Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 26 novembre 2013

Altre riflessioni sull'alchimia


In alcuni testi la 'sequenza' delle pietre filosofali segue quella arcaica degli elementi (legata ai 'luoghi elementari'): acqua-terra-aria-fuoco.
La pietra vegetale è collegata all'acqua: la sua preparazione è spagirico-filosofica, va assunta come medicina e utilizzata nell'opera minerale-metallica. Il lavoro propedeutico è svolto soprattutto con la rugiada e il tartaro.
La pietra minerale-metallica è collegata alla terra: l'ermetismo arabo la chiama pietra 'esterna', barrānī. Si tratta della preparazione filosofica dell'elisir minerale, in parte attraverso la prima pietra, quella vegetale. Anche qui si ottiene una medicina – dei metalli – che può essere specificata per il corpo umano.
La pietra animale è collegata all'aria: l'ermetismo arabo la chiama 'interna', jawwānī. Forse qui il 'vaso' è soprattutto interno, si tratta una forma di neidan. I prodotti lavorati all'esterno vengono fatti circolare nell'athanor del corpo, e il lapis 'interno' potrebbe essere una fisiologia illuminata, trasmutata, come quella dell'adepto taoista.
La pietra universalissima corrisponde al fuoco, al mondo angelico-celeste: l'operatore giunge all'acquisizione dei poteri magici, alla completa trasmutazione dell'essere umano, diviene adeptus, "colui che ha conseguito". In molti casi viene ottenuta senza passare per le tre tappe precedenti: è la spiritualizzazione, l'angelicazione dell'umano. Lo Spirito Universale, Ruach Elohim, è l'energia sintropica (secondo la teoria di Fantappiè, l'unica contemporanea in grado di nominare in qualche modo l'antico Spiritus Naturae), che non si può 'produrre': l'uomo può solo riceverla e coltivarla in sé e fuori di sé, nell'athanor interno e in quello esterno. L'uomo può solo produrre fenomeni entropici, di decadimento e morte: ma tramite l'epiclesi magica diventa un sacrificatore, dà morte vivificante, fa risorgere.
La chiave di tutte le pietre, che sono una, è l'attrazione di questo Spirito, la sua "corporificazione" o fissazione. Esiste un magnete per l'oro astrale, per l'energia solare, per il sale di natura presente nell'atmosfera? I fenomeni di trasmutazione, in natura e in laboratorio, a basse temperature attestano la possibilità di captare questa energia plasmatrice che si muove in direzione opposta rispetto all'entropia, alla causalità meccanica. Triturare, dissolvere, distillare e al contempo 'dinamizzare': così il ponderabile si fa ricettivo, trasparente all'imponderabile, alla quarta dimensione i cui effetti cogliamo solo come sezioni bizzarre nello spazio-tempo tripartito, entropico.
Essendo il magnete uno speculum naturae, la prova che ha assorbito lo Spirito o Sale di Natura è che su di lui-in lui cominciano a manifestarsi gli eventi di una cosmogonia, il caos si anima, la vita si genera – andando controcorrente rispetto ai fenomeni consueti, entropico-meccanici. L'alchimia è l'esoterico della profezia, secondo la gnosi sciita, perché l'Artista prepara un'ostia gnostica, dall'efficacia sperimentale-sperimentabile – di cui il rito comune serba una virtualità che solo la fede può risvegliare. La sua posizione è dunque sommamente pericolosa e decisiva: è un imam che saggia se stesso come pietra di paragone.

La pietra animale è qualcosa come il sangue di san Gennaro, una conjunctio operata nell'athanor del corpo sottile per trasmutare la fisiologia. Alla fine l'adepto diventa come quel sangue, è non-morto, si ritira nel mondo immaginale come Elia, Khidr, Idris, Gesù e il Dodicesimo Imam, vive come un guardiano dei mondi, come un agente della resurrezione.

Elia, modello degli alchimisti: la sua meditazione secondo Ibn Arabi è quella ʻunsurī, "elementare"; assume in sé progressivamente le caratteristiche dei vari regni naturali, diventa uno sciamano. Ciò può avvenire con o senza upadhi (sostegni visibili): ma poiché il suo culmine resta comunque indicibile, persino nel codice esoterico, la Pietra Universalissima dev'essere in qualche modo senza upadhi. Forse questa pietra di fuoco è il corpo stesso dell'Imam.

