Caro amico,
Laozi insegna
che il Cielo e la Terra (e il santo, che si conforma al loro agire scevro di
ego, wu-wei) sono privi di “umanità” (la somma virtù confuciana):
trattano le diecimila creature come i cani di paglia del sacrificio, che
durante le cerimonie vengono colmati di onori per poi finire calpestati e
gettati via come immondizia comune. In un altro passo giustamente scopriamo che
questa assenza di umanità è la suprema umanità, la bontà che discende
imparzialmente sulle diecimila creature come il sole e la pioggia del discorso
evangelico tanto amato da Simone Weil. Il punto è che il Bene è la Realtà
stessa in quanto desiderabile, in quanto meta della volontà, oggetto e
consumazione dell’amore: ma appunto in itinere, per me, è sempre
anche oggetto, e quindi anche non-bene e non-realtà. Agendo in quanto esseri
limitati non possiamo non rappresentarci il fine buono, e così facendo lo
contaminiamo: la consolazione è questa impossibilità di uno sguardo totalmente
semplice, veramente-realmente semplice. In questo senso, finché siamo in
cammino la consolazione è necessaria: ma Platone ricorda quanto siano lontane
la natura della necessità e quella del bene, con parole mille volte commentate
dalla nostra Santa degli Sradicati. Secondo la tradizione cristiana, solo Gesù
sperimentò (sperimenta) l’assenza di consolazione, nel Gethsemani e sul
Golgotha, e quindi attinge, per natura e obbedienza, la purezza massima dello
sguardo, la trasparenza perfetta nel patimento che si fa glorioso.
Quando si parla
di Provvidenza non si può non ritornare a Giobbe – almeno, io non posso farne a
meno. Ricordo ancora l’emozione che accompagnò la mia prima lettura delle
finali parole di liberazione: Ti conoscevo tramite l’udito, per sentito dire –
ma ora i miei occhi ti hanno visto – per questo mi pento e mi consolo
sulla polvere e sulla cenere. Più volte ho discusso di questi versetti con C***:
lui mi ha detto, e poi ha scritto in un suo libro, che dopo le parole sue e
degli amici, dopo l’ascolto della fede e dell’obbedienza ai comandamenti, dopo
la ribellione che si fa atto d’accusa, chiamata in giudizio, Giobbe assiste
alla brutale e rinfrescante teofania di Dio, quasi una processione
dionisiaco-eleusina di cerve, struzzi, leoni, coccodrilli (il cui silenzio –
silenzio del logos, della parola umana – è accompagnato da un verbo che
non lo viola, il verbo divino condensato in quelle maestose interrogazioni, in
quelle provocazioni regali e paterne), e vede Dio nelle sue opere, vede il
mistero della incomprensibile manifestazione divina nell’assalto del leone e
nel terrore del cervo, nella bellezza dei corpi e nella fragile perfezione
delle infinite esistenze creaturali. Io credo che abbia visto Dio coi suoi
occhi proprio in questo senso – il mistero manifesto, l’avventura
ontologica di Chesterton e il pulcherrimum nihil di Silesio – ma
che ciò vada inteso proprio come lo svelarsi della misericordia divina, la sua
Provvidenza che è la sua amorosa conoscenza di sé. Dio si guarda in uno
specchio, come Zagreo: Dio era un tesoro nascosto, e ha amato essere
conosciuto, come Allah racconta di sé nel hadith. Dio è
incomprensibilmente la maestà atroce del Leviatano e la tenerezza ancor più
atroce del vitellino che fa due passi fuori dall’utero e viene sbranato dal
Leviatano.
Ricordo anche
che l’emozione del finale del Libro di Giobbe ritornò, qualche anno più tardi,
quando scoprii quel commento vedantico a un passo cruciale della Gita: Ishvara
stesso è colui che trasmigra. Io non sono Dio, l’agnellino non è Dio, il
Leviatano non è Dio, ma questa distanza non è fuori da Dio – è la sua
trasmigrazione, la sua discesa, la sua croce. Lui mi sta di fronte nel mistero
– il mistero del suo nascondimento e della sua teofania – ma io non sono
altro che/da Lui. Questa è la semplicità dello sguardo, che nel suo senso
più forte e più alto ci è preclusa, e ci è preclusa proprio perché ci fonda, ci
costituisce. Noi siamo solitamente inconsapevoli del respiro, e quasi
ininterrottamente della vita vegetativa del corpo, e delle motivazioni profonde
del nostro agire: infinitamente di più lo siamo di ciò che è semplice,
l’essere, il nostro radicamento in Dio, quella provvidenza per cui abbiamo
voluto essere chi siamo e ad ogni istante rinnoviamo la ribellione, l’oblio, la
distanza da quell’assenso originario di cui parla il Corano.
Semplice è
Giobbe: semplice è Gesù che grida di dolore nella totale conformità al proprio
destino divino. Semplice è anche (senza però esser passato per il crogiolo
della doppiezza e della costruzione delle proprie maschere) il bambino molto
piccolo, che protesta ed esige e piange e ride senza porsi di fronte al proprio
fondamento, senza trattarlo come un oggetto, senza mettere in dubbio la
trasparenza angelica dell’universo. Semplice è chi sa che tutto ciò che accade
gli appartiene, lo riguarda, e se si rappresenta una provvidenza, una meta
buona e assoluta, è consapevole che occhio non vide e orecchio non udì quel che
ci attende, quel che già è in ogni istante della nostra esistenza. Semplice è
chi non confonde: per questo maestri di semplicità sono gli ebrei, che litigano
con Dio per amore e per diritto di nascita. Semplice è chi dice, come Gesù
sulla croce, Ho sete quando ha sete: che non costruisce teodicee per
giustificare Dio, come gli amici di Giobbe, e non idolatra neanche il mistero,
l’onnipotenza di Dio, perché Ishvara stesso è colui che trasmigra.
P.
S. Quasi tutti gli eventi della vita di Simone sono sfiorati da un velo di
comicità tenera e terribile, come l’ala delicata e ben costrutta di un insetto
bellissimo. Penso a quando, durante la famosa vendemmia nel contado francese,
ospite di un amico cattolico, lavava i piatti (lo faceva come se stesse
manipolando gli strumenti liturgici nella proskomidia bizantina, ed era
un metodo assai lento e assai inefficiente) e parlava di Dio: “In cielo avremo
tutte le perfezioni”. L’amico le rispose ridendo: “Quindi mia moglie sarà
intelligente e tu saprai lavare i piatti”. Si prese un solennissimo schiaffo.
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