Primordiale: “È necessario che vi siano melanconici, tuttavia guai a colui che va ad inciampare nella melanconia! Se un tuo membro o un tuo pensiero danno scandalo agli altri, tagliali via da te: è meglio infatti per te entrare nel Ministero mutilato o demente, piuttosto che il tuo corpo e la tua mente interi siano visti e giudicati dagli uomini”. Concludeva con un monito atroce, un fendente della spada del giudizio: “In verità vi dico: se farete così, avrete già ricevuto la vostra ricompensa. Se non la ricevete ora, quando la riceverete? Se non la ricevete dal Ministero, da chi la riceverete?”.
Uno dei primi sintomi, inequivocabile, fu l’emergenza di una infame passione per le questioni della vita di funzionario (voglio dire i dettagli, poiché non vi sono principi generali, nemmeno il principio che neghi i principi generali, il che ha dato luogo, tuttavia, ad una stravagante forma di esoterismo pragmatistico); ma presto tale fuoco oscuro finì come per impietrare se stesso, in una molto caratteristica paralisi: l’intelletto si vide accecato, poiché la vita al Ministero, lungi dall’essere al di sopra della comprensibilità, ne è al di fuori (infatti tutti la comprendono, proprio così com’è, ma altrettanto bene si comprende che non ha, non ha mai avuto, forse non potrà avere né un fine né una fine): la volontà si trovò soffocata, poiché la sognante obbedienza quotidiana, meticolosa quanto inerte, ora incespicava ad ogni passo in pietre enormi, sontuose e irregolari, in gemme orribili, in schegge che puntavano a troppe direzioni. Era già per me una sofferenza esser costretto a pensare in immagini, un vizio che, come si vede, non ho più deposto. Le immagini sono così lontane da qui, eppure così rozze, così vischiose… Si sa che, dai tempi del Burocrate Primordiale – cioè da sempre – il Ministero esorta, con dolce veemenza, ad uccidere le immagini, per poi conservarne i fragili corpi disseccati sugli stipiti del proprio ufficio.
Lo devo pur dire: invidiavo i normali funzionari aureolati di depressione armoniosa e monocorde, come asceti senza fiamma; o i più rari e inquieti piccoli burocrati con le incalcolabili sfumature dello stress baluginanti sulle membra e sulla divisa, dolci eroi del Ministero, viventi screziature sull’oceano comune dei Sacrifici Quotidiani: nemmeno osavo guardare i volti compiutamente disfatti, insondabili nel malcontento e nella rugosa tolleranza, dei Grandi Melanconici, i capi crocifissi dalla noia, le immense maschere statali sospese in un equilibrio tragico, ripugnante. Perché la mia disdetta, sebbene riconoscibile e classificabile, non lo era però proprio del tutto; sempre qualcosa eccedeva, o mancava: o tutto svaporava, o tutto era troppo formato e presente. L’incapacità di sperare era tutt’uno con l’incapacità di aspettare – con la sete; e la sete era tutt’uno con la colpa, anche se i colleghi e i capi, deplorando l’uso invero audace del raro termine giuridico, la chiamavano malasorte o malora o giù di lì: colpa, colpa sitibonda, sete colpabile, come una ricettività furiosa, come insomma un liscio ricordo di vita devastata, o un lento presagio di terrori sempre più confidenti, sempre più opportuni, sempre più miei. Le indicibili notti vegliate a compulsare i sacri testi ministeriali mi persuasero, abbastanza precocemente, dell’eterodossia del mio intelletto, del morbido smarrimento della mia volontà. Ero sempre atto alle mie mansioni, ma iniziavo a prendere consistenza, presenza, opacità; il che è propriamente piuttosto impossibile, che proibito, ad un funzionario.
Proprio all’inizio andai a consultare, come s’usa, un funzionario guarito da molti anni, un vecchio contabile, che mi fu segnalato da un collega del mio ufficio per la sua squisita inettitudine. C’incontrammo in uno stretto corridoio ferocemente illuminato nei pressi delle mense; mi piantai davanti a lui, in attesa di un esame. Il funzionario curvò la sua libera senilità sulla mia giovinezza raccolta: sbirciò a lungo, soprattutto il tronco e le gambe; poi, indicando con gli occhi e le punte delle dita qualcosa dietro alle mie spalle, un po’ in alto, disse parole che ricordo a sufficienza: “Lascia marcire questa pratica nel cassetto: dopo molti giorni, io ti dico, sarà ritrovata, e tu non ne avrai alcuna gloria, e in ciò sarai salvato”. Mi congedai lentamente, pronto ad applicarmi il cataplasma. Semplicemente, non potei.