martedì 19 novembre 2013

Note sul racconto-cornice delle Mille e una notte



Le prime righe delle Mille e una notte sono scandite dalla rima -an, che in arabo indica il nominativo duale: il libro inizia dunque sotto il segno della dualità, del rispecchiamento, della complementarità asimmetrica. I due sovrani fratelli, Shāhzamān e Shāhrīyār, hanno avventure parallele, con esiti simili eppure inconfondibili. Entrambi manifestano l'archetipo del maschile: fragile, vincolato alla parola esterna, scritta o comunque solennizzata, del giuramento, del patto; assetato di garanzie, di puntelli, davanti alla meravigliosa mostruosità del mondo, alle profondità attraenti e inquietanti del mistero divino. Shāhzamān, “sovrano del tempo”, è il maschile sottratto al tempo, anche se già scisso, unilaterale, esiliato dall'androginia delle origini. Quando scopre il tradimento della moglie con il servo negro, la uccide: l'infedeltà viene colpita da una parola regale, legale, da una spada discriminante, e la ferita, il vulnus del mondo si richiude, l'angoscia per l'ordine minacciato, periclitante, si placa. Shāhrīyār, invece, “sommo sovrano”, non sa richiudere la ferita, che sanguinando chiede altro sangue versato: la serialità delle nozze mortali (la sposa decapitata dopo la notte della consumazione) è la ruota d'Issione della psiche del re, la maschilità tradita avvia il ciclo samsarico della violenza riparatrice che non ripara ma approfondisce le dimensioni e la gravità della piaga. Il re ha visto la donna, il mondo, la molteplicità, dall'alto del suo trono: ma cosa ha davvero colto il suo sguardo? Immondizia, infamia: una regina che si trastulla con gli schiavi, la divina Shekhinah che si compiace del fango mondano, che mostra il volto terribilmente iniziatico della prostituta gnostica. L'archetipo maschile irrigidito nell'unilateralità decapita il femminile, lo riduce a presenza corporea passiva e muta.
Colei che curerà il re e il regno è Shahrazād: l'assonanza tra i nomi è significativa ma ingannevole, perché Shāhrīyār è re (shāh), mentre la figlia del vizir è “la liberazione della città (shahr)”. Ha letto tutti i libri della biblioteca paterna, ora si fa alveo e letto di quel fiume di parole e narrazioni, portandolo nel palazzo reale, nel talamo del suo signore: ogni storia viene captata nell'aria avvolgente dell'anima comunitaria, il discorso infinito delle generazioni (“mi è giunta voce”, “si narra”). Il racconto notturno, la parola femminile, è l'opposto complementare di quella diurna, maschile: differisce la morte, traccia un labirinto, mostra una sala di specchi che alla fine si svela essere una matrice, feconda ed elusiva insieme – la māyā che crea e irretisce, che offusca e libera. Il maschile unilaterale, caduto, malato, può essere curato solo dalle amplificazioni gnostiche, dalle narrazioni che, come i midrashim ebraici, fanno parlare i vuoti della Scrittura, aprono una bocca oscura e maliosa, una radura di allusioni, nell'intrico apparentemente continuo della rivelazione profetica: così Sofia è ricollocata nella sua posizione centrale e mediatrice, la posizione dell'anima e dell'immaginazione. Ricordiamo che alla coppia dei fratelli sovrani corrisponde la coppia delle sorelle del vizir: i racconti di Shahrazād sono rivolti al re alla presenza di Dunyāzād, “liberatrice del mondo”; la parola notturna viene consegnata a un uomo, che la visione del tradimento ancora ossessiona, e a una donna che è pura testimonianza e presenza, che filtra le correnti sottili in un silenzio di per sé terapeutico, immagine di mite fermezza, di costanza e attenzione.
Alla fine il maschile, malato di unità, si riconcilia con la molteplicità femminile, con la māyā che è matrice e restituisce al mondo l'armonia di vita e conoscenza. Le nozze sono feconde, dopo tre anni di terapia notturna il regno risorge con tre figli, tre principi luminosi scaturiti dalla tenebra.

domenica 17 novembre 2013

Archetipi tra anima e spirito in Zolla e Hillman [Annotazioni]


L’anima è intermediaria, mediatrice – è prospettiva: da un lato rivolta verso l’alto (ano), al nous, alla luce dell’intelletto, dello spirito; dall’altro rivolta verso il basso (kato), alle tenebre, all’opacità di hyle, della materia: è il colore (che nasce nella tensione polare fra luce e tenebra), l’immagine.

Zolla e Hillman sono i Dioscuri del Secondo Novecento, tempo di esilio: i due volti di Hermes, amicus cuiusque segregati (amico di chiunque si sia separato dal grex, dalla mimesi sociale), i due crepuscoli, orientale e occidentale.

[L’anima]
In Zolla l’anima è uno specchio prensile, volto verso la luce del nous, è il cristallo del versetto coranico che si lascia attraversare dallo splendore dell’intelletto divino;
in Hillman l’anima è caduta (non ha subìto o agìto la caduta, è coinvolta in essa), ombra e umidità, initiator initiandus.
Tale opposizione speculare si manifesta nei rispettivi stili di scrittura-pensiero. Stile-retorica di H.: invischia, impania, illumina e fa fermentare come un vino in una botte, è uno stile misterico-iniziatico, drammatico (nel senso di drama, evento, fa accadere gli eventi). Arietino, marziale, dotato in sommo grado di vis polemica, che apre la terra (pseudoetimologia di aprilis, il suo mese natale), la via, e incita al contempo a non conformarsi alle proprie posizioni dialettiche (così anche Nietzsche).
Stile di Zolla: Luna, lucore delicato e distante, dolce e radicale, malinconia misericordiosa, l’epifania di Iside in Apuleio; cristallino e tagliente, a volte morbido, fluido, poco strutturato.

