Hai mai letto Lao-tzu (oggi si traslittera Lao-zi)? I suoi enigmatici
aforismi sono stati utilizzati da tutte le scuole filosofiche e politiche della
storia cinese, al di là dei contrasti ermeneutici spesso irriducibili: ma è
forse possibile estrarne una quintessenza, un fondamento comune alle
interpretazioni a volte opposte. Il popolo non può essere governato, si governa
da sé: segue le consuetudini, è un’aggregazione di comunità piccolissime che
non hanno desiderio di espandersi o conoscersi reciprocamente, non bisogna
proporgli grandi premi o minacciarlo di grandi punizioni, non è opportuno
esaltare la grandezza e la virtù; la sua vita scorre anonima, il suo
radicamento va lasciato essere, non manipolato dall’alto, dall’ideologia di una
élite. Eppure il perno del discorso
di Lao-zi resta l’Impero: l’impero però non è lo stato, il centro esibito di
una compagine, la fonte luminosa accecante che si fa via via più fioca verso la
periferia. No, l’impero è un centro invisibile, un magnete simbolico: Lao-zi lo
paragona ai vasi sacri dei riti, non lo puoi usare, non lo puoi manipolare. Né
l’impero usa e manipola il popolo: lo lascia vivere, e così facendo lo governa,
come il mozzo vuoto è il centro dinamico della ruota.
Perché ti parlo di questo strano rebis
orientale, mezzo imperiale e mezzo anarchico? Perché mi pare che racchiuda
alcuni spunti per ripensare l’anarchia nel senso di Ellul e di tutti gli
anarchici non ideologici. Lo Stato non coincide con la convivenza umana: è
un’invenzione che ha una storia, probabilmente è anche un male necessario.
Male, ma necessario. Ammettiamolo. La convivenza umana non è un’aggregazione di
individui, un universale astratto che mette insieme degli esseri concreti: è
qualcosa di essenzialmente culturale, appartiene radicalmente all’uomo come
animale simbolico prima che politico. L’homo
sapiens non può mangiare neanche una noce senza inserire il suo gesto in un
contesto simbolico, cioè culturale, cioè sociale-comunitario. Quindi, la
dimensione sociale-comunitaria esiste da sempre (almeno, da quando c’è l’uomo):
lo Stato no. Lo Stato è esso stesso un’invenzione culturale, ma appartiene più
alla storia della tecnica che a quella della cultura: è un modo per gestire
forme di convivenza complesse e nasce dalla guerra, dall’esigenza di tenere
insieme più gruppi e comunità conquistati da uno stesso signore o clan. Sorge
così la politica come tecnica di gestione: mentre l’istinto
politico-associativo in senso forte, come ti dicevo, è coetaneo dell’homo sapiens.
Lo Stato è un po’ come i vestiti: non sapremo mai se li abbiamo inventati
perché avevamo freddo o se abbiamo freddo perché li abbiamo inventati (l’uovo e
la gallina): quel che è certo è che segnano la nostra ambigua distanza da una
(immaginata) condizione primordiale. La cultura è un po’ come il corpo: cambia
nei millenni, ma cambia persino meno, visto che i miti del 10000 a.C.
reggeranno le vicende degli uomini anche nell’apocalittico (per te) 2050 d.C.
La cultura del ‘politico’, la cultura della società, funziona sempre nel
concreto, quasi seguendo proporzioni pitagoriche: oltre certi numeri non ha più
senso, come la struttura del corpo animale. Per questo la società, le società,
le confraternite, i gruppi etc. non si estenderanno mai fino a coincidere con
l’intera massa di uomini viventi sotto un unico potere statale (figuriamoci con
l’umanità intera). Questo profeti ed esoteristi lo sanno, ma non
razionalizzano: di qui il messianismo dei primi e la scepsi dolorosa e
illuminata dei secondi. Cercare di costruire la comunità perfetta è
l’errore-crimine degli utopisti ideologici: la comunità non si può costruire,
non è un vestito, è un corpo. Nasce, non è prodotta: è il vaso sacro di Lao-zi,
non il vaso che usiamo per le faccende domestiche.
