Provo a rileggere Parmenide attraverso Florenskij e Wittgenstein (che strana coppia! E che ancor più strana triade!).
Il reale è l’esistenza, l’Uno-Tutto. Le idee-archetipi sono i possibili (universali e necessari), che la mente umana astrae dal continuo dell’esistenza. Dalla prospettiva umana, i possibili (idee) sono più reali del continuum materiale e della percezione particolare, che pure sono simboli della concretezza ultra-noetica e ultra-possibile (il plotiniano Uno). L’atomismo delle forme si è imposto come soluzione filosofica delle aporie zenoniane (-parmenidee) sull’Uno-Molti, il vuoto fisico come risposta all’enigma del non-essere e del continuo. Ma perché l’Essente parmenideo è stato presentato come un’astrazione, come una sorta di gioco di prestigio mistico-filosofico? (È una questione affine a quella del Vedanta). La sfera-uovo è piena di contenuto, non è un grande guscio formale! (O meglio, c’è anche una parte formale, logico-categoriale, dell’insegnamento parmenideo, ma la pessima tradizione del testo, e la non migliore ricezione, ha forse spinto alla confusione tra i diversi piani). Per scoprirne il contenuto, credo sia opportuno ricorrere allo sguardo fenomenologico – un po’ come fa il buddhismo Mahayana, che però ha un logos troppo culturalmente-spiritualmente distante. Del resto, le “due vie della dizesis (della ricerca razionale, del logos-discursio)” non possono essere applicate ad ogni noema, ad ogni conoscenza intenzionale (diciamo così)? “Tutto è in tutto (in tutte le cose)”, l’intuizione anassagorea-ermetica non può essere una chiave dell’essere parmenideo? Ogni eon come manifestarsi concreto di tutto l’eon: la sfaira di Aletheia (la Manifesta) come quarta dimensione realizzata in ogni nostro atto di vita-conoscenza (la sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte – una sorta di coincidentia tra gli opposti dell’infinito e del finito, un infinito attuale?). Ma è davvero possibile leggere in questo modo i frammenti parmenidei? La comprensione del nous fa già problema: credo che per superare il ‘mentalismo’ post-rinascimentale il ricorso a Wittgenstein sia indispensabile, o quasi.
Il noein come il ‘pensare’ di Wittgenstein, l’uso normativo di simboli? In effetti il nous è sim-bolico, rende (riconosce come) reciprocamente presenti (pareonta) i lontani (apeonta), realizza (il pensare come fare!) la continuità dell’Uno-Tutto come Uno-Molti (eon tou eontos echestai). L’eon è dunque il simboleggiato (ouneken esti noema) all’interno del quale accade il nous-noein che lo realizza riempiendolo di contenuto (ou gar aneu tou eontos... eureseis to noein – to gar pleon esti noema). Ma cosa può garantire l’identità di noein ed einai se non la giustizia, dike-ananke-aletheia, la stipulazione universale (la berith ebraica, il mithāq coranico) in sé vuota, nel senso che è manifesta solo nelle particolari espressioni culturali umane (il noema riempie l’einai)? Si obietta: ma allora come fondare questa idea di un tutto limitato, di un insieme di tutti gli insiemi, di un universo che è immanente a tutti gli universi e tutti li trascende? Qui il finitismo di Wittgenstein avrebbe di che demolire: si tratterà di un’intuizione mistica che non può entrare nel logos se non nel modo normativo-legislativo, profetico, dell’annuncio parmenideo?
Il nous si rende presente (paristatai) all’uomo come la crasi simbolica delle sue membra molteplici: è un vedere come, uno sguardo simbolico-organico. La meleon physis è ciò che rende l’uomo-microcosmo connesso al macrocosmo (vedi Florenskij sul corpo)?
Importante: il nous, interno all’eon, in quanto attività, noein, lo realizza-riempie. La dea incontrata da Parmenide giovinetto (kouros) è forse Afrodite, che congiunge simbolicamente i sensi al simboleggiato, alla platonica idea?
L’eon come “il mistico” di Wittgenstein? Non può essere detto, ma mostrato – eppure chren to legein eon emmenai... Forse il pensare e il dire appunto mostrano (rivelano) il Tutto-Essente, e il non-senso della filosofia (e della poesia) è l’esperienza-limite, il gioco-limite segnato dalla mania. Il pensare e il dire non comprendono-oggettivano il Tutto-Essente, ma lo rivelano – e il pensare-dire della poesia e della filosofia possono rivelarlo caricandosi della paradossalità del limite-confine. La filosofia, per non farsi ‘metafisica’ (nel senso heideggeriano-wittgensteiniano di super-fisica), può entrare nello spazio aperto dalla (della) poesia, farsi esegetica-dialettica alla luce della poesia – e del linguaggio comune.
Poiché il “mistico” di Wittgenstein è così affine al timore-stupore che riconosce la creazione (e che secondo la Bibbia è il principio della sapienza, reshit chokhmah), l’essere di Parmenide può essere forse riletto alla stessa luce: non la luce della creazione, però, ma quella che illumina la Manifestazione orfica librata sulla Notte principiale.