[Archetipi]
Da Platone a Jung e oltre, nell’idea e nel termine di archetipo si congiungono visione e patimento: l’archetipo è l’impronta originale da cui derivano le copie individuali, ma proprio in quanto impronta, typos, è qualcosa che è stato impresso con un colpo (greco typtein, da cui tympanon, tamburo e timpano auricolare, e typas, martello). Capitolo fondamentale di Zolla: “La percezione emotiva degli archetipi”.
In Archetipi equilibrio fra i “due” periodi fondamentali di Zolla: un equilibrio carezzevole come quello di un platonico di Persia, di un miniaturista, prima di volgersi verso il buddhismo tibetano, sciamanico-tantrico.
Zolla “zingaro” (C. Campo): francofortese radicale e libero in Eclissi dell’intellettuale, moralista adamantino e ascetico in Volgarità e dolore, antropologo e psicologo-critico culturale nei Letterati e lo sciamano, guenoniano intelligente e già presago di altri lidi in Che cos’è la tradizione, grande erudito secentesco (ma anche scienziato-poeta goethiano, cultore della Naturphilosophie romantica) nelle Meraviglie della natura. Esodo dall’Europa dei conflitti ideologici verso l’America individualista, folle, già acquariana. Archetipi scritto a 55 anni (1981), età della maturità, di Giove.
Riscopre la metafisica, la philosophia perennis, poi si volge allo sciamanesimo e al buddhismo tantrico, tibetano, al Giappone e alla sua aisthesis, alla Cina taoista.

Hillman scrive Il sogno e il mondo infero a 53 anni, nel ‘79. Nell’80, voce “Psicologia archetipica” dell’Enciclopedia del Novecento Treccani. Per lui, l’esodo è dall’America fondamentalista e sradicata verso l’Europa – un Europa continentale che sogna il Meridione, come nel Secondo Ottocento, e la Grecia, come in tutto l’Ottocento.
Dai mysteria junghiani, per lui una metafisica della psicologia o metapsicologia, emigra verso una psicologia radicale dell’immagine, della manifestazione, della necessità, del tragico, dell’arte, della comunità.

[L’Uno e i Molti, lo Spirito e l’Anima]
Zolla inizia il suo aureo libretto con l’Uno (“L’esperienza metafisica”) e termina con la Visione della Rosa. Amante ermetico, vagabondo di Sofia, insieme bhaktico e vedantico: segue Ramakrsna, il devoto della Devi che, su consiglio di un advaitin, ha tagliato in due con la spada del discernimento l’immagine della dea foggiata nella mente. Sorriso di sfinge, unione di misericordia e libertà metafisica, vuoto (shunyata): l’immagine viene coagulata e dissolta a volontà, con una percezione delicata dell’opportunità, del kairos metafisico (che il credente ingenuo scambia per opportunismo). Zolla senex torna al Daodejjing che lo aveva eletto puer, a sette anni. Il saggio-santo taoista non è tradizionalista, è anarchico, pragmatico, umile idiota di villaggio e incurante sovrano nascosto, senza vincoli di fede.
Storia del fantasticare: libro ascetico, inquisitorio, che corrode con acidi intellettuali sia la fantasticheria che la rêverie (celebrata invece da Bachelard e, più sinuosamente, da Hillman). Anche la psicoanalisi è ridotta, ricondotta all’ascesi patristica (antologia La psicoanalisi del 1960).
H. ha un approccio più affine allo zen, alla vipassana, al distacco partecipe (ironia) dell’artista romantico.

H. invita ad essere artisti della vita, daimonici. Per lui lo spessore storico – opera e setting dell’anima – conta più che per Z. – ma anche H. è ermetico, perché l’artista del soul-making è strabico, duplice, vede in trasparenza, recitando interpreta, riflette.
In H. non c’è un oltre sostanziale che unifichi la poiesis, la cosmogonia, la scena tragicomica di anima (la “base poetica dell’anima” è un terreno vivente, ed è un Un-grund, vedi frammento di Eraclito sull’anima che non ha confini): l’Uno è esperito come ciasc-uno, come epifania-di-sé, non può essere oggetto o contenuto di un’esperienza separata, privilegiata.

Centrale in entrambi il tema del destino: l’astro, astrum in homine, l’imagine del cuor. Zolla, dal punto di vista dello spirito, sottolinea l’ascesi come disciplina negativa, mentre Hillman, dal punto di vista dell’anima, sostiene che la disciplina è già implicita nei pathe, già inerente alle sofferenze di anima.

Ripresa di motivi della critica di Nietzsche. Zolla: potere, truffa del profeta, del sovrano (Blake: I must create a system or be enslaved by another man’s). Hillman: la Grecia psichica, il destino, l’eterno ritorno, il superamento del dualismo verità-apparenza, la giustificazione estetica dell’esistenza.

Cuore pulsante del libro di Zolla: Politica archetipale e Poesia archetipale. Il primo saggio dissolve duemilaseicento anni di storia occidentale, da Romolo e Remo a Yalta, in un bagno mercuriale freddissimo da cui riemergono pochi tarocchi, poche carte da gioco continuamente rimischiate. Gli archetipi che stampano il loro riflesso sul prensile specchio di anima si proiettano poi, di anamorfosi in anamorfosi, sulla scena delirante, più-che-onirica, della Storia, dove diventano cartoni ossessivi, parodie micidiali. Zolla osserva lo spettacolo con divertito sgomento, e ci consegna una sfera di cristallo mite e crudele con cui possiamo disincantarci. In Poesia archetipale mi sembra contenuto, in a nutshell, il lascito metodologico e filosofico quintessenziale del libretto: la poesia, la narrazione sciamanica primordiale, si serve del linguaggio quotidiano, comunicativo, binario, con la stessa spregiudicata misericordia che il tantrika riserva alle immagini: lo svuota dall’interno facendone una cassa armonica per dhvani, per la risonanza, per l’aura della parola, per il suo incanto essenziale e non-binario, non-duale.