Ma la violenza, i crimini? Ma la polizia? In teoria se ne potrebbe fare a
meno, come dei vestiti: un uomo ben allenato potrebbe magari vivere nudo sulle
nevi dell’Himalaya, fondare una comunità nudista, d’accordo; ma è difficile
pensare che possa trascinare con sé sei miliardi di persone. In pratica, la
violenza del governo è ineliminabile come la violenza dei governati: abbiamo
bisogno dei vestiti, anzi dell’armatura. Ma questo dice qualcosa di definitivo
contro l’ideale di comunità libere dalla coercizione e dallo Stato? Un ideale
dev’essere o irrealizzabile e quindi da scartare come una fantasticheria o
realizzabile e quindi da realizzare per forza, negando se stesso? Non credo: se
leggiamo i testi e le immagini antiche secondo molti livelli, perché non
dovremmo farlo con la vita quotidiana, che è il libro dei libri? Noi camminiamo
su una corda: questo è l’uomo, la cultura, il simbolo; non abbiamo i piedi per
terra. Tutto ciò che siamo e facciamo è imperfetto. Qualunque democrazia,
diretta o rappresentativa, è soggetta agli stessi rischi di qualunque altro
regime: anzi, a rischi molto maggiori.
Immagino un’obiezione: Va bene, questi anarchici messianici o saggi
accettano lo Stato come Platone accettava di vivere in un corpo; ma all’interno
della comunità anarchica come si comportano con le violenze e gli altri difetti
umani, in mancanza di poliziotti e tribunali? Risposta: mi sembra un problema
mal posto. L’anarchico non è costretto a pensare, con Rousseau, che gli uomini
siano naturalmente buoni: se anarchia significa questo, la condanno
come una pericolosa follia. Ma né Ellul né gli altri miei eroi dicono una cosa
simile. Nelle comunità bisognerebbe tendere all’ideale come si manifesta, ad
esempio, in alcune regole monastiche: se penso all’altro non come a un
associato in un ipotetico contratto collettivo, ma come a un fratello, in
analogia con una vita familiare liberata da ogni condizionamento passionale
(nevrotico), la sua prevaricazione mi farà soffrire molto di più, ma non mi
verrà in mente di sanzionarla con una controreazione violenta. Se il fratello
minaccia l’intera comunità con la sua ostinazione lo tratterò – in modo
necessariamente imperfetto, umano – come si cerca di trattare un familiare che
mette a rischio l’intera famiglia: con fermezza, ma in modo personale,
flessibile, senza applicargli una norma astratta attraverso un potere delegato
e impersonale (o incarnato nella persona simbolica del re-padre-pastore). Anche
il più poetico amante della natura si difende dall’assalto di una tigre: ma
evita di ucciderla per partito preso, se non è inevitabile. È un parametro
ovviamente incodificabile, oscillante: ognuno può vederci ciò che vuole, e
questo è un rischio. Ma è il rischio della convivenza umana.
Cerco di spiegarmi altrimenti. Io ritengo la nonviolenza, in quanto
principio astratto, irrealizzabile e assurda. È una questione analoga alla
seguente: “È doveroso attenersi al vegetarianismo?”. Rispondo di no. Se poi tu
concludi: “Allora possiamo mangiare carne tranquillamente”, io mi sento di
obiettare: Amico, questo è un paralogismo. Non possiamo dimenticare che cosa
facciamo agli animali nei nostri mattatoi (e alle piante con le nostre
colture): non possiamo dimenticare che non siamo cacciatori-raccoglitori del
Neolitico. Ora, questo discorso sembra una chiosa teorica, perché non ha
apparentemente ricadute pratiche. Ma non è così: appartiene a una terra di
mezzo tra l’ingegneria politica e la speculazione astratta; appartiene alla
dimensione culturale-politica, quella dell’agorà
nel senso greco del termine. Torniamo alla cosiddetta “nonviolenza”. Simone
Weil, che si era accostata all’ahimsa
come ideale del pensiero religioso indiano e come teoria e pratica politica del
movimento di Gandhi, criticando un responso del Mahatma fece un’osservazione
importante: “La nonviolenza non serve a nulla se non è efficace”. Niente
ideologia: eppure Simone Weil, di fronte alla violenza, aveva la sensibilità e
la visione di una catara.
Il mio discorso voleva essere un discorso culturale, non di ingegneria
politica. Ovviamente un certo uso della forza, fisica o psicologica, magari
limitandola per quanto possibile al suo ruolo di deterrente, è ineliminabile
dalla convivenza umana concreta. Non pertanto accetterò questa conclusione del
sillogismo: “Dunque teniamoci la polizia, non abbiamo scelta”. No, io non sto
parlando di ricette politiche, come non sto parlando di una morale universale,
kantiana: non sto proponendo di organizzare ronde o di riabilitare la vendetta
individuale o di gruppo. “Allora cosa stai facendo? Cosa proponi?”. Propongo di
fare l’esperienza di comunità in cui l’uso della forza sia sottoposto a
un’attenzione continua, ascetica. In un rapporto d’amicizia, ad esempio,
viviamo una forma di equilibrio e libertà impossibile in un rapporto erotico,
in un rapporto contrattuale e in un rapporto mediato da organi statali. Perché
non intendere questo rapporto, secondo la metafora sapienziale evangelica, come
lievito della pasta sociale? Senza pretendere che la pagnotta si gonfi quando
vogliamo noi: senza sperare in risultati. Questa è la cultura: questa è la
politica intesa come manifestazione dell’istinto politico innato, animale
(l’uomo come animale politico). Non a caso, per greci, latini e indiani (ma
anche ebrei, musulmani...), ogni comunità, ogni cultura, si fonda sull’amicizia:
perché solo nell’amicizia l’everyman sperimenta quella libertà. Per questo i
pitagorici dicevano che l’amicizia è un’uguaglianza armonica (non aritmetica:
un’uguaglianza di rapporti, non un’omologazione reciproca).