Quando venne a trovarmi un cerimoniere distrettuale (mi resta il fruscio della sua divisa stazzonata mentre si sedeva), la melancholia ministerialis sembrava in una fase di tranquilla abiezione; forse lo aveva incaricato un funzionario, forse no: forse l’aura della mia condizione era stata captata all’improvviso dal suo cuore veggente. Il suo lungo discorso, formalmente sommo, davanti a un condiviso bricco di limonata, non è facile da riassumere; in sostanza mi rivelò, ilare, che ero quasi preparato per l’unico segreto che ci sia: è per quella via che il funzionario stava diventando un funzionario. Anzi – e aggiunse che era utile per me non poterlo, al momento, capire – diventando funzionario, il funzionario è più di se stesso (a questo punto, mi pare, giunse le mani): non più io avrei vissuto, ma il funzionario in me; e sarei stato al di sopra di tutto, essendo tutto: “come io – disse, concludendo – servo inutile, documento archiviato, sono più in basso di tutto per porgere, proprio a te, l’amuleto”. Quell’insinuazione di speranza dovette essere efficace perché rese definitiva, autorevolmente, la mia disperazione.
Ormai non mi restava che passare le mie poche ore libere nel Ripostiglio dei Fax Guasti, un luogo tacitamente assegnato, da secoli, alla penitenza e alla morte – cioè, secondo le nostre consuetudini, l’esser ricordati dai capi, il divenir loro, o prima o dopo, verificabili, visibili, incessantemente. Trascuravo persino i miei soliti, poveri piaceri: le carte, la famiglia, le liti rituali e aggraziate coi fratelli dei sindacati, le visite agli ospedali, i bordelli… Non si immagina la sicurezza del ventre di una prostituta, di una tendina logora e tiepida, di una musichetta fragile e triste, quando non riesci a succhiare, e alla fine quindi nemmeno più devi, la vita dal seno ampio dei decreti, quando non vai più con gli altri a raccogliere le tue particole alla porta dei capi: quando tutto è, appunto perché è, come prima, eppure tutto è vacanza. I fax erano: lì, gravi e disutili, nell’ebbrezza e nella cecità del loro oblio, come gli eventi possono essere solo proprio mentre avvengono – la nascita, il concorso, la prima attesa nei corridoi del Ministero – e io non li guardavo, perché ero loro.
L’oblio ha ormai quasi preso con sé anche la prima volta (che forse non c’è mai stata, se le prime volte sono una condensazione della memoria, nonché, appunto, un soccorso dell’oblio) in cui m’avvidi di un burocratello piuttosto squallido. Tutti, tutti mi accostavano con la prescritta trascuratezza della pietà burocratica (era un sollievo poter ricambiare con la stessa parsimonia), mentre quell’uomo sembrava ignorarmi con una premeditazione che mi angustiava. Mi bastò un lampo per possederlo: ostentatore, moderatamente loquace, abilissimo nel farsi accettare le risoluzioni col disgusto che muoveva in tutti… Pochi ignoravano (io ero tra questi, prima della confidenza di un collega) il significato dei suoi viaggetti stagionali – con le valigie della Segreteria orribilmente rigonfie, le camicie da colonizzatore per scherzo e i cappellini come studiatamente goffi – in certe città miserabili delle province più lontane, di quelle che i fax e le circolari raggiungevano con sdegnoso ritardo.
Ogni epoca ha bisogno di dannare, in una nuvola di individui che la riprovazione trasforma quasi in una setta, il rovescio oscuramente luminoso delle proprie persuasioni più mistiche e crude: così l’orrore assapora una licenza rituale, e tuttavia smisurata, che le argomentazioni più oneste e precise non riescono mai ad esaurire. Nell’epoca della mia giovinezza questa elezione si volse agli allora detti p e d o f i l i,[1] poiché traducevano in piccole luride carezze nell’ombra il nostro compito supremo: tuffare il prima possibile ciò che è nato in una molle sventura, che come un brodo di cucina paziente gli sfogli la barbara pelle, gli cuoccia a fuoco lento le carni, gli estragga lo sperpero vergognoso dei peli, fino a lasciarlo calvo, tenero e impeccabile per l’officio dei Sacrifici Quotidiani: cioè, l’Ufficio.
Comunque fu lui, il p e d o f i l o, l’unico perfetto indifferente, che mi avvicinò e si sedette con me.
In una delle prime visite mi consegnò, come un missionario, un po’ persuaso un po’ rabbrividendo, certi suoi giornalini, piccoli sbiaditi funerali della carne. Mai m’era parsa, la mia carne, la carne, così viva e umiliabile, la carne che portavo sotto le luci elettriche col decoroso auspicio che tutti la dimenticassero. Lo seppi, da questo, ancora più vile di quanto avessi creduto.
Tempo dopo m’accorsi, da alcune sue frasi stente, da come gli uscivano senza ritegno e senza rito, che si odiava, ma resistendo al proprio odio, e che lo attraeva a me, forse, una sorta di presentita complicità. Era come se avesse adocchiato, trasognatamente, qualcosa di schifoso, di rifiutato, di ozioso, ma appunto con l’occhio e quasi con il naso, non col metro ministeriale, non col fiato disteso e pronto del giudizio; mi viene da dire, se ripenso faticosamente a come sgattaiolava, a come mi s’appollaiava vicino, a come tremava pianissimo, che mi fiutava col fiato delle bestie, quando pare rotto perché è sinuoso: e fiutava qualcosa che non potevo, evidentemente, trattenere. Si immagini (non so a chi lo dico) uno che cerchi una breccia nella tua figura e nel tuo peso; ma non lo faccia per scaricarvi se stesso e placarsi (a questo siamo inclini tutti): bensì come per deporvi il suo stesso schifo e il suo stesso ozio, ma deporveli senza calcolo, doni ciechi e inutili, doni assurdi perché non gratuiti, ma forzatamente e disperatamente doni. Una volta mi venne addirittura in mente che se ne stava smarrito e duramente seduto nel suo male, come uno dei suoi bambini (così diceva) nello scandalo dei contatti segreti.