[Approccio profetico-metafisico e pagano-politeistico]
Paganesimo: si vive alla luce dei molti dèi, delle intuizioni divine, mentre l’iniziazione (all’Uno) è esoterica, velata. Invece sia le religioni profetiche che la metafisica rendono essoterico l’Uno, con il rischio di letteralizzarlo: ma l’intento è costruire un recinto, un contenitore al libero gioco dell’interpretazione, dell’anima.
H. ermeneuta e fenomenologo appassionato. Z. rimane, di distillazione in distillazione, un metafisico, un sophos.
H. pagano ed ebreo: l’accostamento all’Uno, allo spirito – il mysterion – resta esoterico, velato, eventualmente negato.

Sul piano ermeneutico (psichico), spirito e anima sono due prospettive (immaginabili come parallele, o come i due serpenti che si intrecciano sul caduceo, o come due facce di una sola realtà, o in ordine gerarchico etc.). – L’anima sticks to the images (Lopez-Pedraza): lo spirito emigra dalle immagini e se ne riappropria, è intimo e distante, distaccato, è nunc stans e lampeggiamento discontinuo, sposo-signore dell’anima, creazione e distruzione.

Zolla ha ragione – gli archetipi sono messaggeri dell’Uno, e nella loro unità, nel loro insieme, sono, costituiscono l’Uno manifesto; ma l’approccio ermeneutico (psicologico) di Hillman è più discreto: l’uomo radicalmente caduto non può accostarsi all’Uno se non restando radicalmente, alchemicamente fedele alla sua caduta. Inoltre la molteplicità degli dei – dell’anima – non è riducibile all’Uno: l’Uno irraggiungibile si manifesta come molteplicità, e oltre la manifestazione “non c’è nulla” (prospettivismo, relativismo, catottrica di Corbin, degli iranici etc.).
Lo spirito in H. è l’eros a cui l’anima ritorna attraverso i suoi pathe, in un moto serpentino di caduceo, spiraliforme. Lo spirito non letteralizzato, non isolato e fissato come dogma o testo, sempre di nuovo dissolto nell’umidità mercuriale di anima, è il dinamismo stesso del fare-anima, il suo telos tutto intimo al pathos, al drama, e che pure sempre lo eccede. Psicologia poetica di H. come riflesso speculare o stampo o rovescio notturno dell’esperienza spirituale.

[Dimensione profetica di entrambi]
Sia Z. nel suo orientamento, nel suo finale esodo dall’Occidente, sia H. che, più psicologicamente, esorta a restarvi, com’è pur necessario, vigilando però sulla frontiera tra i mondi, in anima – sono due traghettatori dell’esilio occidentale, dissolvono radici abbarbicate, incancrenite, per additare il luogo in cui la coagulazione – la creazione di un nuovo mondo, che è la nuova creazione del mondo – sia di nuovo possibile.

In Z. non viene mai meno la spinta gnostica a moksha, a soteria, a rompere il tetto della casa o prigione, al chorismos, a uscire dal mondo: è il viandante di C. Flammarion [vedi immagine alla fine]. Esercizi di respirazione embrionale sul letto di morte. (Ritorno al Tao).
Ultima intervista di H.: sembra un adagio mahleriano, una meditazione di Rilke. Il pathos individuale entrato nel mito, nel logos comune di psiche, nella poiesis del mondo, dell’anima mundi, non è “guarito” o “redento”, non c’è un telos esterno – il telos è-e-non-è l’opus stesso, la poiesis, l’ermeneutica dionisiaco-ermetica di anima è infinita come in Heidegger.

[Conclusione]

Nell’incendio di Troia a Enea fuggiasco adparent numina magna deum. L’uomo della pietas, delle radici, destinato a uno sradicamento oltre il quale potrà traghettarle in Esperia (terra del Tramonto, Occidente), deve sperimentare la loro morte nella loro stessa epistrofè, deve acquisire lo sguardo doppio del mite sapiente zolliano e dell’ermetico artista/attore (hypokritès) hillmaniano.

* * *

L’approccio di Zolla alle immagini mi sembra esemplificato a meraviglia dall’aneddoto su Sen no Rikyu, il monaco giapponese che portò a compimento l’introduzione della cerimonia del tè. Un novizio gli recò in dono dei fiori, che fortuitamente finirono decapitati: i petali caddero sul tatami ai piedi del tokonoma, gli steli restarono in mano al monacello mortificato. Allora il maestro lasciò i petali sul tatami e pose gli steli in un vaso nella nicchia del tokonoma. Poi spiegò: “Quando sei entrato, i fiori erano fiori: la forma è forma. Quando i fiori si sono spezzati, non c’erano più: la forma è vuoto. Secondo la mentalità ordinaria, sarebbero potuti restare così: il vuoto è vuoto. Ma ora abbelliscono il tokonoma e la sala: il vuoto è forma”.
Sull’approccio a spirito-e-anima, credo sia esemplare l’opera di un poeta che entrambi amavano, Yeats, Sailing to Byzantium. Questa poesia celebra la fame, il bisogno senex di spirito, di un’uscita dal mondo: ma la preghiera rivolta ai saggi vigili e ritti nel sacro fuoco di Dio, la supplica di essere ammesso all’“artificio dell’eternità” (sia Zolla che Hillman commenterebbero all’infinito la magnifica espressione), è preceduta da un mirabile ritratto del corpo senile ridotto ad una giacca sbrindellata appesa ad un bastone. Come insegna Hillman nell’ultima sublime intervista, coagulazione e dissoluzione nella morte si accompagnano, sono inscindibili: così la prospettiva morbosa, la patologizzazione di anima, e l’eros spirituale che desidera cantare in un’altra aria, sul dorso del cielo.