Bene, se leggi Ellul, Illich e Castoriadis (ti cito i tre che preferisco, e
sono molto diversi tra di loro), trovi qualcosa di simile. Niente ingegneria
politica, niente ricette: ma l’alternativa non è la passività o il terrorismo o
la speculazione pura. Forse, anche stavolta, siamo più d’accordo di quanto non
sembri: forse la tua democrazia diretta non è dissimile dalla
mia anarchia solidaristica o partecipativa. Entrambe le denominazioni
hanno i loro punti di forza e i loro punti deboli, come ogni denominazione:
dire ‘democrazia diretta’ esclude che si tratti di un caos atomistico, ma dire
‘anarchia partecipativa’ vuole indicare che ci sono istituzioni della
democrazia rappresentativa che ostacolano la democrazia diretta e istituzioni
della democrazia diretta che non esistono, se non svuotate di senso (vedi il
referendum), nella democrazia parlamentare o rappresentativa.
Rispondo brevemente alle tue obiezioni:
1 – Non vorrei fare l’elogio delle milizie popolari, visto l’uso
strumentale che ne hanno fatto i totalitarismi, ma la delega della violenza
difensiva a un corpo speciale non è una buona soluzione: anche perché è un
sintomo della stessa malattia della democrazia che ha finito per delegare la
funzione governativa ad appositi esperti. Aristotele diceva che buon cittadino
è quello che sa sia essere governato che governare: questo è l’ideale
democratico classico. Uno dei corollari è che la democrazia diretta è una
democrazia militante, in armi, anche se idealmente solo per fini difensivi.
2 – Se la delega dell’uso della forza immediata a un corpo speciale può
essere discussa, la delega del potere giudiziario a una casta di magistrati è
contraria allo spirito democratico, che prevedeva una rotazione delle cariche
per sorteggio. Ciò implica che il cittadino sia davvero “libero” e autosufficiente
nel senso antico, e non un suddito o un bambino ignorante: e ciò a sua volta
implica la paideia, cioè una cultura
civile. (Questo spiega perché oggi la democrazia diretta, restando così le
cose, è impensabile).
3 – Io utilizzavo l’immagine cristiana della correzione fraterna, ma la
questione non cambia, tanto più che, nonostante il monito di Gesù, i cristiani
chiamavano “padri” i superiori dei cenobi, i vescovi e in generale i “pastori”
del “gregge”. C’è sicuramente un elemento di forza e coercizione nel rapporto
tra superiore e inferiore, cioè tra iniziatore e iniziando, visto che
quest’ultimo non conosce la meta e il primo sì: ma proprio per questo
l’iniziatore si carica del peso della forza, e anche dell’inganno, e lo fa
esclusivamente per far arrivare il “figlio” dove lui (en principe) è già. Più che un deterrente psicologico, così, la
forza, l’imposizione etc. diventano – possono diventare – uno strumento di
fraternità: “tu puoi arrivare qui dove sono io perché in fondo già ci sei”.
Senza questo “segreto” d’amore, è un gioco al massacro reciproco.
Non esistono, ripeto, né ricette, né una morale universale. Lo dice Paolo
nel passo forse più nietzschiano e terribile del Nuovo Testamento: “Tutto mi è
lecito: ma non tutto mi giova”. Dipende da dove vogliamo andare: la
spiritualità è amorale, pragmatica.
Alla maniera degli ebrei, ti rispondo con una domanda: tu cosa faresti se
tuo figlio, se tuo fratello si macchiasse dei crimini di cui parli? Lo
puniresti, certo: ma con lo stesso spirito con cui si punisce un estraneo a cui
si è legati da un contratto sociale? E allora avrebbe senso dire che si tratta
dello stesso universale, “punizione”, in due delle sue forme particolari? “Ma
che il cittadino-magistrato corregga il reo con affetto e misura, o che imponga
di squartarlo con teatrale lentezza, sempre di PUNIZIONE si tratta”. D’accordo:
proviamoci, e vedremo se è davvero lo stesso. Gesù ha consigliato di usare la
moneta romana, il denario, solo per pagare il tributo a Cesare, in modo da
restituirla a colui che l’aveva coniata: c’è qualcuno che ci ha provato? Se lo
facesse una comunità intera, di media grandezza, potrebbe crollare tutta
un’economia mercantilista o capitalista. Cosimo de’ Medici diceva che non si
governa “co’ paternostri”: ci aveva provato?