Il reale è l’esistenza, l’Uno-Tutto. Le idee-archetipi sono i possibili (universali e necessari), che la mente umana astrae dal continuo dell’esistenza. Dalla prospettiva umana, i possibili (idee) sono più reali del continuum materiale e della percezione particolare, che pure sono simboli della concretezza ultra-noetica e ultra-possibile (il plotiniano Uno). L’atomismo delle forme si è imposto come soluzione filosofica delle aporie zenoniane (-parmenidee) sull’Uno-Molti, il vuoto fisico come risposta all’enigma del non-essere e del continuo. Ma perché l’Essente parmenideo è stato presentato come un’astrazione, come una sorta di gioco di prestigio mistico-filosofico? (È una questione affine a quella del Vedanta). La sfera-uovo è piena di contenuto, non è un grande guscio formale! (O meglio, c’è anche una parte formale, logico-categoriale, dell’insegnamento parmenideo, ma la pessima tradizione del testo, e la non migliore ricezione, ha forse spinto alla confusione tra i diversi piani). Per scoprirne il contenuto, credo sia opportuno ricorrere allo sguardo fenomenologico – un po’ come fa il buddhismo Mahayana, che però ha un logos troppo culturalmente-spiritualmente distante. Del resto, le “due vie della dizesis (della ricerca razionale, del logos-discursio)” non possono essere applicate ad ogni noema, ad ogni conoscenza intenzionale (diciamo così)? “Tutto è in tutto (in tutte le cose)”, l’intuizione anassagorea-ermetica non può essere una chiave dell’essere parmenideo? Ogni eon come manifestarsi concreto di tutto l’eon: la sfaira di Aletheia (la Manifesta) come quarta dimensione realizzata in ogni nostro atto di vita-conoscenza (la sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte – una sorta di coincidentia tra gli opposti dell’infinito e del finito, un infinito attuale?). Ma è davvero possibile leggere in questo modo i frammenti parmenidei? La comprensione del nous fa già problema: credo che per superare il ‘mentalismo’ post-rinascimentale il ricorso a Wittgenstein sia indispensabile, o quasi.
Il noein come il ‘pensare’ di Wittgenstein, l’uso normativo di simboli? In effetti il nous è sim-bolico, rende (riconosce come) reciprocamente presenti (pareonta) i lontani (apeonta), realizza (il pensare come fare!) la continuità dell’Uno-Tutto come Uno-Molti (eon tou eontos echestai). L’eon è dunque il simboleggiato (ouneken esti noema) all’interno del quale accade il nous-noein che lo realizza riempiendolo di contenuto (ou gar aneu tou eontos... eureseis to noein – to gar pleon esti noema). Ma cosa può garantire l’identità di noein ed einai se non la giustizia, dike-ananke-aletheia, la stipulazione universale (la berith ebraica, il mithāq coranico) in sé vuota, nel senso che è manifesta solo nelle particolari espressioni culturali umane (il noema riempie l’einai)? Si obietta: ma allora come fondare questa idea di un tutto limitato, di un insieme di tutti gli insiemi, di un universo che è immanente a tutti gli universi e tutti li trascende? Qui il finitismo di Wittgenstein avrebbe di che demolire: si tratterà di un’intuizione mistica che non può entrare nel logos se non nel modo normativo-legislativo, profetico, dell’annuncio parmenideo?
Il nous si rende presente (paristatai) all’uomo come la crasi simbolica delle sue membra molteplici: è un vedere come, uno sguardo simbolico-organico. La meleon physis è ciò che rende l’uomo-microcosmo connesso al macrocosmo (vedi Florenskij sul corpo)?
Importante: il nous, interno all’eon, in quanto attività, noein, lo realizza-riempie. La dea incontrata da Parmenide giovinetto (kouros) è forse Afrodite, che congiunge simbolicamente i sensi al simboleggiato, alla platonica idea?
L’eon come “il mistico” di Wittgenstein? Non può essere detto, ma mostrato – eppure chren to legein eon emmenai... Forse il pensare e il dire appunto mostrano (rivelano) il Tutto-Essente, e il non-senso della filosofia (e della poesia) è l’esperienza-limite, il gioco-limite segnato dalla mania. Il pensare e il dire non comprendono-oggettivano il Tutto-Essente, ma lo rivelano – e il pensare-dire della poesia e della filosofia possono rivelarlo caricandosi della paradossalità del limite-confine. La filosofia, per non farsi ‘metafisica’ (nel senso heideggeriano-wittgensteiniano di super-fisica), può entrare nello spazio aperto dalla (della) poesia, farsi esegetica-dialettica alla luce della poesia – e del linguaggio comune.
Poiché il “mistico” di Wittgenstein è così affine al timore-stupore che riconosce la creazione (e che secondo la Bibbia è il principio della sapienza, reshit chokhmah), l’essere di Parmenide può essere forse riletto alla stessa luce: non la luce della creazione, però, ma quella che illumina la Manifestazione orfica librata sulla Notte principiale.
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