Nel film di Weick, Zolla dice, da eccelso sincretista, che Ibn Arabi, Pico e Abhinavagupta insegnano la stessa cosa, e sanno che le tradizioni spirituali insegnano la stessa cosa, l’unum necessarium. Dal punto di vista psicologico (di anima, di Hillman), tutti loro stanno dicendo e facendo cose enormemente diverse. Eppure le dicono e le fanno proprio perché hanno acquisito la doppiezza, lo sguardo strabico dell’attore dionisiaco-ermetico, del pellegrino incantato: Ibn Arabi era, in giurisprudenza, un tradizionalista severo, Pico ammirava Savonarola, Abhinavagupta era uno shivaita devoto. Molteplicità e unità scorrono l’una nell’altra, con semplicità di colomba e astuzia di serpente (ovvero: sull’asse centrale del caduceo, sibilando e strisciando come i due serpenti, come la diade).

Qualche riflessione sul mito di Prometheus Pyrphoros





per il Conte Zarganenko

Il titano Prometeo, “saggezza anticipatrice”, colui che ha plasmato gli uomini, è la mente umana, demonica e non divina, volta al futuro e all’esterno, sognatrice della potenza per impotenza. Nel mito greco, come in quello indiano, gli dei hanno un legame di phthonos, un conflitto radicale con gli uomini, che trattano come loro bestie sacrificali o comunque fonti di nutrimento: impastati di argilla terrestre, attendono il fuoco celeste con la passività dei bruti, e uno stupore-timore ancor più essenziale. Prometeo lo ruba per loro: il suo gesto è di philanthropos, eppure danna gli uomini, come quello del serpente nel racconto ebraico della Caduta. Possessore del fuoco, della potenza divina, l’uomo espia per sé e per il cosmo: è il sacerdote, il sacrificatore universale, dà la morte, ma può darla in modo da rigenerare, da preparare la vittima mondana al fulmine che la divora, assume e trasfigura.
Prometeo trasporta il fuoco in un narthex, un fusto cavo di silfio, pianta afroditica e afrodisiaca, medicinale, abortiva: lo agitano le menadi nell’ebbrezza dionisiaca, con una pigna instabilmente confitta sulla cima. In entrambi i casi, abbiamo un chiaro simbolo dell’asse cosmico e del suo corrispettivo nel microcosmo umano, la colonna vertebrale: un’altra sua immagine è quella della canna vuota che si fa flauto, syrinx. Peter Kingsley osserva che Parmenide usa il termine syringmos, sibilo simile a quello di un serpente o di un flauto, per indicare il fischio emesso dalle ruote del carro che lo sta traendo dalle tenebre alla luce della conoscenza: si tratta probabilmente di un termine tecnico per l’avvio dell’esperienza estatica, affine al simbolo indiano del risveglio della kuṇḍalinī, l’energia divina immersa nel sonno dell’oblio e dell’inerzia, avvolta intorno alla base della colonna vertebrale.
Per essere imago Dei, l’uomo sarebbe dovuto uscire dal dilemma: attesa passiva del fuoco divino – furto del fuoco divino; avrebbe dovuto lasciare che fiorisse, sprizzasse in lui come risposta al lampo celeste, nella sua forma sensibile di luce e calore solari e nella sua forma sottile ed esoterica di spiritus mundi, agente della rigenerazione e trasmutazione dell’universo. Il divino seme di luce, secondo la dottrina pitagorico-platonica, invece di circolare liberamente nel cranio umano, manifestazione microcosmica della volta celeste, si è appesantito ed è disceso lungo i centri sottili posti in corrispondenza della spina dorsale, diventando immaginazione animale, sessuata, sul piano invisibile e sperma feccioso sul piano grossolano. La pena che Zeus impone a Prometeo è trasparente: unaquila gli divorerà ogni giorno il fegato, che però ricrescerà di notte. Il fegato è il ricettacolo della fantasia, ed ha un rilievo profetico immenso, come mostra l’aruspicina etrusca: il giorno lo divora – l’uomo, mente titanica, è scisso, il mondo dei sensi, dell’esperienza diurna lo allontana dal mondo dell’immaginazione, mentre la notte ve lo riconduce con il sogno, spezzando però la continuità della veglia.
  L’alchimista sa che la stessa cosa è accaduta agli esseri di tutti i regni della natura – animali, vegetali, minerali. Sa che il fuoco divino, lo spirito divino, è il balsamo solare che va in direzione contraria all’entropia, alla morte, è l’oro elementare sepolto come un seme in ogni cosa. Se l’uomo è in una posizione mediana e mediatrice, sacerdotale, anche attraverso il rito (la teurgia) della generazione, i minerali sono immersi in un oblio mortale, in un tamas profondo, la loro vita si è bloccata, sono simili a escrementi, ad anime contratte nel tempo e nello spazio dannati degli inferi. L’artista ermetico cerca il seme aureo, la fonte d’acqua luminosa e vivificante nascosta all’interno del metallo, così affine all’uomo e alle sue titaniche passioni: come racconta Massimiliano Palombara, l’autore della Porta Magica, nessuno riesce a trovare la grotta da cui nasce la fonte mercuriale perché la sua entrata è ricoperta di canne e di rovi. Anche qui, il fuoco divino è nascosto da e in una canna, immagine della colonna vertebrale, del flauto, del serpente sibilante. Il marchese Palombara ricorda come però, al suo passaggio, gli zeffiretti della primavera agitassero misericordiosamente le canne, consentendogli di intravedere la prodigiosa caverna. Anche qui, un fischio, una vibrazione leggera, udibile in modo sottile, segnala un sottile risveglio: la kuṇḍalinī si svolge e comincia la risalita (platonicamente l’epistrofè, il ritorno); il flauto, sospirando di nostalgia, stabilisce un legame erotico con l’unità divina da cui l’uomo è stato esiliato (nella mistica persiana il flauto, il ney, è l’anima umana che, simile ad una canna strappata dal suo canneto, lamenta l’assenza e, cantandone il lutto, la valica consumandosi) – l’energia serpentina, mercuriale, il seme solare e aureo latente nel metallo si sprigiona, risponde al richiamo d’amore, al magnetismo profondo che compagina l’universo. Come Ercole libera Prometeo dalla sua pena, dal suo samsara purgatoriale-infernale, così l’operatore ermetico, armato dei suoi strumenti e della sua volontà, della sua fede, redime il portatore del fuoco, il frammento di materia spirituale, di terra celeste crocifisso nelle solitudini della caduta.