Non so se mi spiego: forse non molto bene. Inizia a pensare il delitto e il
delinquente in modo diverso: chi sono io? Chi è lui? Un personaggio di
Dostoevskij dice che “ciascuno di noi è colpevole di fronte a tutti per ogni
cosa”: proviamo a darlo per buono solo un attimo. “Ma uno non può vivere una
vita normale se pensa una cosa simile”. Perché? Siamo nati per vivere una vita
normale? Che cos’è una vita normale: bruciare gli eretici, arrotare i banditi,
respirare smog con nonchalance, andare a votare i partiti politici nel 2010,
ricoprirsi di gadget e vagare come spettri tra spot e rifiuti nel 2050? I
cambiamenti politici, giuridici, tecnici etc. – insomma, tutto ciò che è
pratico – sono sempre stati la conseguenza di ideali impossibili sperimentati
in una, in due, in cento vite quotidiane.
Continuiamo a parlare due linguaggi diversi. Io non sto facendo un discorso
contro la polizia e lo stato come struttura che garantisce ordine e difesa: sto
proponendo di fare esperienze marginali che aiutino a vedere le fondamenta
dello stato in trasparenza. Non mi sogno di dire, ex abrupto: fate a meno della polizia, della magistratura etc.,
perché una volta che le persone hanno accettato di convivere a un certo patto,
in un certo modo, l’ordine e la sicurezza non possono che essere garantiti in
un certo modo e a un certo patto. Per tornare all’analogia col consumo di
carne: se dico: “Bisognerebbe tornare a un modo diverso di macellare, i
mattatoi di oggi sono lager, anestetizzano nei confronti della violenza che
facciamo agli animali”, uno potrebbe obiettarmi: “Ma come potresti garantire
tutta la carne richiesta senza far uso di strutture fortemente meccanizzate
etc.?”. E continueremmo a dialogare tra sordi, come io e te da giorni. Ma la
chiave di questa reciproca incomprensione è il livello diverso dei nostri
discorsi: il mio ipotetico interlocutore parla di “carne richiesta”; certo, se
il sistema nel suo insieme rimane inalterato, è normale e necessario che
restino inalterate le sue componenti, i suoi dettagli. Ora, il mio suggerimento
va proprio nella direzione opposta, ma senza intervento politico diretto:
mettere in discussione ciò che sembra naturale e scontato, mostrare con uno
stile di vita particolare che lo stato come lo intendiamo noi oggi non è un
fatto di natura, ma un atto storico, magari al momento inevitabile e
insuperabile – o magari per sempre, chi lo sa. Non metto in discussione che un
corpo comunitario, come qualsiasi corpo vivente, abbia la necessità di usare la
forza per difendersi dalla violenza esterna: quest’uso della forza non è
neanche violento, è una conseguenza dell’individuazione animale. Non metto
neanche in discussione che la comunità debba difendersi dalla violenza, dalla
violazione interna usando non le armi di Marte ma quelle di Atena: il
procedimento giudiziario, la cui origine magica e ordalica non verrà mai
completamente bonificata dalle istanze razionali (e infatti le Erinni hanno un
posto, un posto ambiguamente onorato, nella democrazia). Quello che dico è:
siamo sicuri di ricordarci perché abbiamo fatto questi passi? Siamo sicuri che
questo equivalga a dire che esiste un centro del potere e della forza deputato
a garantire sicurezza e ordine al corpo sociale? Non è questo un modo per
deresponsabilizzare sempre di più l’uomo libero facendone un suddito? Certo che
tutti vogliamo che lo stupratore e l’avvelenatore di pozzi vengano smascherati,
privati della libertà di infliggere il male, sottoposti a giudizio: ma lo
vogliamo solo per la sicurezza, per l’ordine? Una volta punito il reo, la
ferita inferta al vivo tessuto comunitario è ancora aperta? Il reo non è una
mela marcia da gettare via, è un fratello, carne della mia carne, che ha
stuprato mia, sua sorella, che ha avvelenato il pozzo dei suoi, dei nostri
padri. Se intendiamo la giustizia come semplice igiene sociale delegata a un
centro statale, non ci riempiamo di rifiuti psichici come il mondo del Golem di rifiuti tecnologici? Questo
dico: e non lo dico io, è l’argomento delle tragedie attiche, dei romanzi
ottocenteschi. Non chiedo l’abolizione della polizia e della magistratura
professionale: chiedo di provare a pensare le cose in modo diverso; e l’unico
modo per farlo è sperimentare, per quanto possibile, una forma di vita
comunitaria in cui il bisogno di riparazione, di sicurezza, di vendetta sia
sottoposto a una continua revisione spirituale, come in un matrimonio, come in
una famiglia, dove i problemi non ti spingono a cercare soluzioni finali
chirurgiche ma a rinnovare quotidianamente il senso del legame originario. Lo
so che Foucault non ti piace, ma anche lui fa un’operazione simile alla mia
riguardo al sistema disciplinare moderno: non dice “aboliamo la detenzione come
unica forma di sanzione democratica”, ma: com’è nata a un certo punto l’idea
che i delitti potessero essere puniti solo imprigionando il reo e che il
controllo sociale fosse la condizione necessaria per l’armonia civile, per una
convivenza pacifica? Un’idea che non c’era nel 1500, che non c’era ai tempi di
Alessandro Magno o di Assurbanipal, nonostante la loro politica già
imperialistica e asservitrice.
