Mito
gnostico di Sophia e “mito” cabbalistico della Shekhinah-Malkuth: l’Immanenza è
l’Io, ovvero il manifestarsi del divino come soggettività vivente, come
creatura. Il Dio che entra nello specchio, ovvero che conosce Sé-manifesta Sé –
e facendolo non può che oscurare Sé, contrarsi, nascondersi (e
contrarsi-nascondersi a Sé: il lethe, l’ignoranza-stupore di Dioniso-Zagreo,
di Sofia, appunto).
Il
pathos di Sofia è la ricerca del
Padre, ovvero del Prepadre, dell’En-Sof (in termini cabbalistici): ma ciò è
impossibile se non nella
manifestazione, nel rapporto rabb-marbub,
nel dialogo-sizigia tra l’Io e il Tu, che è il Nous, il Primo Manifestato, il
Figlio-Padre. Tale l’archetipo, nel Pleroma, del peccato di Adamo ed Eva. Alla
radice del male c’è un pathos in cui
si confondono desiderio di conoscenza dell’Uno e rifiuto della manifestazione
dell’Uno, autoaffermazione e autodistruzione: Iblis come monoteista estremo,
come colui che non si prostra all’Adam Qadmon – la Luce Priva di Pensiero (del
pensiero di creare-manifestare, or she-ein
bo mahshavah) nella teosofia di Nathan di Gaza. È il segreto del
dualismo manicheo: en archè è il Deus revelatus, la manifestazione del
Divino – e tale manifestazione ha un’ombra, Skotos, il Male. L’ataktos kinesis della Tenebra è il moto non ordinato al fine di manifestare,
l’Amore di cui parla il hadith, la
Misericordia: una resistenza all’atto creatore, un desiderio di permanere
nell’Infinito – ma dall’interno della manifestazione, quindi il male è maschera
mistico-messianica del Bene perfetto, finale, del nihil escatologico di Scoto Eriugena: maschera maledetta da una
coscienza insieme altissima e impossibile, assurda (è il fascino di Iblis, del
Satana di Milton, del Ribelle Nichilista).
La
passione di Sofia, passione solitaria, concepita senza l’unione con il maschio
(Theletos, Voluto, direi suficamente marhum),
genera una sostanza informe: mestruo, niddah,
golem abortivo, emorragia che è pura
e quindi maledetta potenzialità finché vaga nelle tenebre esterne, ovvero
finché è proiettata in avanti, nell’illimitato – la posizione della creatura
cosciente. Solo l’incontro crocifiggente e plasmante con Horos, il Limite, la
rende feconda: ma è pur sempre un impasto di stupore, ignoranza e paura.
Achamot è lo spessore della separazione, fatto di passione coagulata, di
quell’attimo di sospensione angosciosa che ha colpito Sofia tra la sua caduta e
la sua epistrofè (ulteriore passione,
da cui sorge l’anima come piano intermedio, nostalgia del ritorno).
La
Misericordia che è stata la volontà di manifestarsi comprende in sé il Giudizio
che contrae l’Infinito, il Nulla, affinché appunto vi sia manifestazione: e in
tale oscuramento, in tale ritrarsi della luce divina per fare spazio, in tale
estasi dell’Infinito nella soggettività del mondo che è oggettività del Divino,
si radica il male come potenzialità e “realtà” del piano intermedio, tra l’archè e l’eschaton, come ciò che è misteriosamente connesso ai limiti della
creazione. Secondo il midrash la Luna
(Malkuth) accusa di Dio perché non è luminosa come il Sole (Tif’reth): è una
sofferenza costitutiva della coscienza, del mondo. Dio, che è Sole-Luna, chiede
agli uomini di offrire, in occasione della luna nuova, un capro come espiazione
per aver diminuito, o sminuito, la Luna: l’impulso alla teshuvah parte dal basso, dalle acque inferiori o femminili, dalla
Shekhinah.
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