sabato 16 novembre 2013

La diaspora della luce e la discesa del giusto. Sul ciclo Lamed Vav di Francesco Parisi





Il testo che segue è stato pubblicato nel libro: Francesco Parisi, Opere grafiche dalla raccolta del Museo dell’Opera di Guido Calori, 2013.

Or zarua‛ la-saddiq, insegna il Sefer Zohar, il Libro dello Splendore Radiante, tesoro aperto e sigillato della mistica ebraica: “la luce è stata seminata per il giusto”; la luce del Primo Giorno della creazione, inafferrabile ai sensi carnali offuscati, alle menti contratte e immiserite, è stata disseminata, dispersa per il giusto, per lo saddiq, nel mondo futuro, nel tempo dell’attesa e dell’attenzione messianica. In principio è una diaspora (una disseminazione) della Luce: la Genesi è un cammino accidentato per l’esegesi rabbinica, perché le cose prime sono un abbozzo delle cose ultime, realizzate insieme da Dio e dall’uomo, dal cielo e dalla terra, nella quotidiana teurgia dei precetti sacri.
Il giusto, lo saddiq, è infatti il pilastro che regge l’universo, che consente il dialogo tra l’alto e il basso: fra le dieci manifestazioni supreme di Dio, le sefirot, la nona è Yesod, il Fondamento, o Saddiq, il Giusto, il Benefico, il Santo. Così, nel ritmo delle generazioni, la creazione è mantenuta in esistenza da alcuni giusti nascosti, velati dalla loro umiltà, sigillati da un giuramento, da un patto eterno – Trentasei Giusti, secondo il numero simbolico che la tradizione estrae da un versetto di Isaia (1).
Il cabbalista che più amorosamente ha seguito le tracce della luce dispersa, i sentieri della sua diaspora, è stato forse Yishaq Luria. Nei suoi scritti densissimi, così simili a narrazioni gnostiche passate nel vaglio fitto e inesorabile della dialettica ebraica, leggiamo che En Sof, il Senza Limiti, il Divino anteriore a ogni determinazione, si è contratto (simsum), ha aperto nella propria infinità uno spazio vuoto (vuoto di Divino) affinché l’universo potesse esistere, letteralmente potesse aver luogo. Secondo Luria, nel seno dell’En Sof si ‘incidono’ i confini di questo spazio primordiale, il tehiru: come le lettere della Torah sul monte Oreb; come i caratteri dell’alfabeto sacro con cui Dio ha creato le cose. Il primo gesto di differenziazione, di determinazione nel Divino è un’incisione.
Con il tehiru, lo spazio primordiale, caotico, si apre la possibilità di un mondo: con il tehiru si apre la breve serie di incisioni che Francesco Parisi ha dedicato al mistero dei Trentasei Giusti, i Lamed Waw. L’immagine iniziale fa emergere con intensa sobrietà lo sfondo archetipico immutabile della turbolenta narrazione lurianica: il tehiru è circolare, caotico, femminile; è l’enigmatico tohu della Genesi, il senza-forma che lascia intravedere, in controluce, il profilo della serpentessa babilonese, Tiamat, il drago originario da cui Marduk ha tratto i cieli e la terra. La femminilità genesiaca è una diade di corpi femminili nudi, che si toccano sprofondati nel sonno indifferenziato anteriore alla parola discriminatrice e ordinatrice di Dio, al fiat da cui sprizza la luce. Ai suoi piedi, nella parte inferiore dell’abisso, striscia il drago, il serpente, freddo e umido all’apparenza, carico di potenza distruttrice – e, come Tiamat, fonte sigillata della materia che Dio e il Giusto utilizzeranno nella loro comune opera di trasmutazione e rigenerazione, l’opera che finalmente farà del mondo un cosmo, e che Luria chiama tiqqun.
Nelle tre incisioni successive, che costituiscono la serie vera e propria, il tempo dell’attesa si dispiega nei suoi momenti essenziali, mischiando e permutando un minuscolo mazzo di arcani, con una discrezione nella manipolazione degli strumenti simbolici che ne esalta l’essenziale ricchezza. Anzitutto, lo shofar, il corno d’ariete, che la tradizione ebraica fa risalire al montone rimasto impigliato fra gli arbusti del monte Moria, sostituto di Isacco sull’altare. Il corno ritorto, simile al vortice della creazione, alla spirale del tempo, apre l’anno liturgico, il rinnovamento periodico del Giubileo e quello definitivo della redenzione messianica: viene suonato per risvegliare i dormienti, i morti, ovvero le scintille della Presenza divina, la Shekhinah, sommerse nel lungo sonno della galut, l’esilio o diaspora dell’universo. L’insistenza sullo shofar ricorda l’immagine sul frontespizio di uno dei capolavori dell’ermetismo occidentale, il Mutus Liber, dove un angelo soffia in una tuba per destare Giacobbe addormentato sulla pietra – per destare le pietre della terra e trasformarle in sostanza celeste. Le incisioni di Parisi sono un Mutus Liber ridotto all’osso, una pietra graffiata nel deserto del tempo, un fossile, una scheggia della pre-eternità scagliata sull’abisso che separa e congiunge la Genesi e la Resurrezione.