Detto questo, io sono l’unico del mio condominio che ha chiamato i
carabinieri per segnalare un violento litigio nella palazzina di fronte,
litigio in cui si minacciavano coltellate e spargimenti di sangue. Non sono un
anarchico da centro sociale, nonostante le brutalità poliziesche non ho mai
detto scemenze come “la polizia è fascista”. Penso che la questione sia molto
più profonda e radicale, e vada quindi affrontata a quel livello di radicalità
e profondità. Penso che la saggezza sia inseparabile da un certo anarchismo
intelligente: quello che fa ad esempio dire a Collodi che il derubato finirà
necessariamente in galera e poi, per ottenere l’amnistia, dovrà farsi passare
orgogliosamente per delinquente. Tutto questo senza borbottare contro tribunali
e polizia, o proiettare i propri infantilismi rivoluzionari in un futuro
apocalittico sempre rimandato: ma dicendo: “Bisogna restituire a Cesare ciò che
è di Cesare”. Restituire, non dare, nelle parole di Gesù.
Immagina una comunità
simile a quella radicale da te immaginata, che però non abbia neanche un fine
politico in senso stretto, ma intenda solo testimoniare il proprio stile di
vita, sperando in un contagio progressivo all’interno del popolo. C’è chi
caccia, chi coltiva: c’è divisione del lavoro, ma ridotta all’indispensabile.
Ci si difende dai pericoli esterni coinvolgendo il maggior numero di persone
possibile. Si affrontano i pericoli interni convocando consigli, eventualmente
con consultazioni separate se c’è qualche sospetto. Ecco, mi dirai, l’embrione
dell’esercito, della magistratura, della polizia. Che cosa cambia?
L’essenziale, direi. Non vedi la differenza tra una ronda del XV secolo e l’uso
onnipervasivo della polizia che si fa dal XVII secolo più o meno, cioè
dall’affermarsi dell’assolutismo? Sempre di polizia si tratta: eppure in un
caso abbiamo azioni puntuali, nell’altro un sistema. Così lo spionaggio c’è dai
tempi della teocrazia egizia e dei regni sumeri, ma una democrazia non può fondarsi sul
segreto come nell’ideale massonico e nella Guerra Fredda. Da diversi secoli la
polizia non serve ad arrestare lo stupratore, ma a garantire un ordine politico
e ideologico: più o meno come l’atmosfera ecologista di uno spot di oggi non
serve a farti diventare un seguace di Thoreau ma a farti comprare uno shampoo.
Tra l’altro il fatto che il popolo senta come nemici principali gli stupratori,
oggi i pedofili, i terroristi e i microcriminali stranieri mostra ancora una
volta, se ce ne fosse bisogno, come il sistema poliziesco (non la polizia tout
court) tenga in piedi una
baracca i cui tenebrosi burattinai non suscitano quasi mai l’orrore viscerale
della folla.
