La
posizione del mondo, del samsara, è colta
dall’oscillazione di un famoso passo talmudico: “‘Il mio è il mio e il tuo è
tuo’: tale il carattere mediano, ma alcuni dicono che è quello di Sodoma”. Non
sono la stessa cosa, e non sono separati. La mixis, l’angoscia del tempo intermedio.
La
verità abbraccia la menzogna come un centro oscuro. Secondo la qabbalah la
misericordia inghiotte il punto di giudizio implacabile: secondo il Vedanta l’essere
manifesto – immortale – racchiude, contiene, assimila il mortale (sat-ti-yam), come Emet, la Verità, assorbe la morte, mem (Alef-Mem-Taw: la mem
di mawed imprigionata tra la Alef
dell’archè e la Taw della pienezza).
Invece il male avvolge il bene, il divino, come una scorza il frutto o il
nocciolo: la parola het,
“peccato, impurità”, ha al centro una alef
(lettera dell’Unità-Unicità divina) muta. Il male va tenuto nascosto,
quiescente, non va inserito nel rito, rta,
nell’asiyah o mondo dell’azione
visibile-tangibile: è la radice del rito, la potenzialità, la morte, ciò che
non è oppure che-è-e-non-è. L’atto e il pensiero contrari al rito, alla legge,
custodiscono invece il divino, la alef
– ma quiescente, silenziosa, invisibile: il male nella qabbalah è sitra ahra, l’“altro lato”, il
lato volto verso aharon, le Cose
Ultime; se ne mangia la polpa gettando via la scorza, come fa Rabbi Me’ir con
Elisha ben Avuyah, il maestro apostata; ovvero si estrae l’attualità divina,
che nel male ha la posizione della potenzialità, del nascosto, scartando la
concretezza dell’atto, la lettera dell’atto (mentale, immaginativo, materiale).
Il male va pensato, consumato nell’immaginazione e nella meditazione; il bene
va compiuto, incarnato nel rito, nella miswah.
Il
sacrificio è l’atto per eccellenza, in quanto opera questa
permutazione-trasmutazione: l’aspetto maligno dell’eccidio archetipico viene
messo alle radici, sotto terra, e su di essa viene coltivato l’albero della
reciprocità umano-divina, viene eretto l’edificio cultuale in cui cielo e terra
celebrano la loro communicatio idiomatum,
il loro eros cosmogonico.
Il
male è Aher, l’alterità che
fonda l’identità – non lo stesso, eppure inseparabile, non-due.
Le
immagini caotiche vengono assunte e plasmate dal rito, incarnazione cultuale e
culturale dell’archetipo: quando scema la fede nel rito, in Occidente nascono
il rito teatrale e la dialettica filosofica: poi la gnosi passionale dell’arte,
complementare e antagonista allo spirito sistematico della scienza/filosofia – e oggi? Oggi è più che mai tempo di spie, di
veli ironici, di doppiezza esoterica nel pozzo dell’esilio: distillando il caos
ermetico che ci avvolge e strega si raccoglie la quintessenza della saggezza
esoterica, al punto di intersezione fra le disperate doglie apocalittiche e lo
sguardo sapiente che è l’ultradolore,
la fine punta del dolore, priva di dimensioni, inafferrabile.
Pericoli
sottili e mortali della vipassana e
della psicologia archetipica.
Della
vipassana: il praticante occidentale
sente parlare di “sofferenze” e le intende in modo sensistico, ma così coglie
solo un frammento della dottrina. Come si possono evitare sofferenze salutari a
chi si ama? Ma allora il discorso torna dalla sofferenza al bene e al male. –
L’anima vive di attese di Eros, attratta dalla legge, dalla mediazione, che si
manifesta come una data cultura, come una data “forma di vita”. Di questo
occorre essere consapevoli, senza illusioni di neutralità o di “scelta”.
Della
psicologia archetipica: si lavora con le immagini, con le fantasie, come un
artista del destino, le si guarda in trasparenza, si acquista uno sguardo
multidimensionale, lo sguardo psicologico. Così l’occidentale si accosta al
pantheon di una Grecia sradicata, una Grecia digeribile ad intellettuali e
artisti moderni. Ma l’anima non è indifferente alla direzione impressa dallo
spirito, all’autorità della volontà in cui si esprime il daimon: e tale autorità prende sempre la forma di un dogma
individuale o sovraindividuale, di un logos
eterno, del magnete intorno al quale tutte le altre immagini si dispongono
armoniosamente. Tale dogma è il simbolo, la teofania di quell’anima, di quel
destino, e in quanto tale non è costretto a chiudersi nel letteralismo della
paranoia, anche se ha valore per chi lo vive e incarna proprio per il suo
sottrarsi alle peripezie illimitate di anima.
Si
ha bisogno di un corpo di scrittura, di un recinto di ignoranza e di certezza,
di un orizzonte di sonno – perché l’anima abbia la libertà di sognare,
interpretare, vagabondare. Necessità dello simsum,
della fede: non possiamo andare oltre i fenomeni primordiali, le immagini
primordiali di una data cultura, di una data rivelazione etc. I confini di
questa cultura sono i confini del mondo: non si può oltrepassarli, è il gesto
della cattiva metafisica – è necessario manifestare il tutto nella parte,
l’universo in una prospettiva, per questo la cultura è rituale, un nesso
vivente, elastico di azioni, abiti etc. Grazie a tale contrazione,
immaginazione e pensiero possono commentare, illuminare, riecheggiare,
meditare, sciogliere… Ma la coagulazione precipita come esito di un’accumulazione
di spirito, di pensiero del cuore, di interiorità angosciata e presaga, rivoluzionario-profetica.
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