I Giusti di Parisi sono anime e corpi nudi. La nudità è un segno ambiguo nella Torah: indica la privazione di gloria, la distruzione, l’umiliazione. Il verbo ‛arah, denudare, spogliare, significa anche effondere, svuotare, esporre al pericolo. Isaia dice, del Servo di Adonai, del redentore silenzioso e disprezzato, Giusto nascosto: “Poiché ha esposto nuda (he‛erah) l’anima sua alla morte” (53, 12). Secondo alcuni esegeti, è da qui che prenderebbe le mosse il paolino ekenosen, l’idea dello svuotamento, dell’annientamento volontario di Cristo. Il giusto si espone all’abisso, si denuda, è un geroglifico di carne che oscilla fra cielo e terra in una crocifissione tutta segreta, in un fluttuare di feto nel grembo del tehiru.
Lo spazio dell’attesa, tra Alfa e Omega, è un deserto: deserto come luogo della nudità e della devastazione in cui però è dato udire la Parola (midbar, “deserto”, è legato a davar, “Parola”), l’appello dello shofar. Lo shofar dei Giusti di Parisi sembra silente come il deserto, o forse risponde con un soffio rauco di anima apparentemente sconfitta al sibilo del canide immondo, la iena che irride la santità come i lesim della Bibbia, che spia gli orizzonti in cerca di cadaveri da divorare. La iena è la qelippah di Luria, il “guscio” della materia caduta dalle altezze divine: il suo corpo è ombroso, un intrico di latebre vergognose, è avvolto su stesso in una rabbia intimamente impotente. I corpi degli saddiqim sono semplici, fragili, mitemente ricettivi alla luce.
Il paesaggio del caos ha una sua eloquenza, concentrata, screpolata e indifesa come la materia di questa creazione in fieri, della creazione che è tutt’uno con la redenzione. Nelle sue piante spinose resta impigliato il seme della Luce genesiaca, come l’ariete di Abramo. Le sue pietre sono lacrime celesti coagulate, condensazione di dolore umano-divino in cui si incide un messaggio segreto e feriale insieme: una Torah di intecessioni, una sismografia di passioni e compassioni che nella loro sperdutezza vincono silenziosamente la gravità della perdizione, la meccanica della caduta.
Le tre immagini di Parisi, si diceva, compongono una triade gnostico-ermetica discreta, la cui nudità – nudità dei corpi, nudità del deserto – è velo di pudore e riserbo. Il primo momento del tiqqun, della riparazione-redenzione, è femminile: la donna sospesa fra cielo e terra è la Shekhinah, la Presenza di Dio, perché il risveglio deve partire dal basso, dalle acque inferiori della materia immersa nel suo sonno e nel suo sogno. Così nell’opera alchemica tutto parte dalla Donna, dal Mercurio. La figura femminile dell’incisione di Parisi sembra guardare la iena negli occhi: sembra voler estrarre la scintilla divina dal guscio, dalla qelippah, direttamente attraverso lo sguardo della belva, che è furente e ipnotizzata insieme.
Nel secondo momento è l’uomo – lo saddiq che è riflesso di Yesod, il Fallo divino, il Fondamento dell’universo – a richiamare l’anima, rispondendo con le volute arietine dello shofar alla curva del corpo femminile, guizzante come una lettera sacra, trasognata e veggente, in un’aria piuttosto amniotica e lunare che solare e sabbiosa. L’uomo risveglia la donna, la Shekhinah – l’Androgino comincia a ricostituirsi: l’arco che li congiunge non è il qeshet, l’arcobaleno che benedice l’alleanza divina con Noè, ma un secco arbusto piegato come il dorso di uno schiavo, e che sembra tuttavia aver conservato la flessibilità, il ricordo e la traccia dell’umidità celeste. Così, nell’alchimia, nasce il Rebis, l’Uomo-Donna, la Coppia filosofica. Qui la iena grida ancora contro la donna: come nella maledizione genesiaca, tra la Donna e il Maligno viene posto un legame perpetuo, perché la salvezza nasce dal desiderio delle acque femminili, dal ridestarsi dell’anima intorpidita, folgorata, avviluppata nel proprio oblio (2).