Si conferma il mio
sospetto: usiamo il nome ‘anarchia’ per realtà molto diverse. Per me l’anarchia non è uno stato senza stato, una sorta di adynaton messianico:
è una forma politica in cui il rapporto tra società e stato è in proporzione
opposta rispetto a come si è determinato negli ultimi secoli. Certo che il
villaggio arcaico ha un capo, ma si tratta soprattutto di un primus inter pares, non di un autocrate che ha conquistato il potere: la comunità
primitiva è un’assemblea di liberi, di uguali, come dimostrano i nomi dei
popoli tradizionali, che alludono sempre a questa condizione di uguaglianza e
libertà. Sono d’accordissimo con te quando parli della validità del paradigma
‘radicale’ solo per numeri contenuti (Aristotele diceva: da 10 a 10000
persone), ma questo potrebbe essere un ottimo argomento per la mia visione, che
è una federazione di piccole comunità in cui dominano autonomia (darsi
le proprie leggi) e autopraghia (agire
in prima persona, limitando le deleghe al minimo). L’anarchia di cui parlo io, come ti ho scritto venti volte, è
comunitaristica e solidaristica: potremmo dire basata sul mutualismo, su una
forma di libera cooperazione il cui modello è l’amicizia, non il contratto
impersonale che è il modello delle relazioni nel libero mercato e l’assistenza
dell’inabile che è il modello delle relazioni nel Welfare degli stati
parlamentari. Ripeto che non penso a un’abolizione della polizia, ma a una
completa revisione del sistema poliziesco che è il sistema di controllo
totalitario da molti decenni in auge. Non è una mia fissazione sovversiva o
vagamente dandystica: si è capito da tempo che l’ossessione contemporanea per
la sicurezza è una fonte di insicurezza permanente, si sia o no d’accordo con
Foucault. Se poi vogliamo parlare ancora di nonviolenza, a me sembra che non
vada intesa ideologicamente come l’astensione da ogni uso della forza, ma come il
tipo di azione che garantisce i risultati culturali e sociali più duraturi:
tutto il resto lascia un marchio, sulla pelle e poi nel cuore, ma non
un’impronta feconda e quindi veramente umana. Mi auguro che tu non voglia
confondere l’ahimsa e la nonviolenza con certe scenette sui quaccheri e gli Amish di
cui abbondano le pellicole hollywoodiane e le barzellette dei cosiddetti
realisti, ma ti so troppo intelligente per farlo.
Allora: un uomo entra nella mia casa di notte. Se ho il ragionevole
sospetto che sia armato, cerco di ucciderlo; altrimenti, di immobilizzarlo.
Qualcuno fa qualcosa di male a me o a una persona della mia famiglia o in
generale a una persona della comunità: d’accordo con Hammurabi, Triboniano e
Beccaria, penso sinceramente che vada punito per il suo bene, per il mio bene,
per il bene di tutti. Se il reo non è stato colto e arrestato in flagrante, si
fa una ricerca: consapevoli che l’esito di un procedimento giudiziario è da
sempre incerto, perché si tratta di un duello narrativo, immaginale; quindi
nessuno ha il diritto di riporre la propria fiducia in uno strumento così
necessario eppure così fallibile. Se mi servono delle persone per queste
ricerche, creerò un’istituzione, un corpo, ma piuttosto affine a una milizia
civica che a una polizia professionale, proprio per evitare di pagare una
supposta maggiore efficienza (tutta da dimostrare) con il pericolo sempre
incombente di aver inventato uno strumento utile a qualsiasi disegno separato,
e quindi anticomunitario. Mi pare di aver detto cose ispirate al mero
buonsenso: secondo me potrebbero sottoscriverle almeno mille dei nostri
antenati. Non so che senso abbia la democrazia se non è in perpetua vigilanza,
una comunità di eguali che possono avvicendarsi nell’esercizio delle funzioni
civiche (almeno per quanto è possibile), che sanno bene di potersi svegliare
una mattina senza essersi nemmeno accorti di ritrovarsi in un’oligarchia
mascherata. Questa perpetua vigilanza è anche una perpetua militanza: ciò
richiede un rapporto diretto e personale con la maggior parte dei membri della
comunità stessa; di qui il rischio della democrazia diretta, che da sempre è la
miopia particolaristica, come nell’Atene classica, nei comuni medievali e nei
cantoni svizzeri. Gli imperi, di solito, sono molto più aperti, almeno dopo la
prima fase di conquista e sottomissione: vedi i mongoli in Cina e in Persia,
vedi l’impero di Alessandro Magno, di Roma etc. Comunque se puoi indicarmi
alcune delle letture che ti hanno portato alle tue attuali convinzioni, te ne
sarò grato.
1 – Ti avevo già scritto di ritenere necessaria la difesa esterna e
interna, che non può essere un happening e quindi richiede la
costituzione di una milizia. Non mi riferisco esattamente a un corpo di
volontari, il che già presuppone la divisione dei compiti tipica delle società
altamente complesse, ma ad una funzione soggetta a quel ‘meccanismo’ di
rotazione periodica che caratterizzava ad esempio le magistrature ateniesi.
Quanto al rischio di cui parli, oltre a non sembrarmi molto più atroce della
degenerazione che può caratterizzare lo stile di vita delle polizie
professionali, è così pronunciato solo se si tratta appunto di squadracce
di vigilantes o di mobs appena
ufficializzati, non di una istituzione civica legata a statuti, regole etc.