Sarebbe impossibile per me tentare di ritenere qualcos’altro di quegl’incontri, no, di quelle visite, no… Quello che sono stati, sono stati. Eravamo presenti, tutti e due, pesavamo, mandavamo ombra, io e il p e d o f i l o, forse solo noi due. Mandavamo odore. Stavamo fermi e ci agitavamo: non più, almeno lì, limpide e uniformi larve; non più vitrea fluidità di funzionari, almeno lì. E fu lì che mi portò, sebbene già vi fossi, e anzi vi stessi mettendo casa e radici nelle mie ore libere, così libere, sempre più vane e grandi, a immagine del nulla che mi era concesso, dell’attenzione mortale che mi rinchiudeva. Lo fece con la sua mezza consapevolezza, che era così simile alla mia: a forza di star lì mezzo muto e mezzo morto e mezzo colpevole, come me, stupidamente, tra il tremito e l’altro di due sguardi vuoti, mi consegnò uno specchio oscuro, la verità su di sé. Anche lui, dunque, stava a difendersi senza un’arma, e senza mosse, dal fatto fondamentale: che non gli restava, nemmeno a lui, letteralmente altro che uscire da tutto, fuori, per un attimo assurdo, dal Ministero, e proprio nel suo sgabuzzino più premente e claustrato. Fuori, non per modo di dire, e più letteralmente di qualunque lettera, persino la più stringata delle circolari. A lui, anche a lui, non restava altro che l’impossibile; e l’impossibile doveva essere messo in comune: perché non c’è miseria perfetta per se stessi, da soli. Ciò che aveva cercato nei suoi viaggi era ciò che io non avevo ricevuto, nella maestà elettrica dei nostri corridoi. E io lo facevo. Proprio perché sentivo imminente e necessario (e stupido come la presenza) il congedo, definitivo, perfetto, io lo sentivo uscire, un rifiuto, un escremento duro e pesante, un brunito simulacro della copiatrice, l’io: e dava dolore vivo, ma pure un solletico, e un invito a riderne, per quanto è insostanziale e per quanto sforza, per quanto ha potuto tener su tutto con il prestigio immane della sua solitudine, della sua comodità.
Solo ora potevo vedere i fax morti, tutti compitamente insieme: e vedevo anche i loro golfi densi e terrificanti, le loro erte dentate, le loro facce di deserto e di vetta, la loro promessa; e non vedevo né sentivo più, accanto, il p e d o f i l o, se non come un calco buio, un odore, un fiato, partito, forte, vicino.
In principio ho detto: ero un funzionario; in un certo senso lo sono ancora, come si vede. Ma è un senso che non ha più alcun senso per me. Per una sola volta mi piacerebbe che qualcuno, in qualche punto dell’esistenza, in qualche angolo del Ministero, mi comprendesse: poiché disprezzo me stesso più di quanto abbia mai stimato alcunché, mi disprezzo in quanto funzionario; e che m’importa d’esser considerato ancora me stesso? Sarebbe dare importanza a chi mi consideri un fax nel terminale, o un protocollo sulla scrivania, o – che so io – un pedofilo in un vicolo.
Qualcuno mi ha fatto osservare: Certo, anche l’ultimo degli scarti del Ministero ti augurerà una buona giornata di lavoro, o magari ti andrà a fare una commissione, o ti porterà acqua se hai sete, e allora? Lo dico anch’io: e allora? È proprio questo il punto. Il punto è che il bene è desolato, o piuttosto desolante. Perché avviene così, quando non c’è altro, soprattutto quando non ci sei tu – o quando pensi di essere infilato nel tuo buco, nel buco che sei. Chi mi faceva quell’obiezione, credeva che fossi “guarito”. Io non lo sono. Ero in vacanza, e sono in vacanza. Il Ministero è tutto, certo, eppure la mia ansia, l’ansia di quando mi dicevano e mi dicevo disgraziato, non ha più nemmeno bisogno di ardere, tanto è nuda, tanto è piccola, tanto è invadente.
Ma infine chi era il mio prossimo, là, nel Ripostiglio dei Fax Guasti?

Note:


[1] L’Enciclopedia del Tempo Presente (oggi del tutto, ovviamente, riscritta) alla voce omonima spiegava: “Si dicono amanti dei bambini certi malati che vivono così costantemente sul crinale tra immaginazione e scorrettezza da finire poi disgraziatamente per cadere nella scorrettezza”.