Il terzo momento è il più sperduto, ambiguo e decisivo. Il Giusto, nella sua androginia riconquistata, sembra precipitare sulla sabbia del deserto, dove lo attenderebbero le fauci della iena; un’ala angelica pende dal firmamento, sontuosa e pesante, ma non sembra essersi staccata dalle spalle dell’uomo cadente. Che non è dunque Lucifero, e nemmeno Icaro: ma è carico, nella sua leggerezza, del peso di maledizione proprio di ogni intercessione, di ogni espiazione vicaria (maledire, qalal, vuol dire anche ‘rendere leggero’, in ebraico). Difficile distinguere, in questo corpo che la gravità ha quasi sopraffatto, il vivo dal morto, lo saddiq della tradizione dal messia nichilista di Shabbatai Sevi, che deve e vuole confondersi con il peccato, sposare l’abisso, compiere l’inaudito. Tuttavia il Giusto non ha ali perché i giusti sono superiori agli angeli, così insegna il Talmud e ripetono tutte le religioni abramiche: gli angeli non possono discendere nella materia, non possono salvare perché non devono salvarsi. La catabasi dell’uomo è la discesa stessa della Misericordia divina, che si è contratta per creare il mondo: un abbassamento che trasfigura, una caduta che tinge di sangue le pietre, che le trasmuta. Così, nell’opus ermetico, l’ultima fase è quella del Sacrificio, della Rubedo che compie ogni fatica.
Mostrandoci la schiena, in arabo zahr, l’uomo, l’androgino, è totalmente consegnato all’apparenza, zāhir, che viene dalla stessa radice verbale: ma proprio per questo forse è attivo come mai, come il seme quando appare morto, disfatto, putrefatto, come la luce sulla soglia del Solstizio d’Inverno. Ce lo suggerisce, con una sorta di brusca e rugosa delicatezza e trafitta reticenza, il tratto di Parisi: la levità di questa caduta non è maledizione, il suo ‘quasi’ (quasi sconfitto, quasi schiantato a terra) e il suo ‘forse’ (forse redenzione, forse dannazione) sono carezza messianica, silenzio imbevuto di una vocalità segreta, come una quintessenza del grido, ancora più forte e fecondante del suono dello shofar, dell’annuncio del Grande Giubileo. Di fronte a questa caduta di misericordia la iena sembra ripiegarsi su stessa, ritornare al suo stato potenziale, annullarsi.
Il Giusto, nel suo fluttuare, nel suo precipitare, è simile ad una lettera della Scrittura Sacra, incisa sulla pietra dell’Oreb, bocca che apre la pietra graffiandola, incidendola, interrogandola: l’uomo, facendosi mediatore nell’umiliazione e nella gloria, ha voluto, una volta per sempre, essere questo segno muto, nascosto, che solo gli altri, assenti sulla scena simbolica, potranno captare, raccogliere dalle spine degli arbusti, distillare, mangiare e bere come manna. “Se volete interrogare, interrogate: ritornate, venite”, invita la sentinella di Isaia, nell’Oracolo del Silenzio (21, 11-12). A tali meditazioni ci invita, sulla soglia visionaria tra il sonno e la veglia, l’opera di Parisi, incidendo, nell’utero caotico del tehiru, l’alfabeto sacro della compassione redentrice, della giustizia occulta, leggendo nelle lettere della Rivelazione la conversione della pietra che si riga, si fende e lascia affiorare la Parola (3).

Note:
(1) “Abaye ha detto: ‘Ci sono nel mondo non meno di trentasei giusti (saddiqim) in ogni generazione su cui poggia la Shekhinah; poiché sta scritto: Beati tutti coloro che sperano in Lui (lo), Isaia 30,18. L’ultima parola ha il valore numerico di trentasei (lo=lamed waw)’” (Sanhedrin 97b). Sperare in Lui, attendere Lui, è attendere i Trentasei che lo aiutano a ricongiungersi alla Sua Sposa, la Shekhinah esule nel mondo insieme al popolo di Israele.
(2) La tradizione ebraica collega la iena all’androginia: il maschio della iena, zabua‛, una volta ogni sette anni diventa femmina. Ma si tratta piuttosto dell’ermafroditismo dell’indifferenziato, del caos, mentre l’androginia umana è realizzata proprio attraverso la differenza sessuale della coppia, attraverso la mistica dell’amplesso nuziale.
(3) “La scrittura di Elohim fu incisa sulle tavole (Es 32, 16). Rabbi Yehoshu‛a ben Lewi ha detto: ‘Non leggere incisa [harut], ma libertà [herut]’” (Pirqe Avot 6, 2).