2 – Quello della maggiore professionalità è un argomento specioso. La
percentuale di casi risolti non è molto cambiata nel corso di parecchi decenni
(secondo alcuni studi è addirittura diminuita, ma per motivi complessi): e poi
sembrerà pure un vezzo da letteratura vittoriana, ma di solito è il dilettante
ad avere l’intuizione che scioglie il nodo, non l’esperto formatosi ad una
scuola. Tra l’altro, con la scusa della sicurezza che esigerebbe indagini
sempre più accurate si vanno affermando forme di controllo impensabili, qualche
decennio fa, perfino dai visionari più epilettici.
3 – Ripeto: anarchia non vuol dire mancanza di coordinamento, ma
coordinamento non centralizzato o meno centralizzato, a seconda delle esigenze.
Se parliamo di guerra, basta leggersi Tolstoj per capire che l’esito, non dirò
di una campagna, ma di una battaglia dipende da variabili infinite: sicuramente
la disciplina è una di queste, ma a volte funzionano meglio gli eserciti
confederati se guidati da uno stesso scopo o ideale (vedi non pochi casi di
guerriglia coronata da successo). Se parliamo di polizia, mi permetto di
osservare che la metafora militare va bene fino a un certo punto: la polizia
non è “in guerra contro il crimine”, come dicono i telegiornali dei nostri
tempi, ma al servizio di un intero edificio civico di cui è solo una parte.
4 – La criminalità organizzata non si combatte e non si è mai combattuta
con l’intensificazione di misure poliziesche. Sono d’accordo sulle infiltrazioni
etc., ma soltanto come parte di un piano che mira soprattutto a tagliare le
radici di questi gruppi di potere criminoso: operazione, com’è noto,
eminentemente culturale-sociale, perché se le mafie etc. non spacciassero miti
prima che droga sarebbero pochi infami predestinati ad entrarvi o ad
appoggiarle.
Piccola premessa, forse ovvia: sono passato dal primo livello del mio
discorso, quello che definirei culturale (esperienza di comunità rette
dall’amicizia e dalla coltivazione delle virtù come possibile fondamento di una
società nuova), ad un livello di morfologia delle istituzioni che potrebbero
sorgere da un coordinamento di varie comunità di quel tipo. Paradossalmente, il
primo livello è più ‘pratico’ del secondo: è un ideale vivibile, mentre quelle
istituzioni richiederebbero un tipo di società attualmente inesistente, da
costruire (se ce ne fossero le condizioni, ma non ci sono). Il genere di
milizia da me ‘proposto’ non è un mob da Alabama anni ’40 o da
western, né un corpo professionale: così come una giuria popolare (autentica,
cioè formata da un’educazione civica quotidiana, non un gruppo di votanti
sorteggiato in un contesto di democrazia rappresentativa) non è né un’adunata
improvvisata o un ‘tribunale proletario’ brigatistico, né una casta di
magistrati che possiede le chiavi della conoscenza e non entra e non fa entrare
gli altri (citazione evangelica). Pensavo ai comuni medievali, non all’OK
Corral: ma senza nostalgia per i primi, che spesso erano rissosi e violenti
quanto e più della Frontiera americana. Prendila come un’analogia.
Scusa se ritorno all’esempio dei mattatoi, ma oltre a essermi molto caro mi
sembra anche molto chiaro. Se mi chiedi: “Le cose vanno bene come sono?” ti
dico no. Se mi incalzi dicendo: “Allora che facciamo? Macelliamo le bestie
sull’ara sacrificale o col coltello come musulmani ed ebrei? Diventiamo tutti
vegetariani, magari?”, io rispondo no no no. Anzi, aggiungo: “Sarebbe
essenziale ripensare interamente il rapporto tra noi e gli altri viventi, ma
oggi né in Italia né nel resto del mondo ci sono le condizioni per cambiare
fattivamente la situazione. In alcuni periodi è possibile e opportuno
intervenire a livello istituzionale; in altri non si può far altro che
testimoniare le proprie idee all’interno di gruppi non settari, ma aperti e
vigili”. Ripeto, la società non si può manipolare, è un tessuto vivente: prima
cambiano, in modo organico e graduale, le idee e i miti, poi si possono
infilare le mani in pasta, e anche nel fango.
Capiamoci: anche i
poliziotti moderni sono volontari! La differenza è tra la formazione di un
corpo speciale, specializzato, chiuso, e quella di un corpo civico, sempre
addestrato ovviamente (altrimenti sarebbe una gag da commedia all’italiana), ma
aperto e a rotazione periodica come le magistrature in buona parte delle
democrazie dirette finora sperimentate. Ti concedo che il corollario è la
nascita di una democrazia armata – ma non di un esercito nazionale in stile
napoleonico, fondato sulla coscrizione, cioè su un obbligo indiscriminato, mentre
una democrazia come quella comunale antica sorge da un giuramento privato tra
persone libere e consapevoli, come un club! Così nasce la vita associata: solo
che ce ne siamo dimenticati. E ti concedo anche che oggi è praticamente
impossibile, perché abbiamo alle spalle le monarchie nazionali, gli
assolutismi, la burocrazia napoleonica, il parlamentarismo massonico, i
fascismi e i comunismi... Però concedi tu a me che questo bel karma dell’Occidente
meriterebbe un ripensamento, come minimo. Se la tua obiezione definitiva è che
quel tipo di istituzioni popolari è soggetto a degenerazione, sono d’accordo
con te, perché lo sarebbe chiunque non sia un malato di mente: ma questo è un
argomento contro qualunque opera del bipede pensante. Se vogliamo l’immunità, è meglio che ci ritiriamo sul Soratte: se crediamo nel senso e
nella bellezza (rischiosa) della comunità, è meglio pensare a ciò che è più giusto (secondo la nostra
coscienza).
Forse hai ragione, io non
sono un politico, ma un polites un
po’ lontano dalla mischia. Ma forse anche un rapporto sessuale fra due persone
ordinarie, malate e di scarse doti morali e intellettuali, può sembrare meno efficiente di
quello tra due iniziati all’eugenetica – sebbene, essendo noi molto ignoranti
sulle vie della natura, la cosa sia tutt’altro che certa (sto parafrasando
Chesterton). La differenza è che nel primo caso salvo la rischiosa libertà, nel
secondo la sacrifico a un pragmatismo dalle basi a mio giudizio arbitrarie.
Comunque non parlavo di “tutti i cittadini”: parlavo di un corpo fondato non
sulla specializzazione ma su un’ampia partecipazione civile. Se mi obietti che
c’è bisogno di un corpo di esperti, posso solo dirti che a mio parere la
tendenza da coltivare, in una democrazia diretta, è quella verso la riduzione di
questo tipo di istituzioni (non verso la loro abolizione) a vantaggio di una maggiore mobilità:
in questo modo, e sempre con la condizione preliminare (necessaria in
democrazia) di un’agorà costantemente
attiva e consapevole, si potrebbe limitare la tendenza opposta, quella di ogni
polizia a diventare la longa
manus di un potere oligarchico. La democrazia ha una grave
controindicazione, che è anche il suo segreto: ha bisogno di uomini attivi ed
educati. Ogni striscia di tenebra, ogni spazio di ignoranza e passività è il
terriccio in cui le élites di
illuminati gettano avidamente i semi del dispotismo.
uoh! Solo un dettaglio: l'illuminato in quanto tale perchè dovrebbe cercare terriccio? Penso al Bodhisattva, ad esempio. Democrazia ed educazione alla Dewey non ha mai funzionato. Come dire, lo spirito e la tecnica, l'ascesi e il progresso, come integrarli? Bisogna farlo? I più grandi gnostici furono i più immorali.
RispondiEliminaNon intendevo l’illuminato in quanto tale, il Bodhisattva, lo tzaddiq, ma l’Illuminato che si crede tale e si organizza, l’Illuminato di Baviera, diciamo, il membro di una élite manipolatrice: insomma, quasi il contrario del primo. Quanto al resto: credo non tanto alla democrazia, quanto al nesso di forze e di archetipi che l’ha portata ad essere in Grecia, nei Comuni medievali e – sì, anche nelle comunità monastiche o comunque fondate su un’esperienza spirituale da condividere. In modo sempre imperfetto, ça va sans dire. Non perché funzioni o perché sia irraggiungibilmente bella, ma perché è l’unica forma di vita associata che abbia radici nel cuore umano: le altre sono dei ragionevolissimi, o irragionevolissimi, faute-de-mieux. E infine: i più grandi gnostici furono i più immorali? Sì, nel senso che erano troppo spiritualmente concreti per una morale astratta: no, se parliamo di antinomismo deliberato. Chi ha seguito quest’ultima via o era un nichilista intelligente ma troppo dogmatico per squarciare la placenta dell’illusione, o un puro e semplice dissoluto. Oppure – ma non vale neanche la pena di parlarne: sono i massimi ilici, altro che i massimi gnostici – era uno degli Illuminati che vogliono manovrare gli uomini come pedine sulla scacchiera del tempo. Un progetto che ha la stessa consistenza delle strategie degli ufficiali prussiani in Guerra e pace (Tolstoj vedeva chiaro, in queste faccende).
RispondiEliminaGrazie davvero per il tuo commento. Il blog dovrebbe servire a questo!