Il
nesso pitagorico-platonico tra hyle e
plethos (moltitudine): la nostra
percezione ordinaria della “materia”, del corpo fisico, è affine allo sguardo
radente che gettiamo su una folla e che non ci consente di vederla se non come
una massa indistinta, che si agita confusamente. Possiamo lasciare che ne
emergano volti solo se siamo preparati a trovarveli, e se sciogliamo la sua
apparente omogeneità indirizzando l’attenzione come un arto di luce in cui cognizione
e volontà, sensazione e affetto, memoria e presenza siano inseparate. I
lineamenti scorti sul muro, la forma organica riconosciuta nella nuvola, il
tono e il ritmo che improntano il percepito non sono condannati a restare allucinazioni,
tracce della solitudine del soggetto, se entrano attivamente, meditativamente
in dialogo con l’intera persona: se
si concede loro di svelarsi gradualmente, dinamicamente, come volti e persone
in cui siano offerti il principio e il fine della persona che li accoglie, in
cui la persona che li accoglie possa incontrare la propria plenitudine e
integrità attraverso il velo della vita e della morte.
Se
la montagna cammina, se ha un volto come me, più di me, allora mi si svela al
tempo stesso più terribile e più familiare di quando la vedo inerte. È più me
di me stesso: è una teofania. Forse all’inizio l’angelo deve manifestarsi come
un aggressore, con tutta l’ambiguità del daimon.
Per accoglierlo occorre diventare come
bambini, avere i loro occhi e insieme strisciare con spire di serpente, con
doppiezza, con diplomazia, attraverso
il mondo del bene e del male.
Gli
angeli non hanno nuca, non hanno dorso. Vorrà dire che non hanno zahir – da zahr, “dorso”, appunto? Sì, ma nel senso che sono
manifestazione, immagine: non rimandano ad un’essenza, ad un significato, ad un
“dietro-le-quinte”. La bidimensionalità dell’immagine non è quella della
sezione astratta, della sensazione irrelata e piatta, ma quella del riflesso
sospeso che trae a sé e con sé nostalgia e desiderio.
L’uomo
che sul sentiero crede di vedere un serpente e poi si accorge che è una corda
diventa un visionario, un pellegrino del mondo angelico, se nell’incontro
iniziale coglie un’immagine, il riflesso di un archetipo, e non la sovrappone
alla scoperta del risveglio, non la confonde con la consapevolezza della corda:
la corda è il vincolo con la realtà di veglia, non è la spiegazione
dell’evento-serpente, non è lo scioglimento di un enigma attraverso una formula
separata dal corpo misterico dell’enigma stesso. Chi di notte vede un
serpente in una corda, se non perde la scepsi binoculare che permette di
camminare tra le cose, tra il mondo immaginale e il mondo sensibile, vede un
angelo, una forma sospesa in uno specchio – né reale né irreale, né oggetto né allucinazione.
Innamorarsi,
to fall in love: evento narcissico, fatto di riflessi,
proiezioni. Ma cadendo nello specchio si può uscire dall’incantesimo mutilante
del rispecchiamento egoico, della ricerca di conferme, ed entrare nel gioco
d’amore come ars specularis: uno dei modi per farlo è prendere un
impegno con l’immagine vista nel sogno dell’innamoramento, darle un
appuntamento nella veglia, stabilire un dialogo ipocrita e retto (rituale) con
il telos dell’incontro, che è l’immagine totale, l’Androgino. Così
l’interpretazione del sogno dà corpo a un vincolo, a un legame tra la
rivelazione notturna e la vita di veglia, ne fa un’indicazione divinatoria –
non nel senso di sottometterla alla veglia (la divinazione come strumento
dell’ego, della sua caccia di potenza magica), ma indirizzando entrambi, sogno
e veglia, ad un risveglio ermetico, terzo, testimoniale.
L’angelo,
forma personale dell’istante, trasmuta la memoria caduta (la materia prima
di Leibniz: spessore di oblio, passività, resistenza, chiusura della monade) in
memoria dell’aion, presenza all’aion. Parallelamente fa passare
da una conoscenza tridimensionale a una conoscenza quadridimensionale: nella
prima, ordinaria, la memoria e la ragione cadute aggiungono alle percezioni, in
quanto sezioni bidimensionali (immagini), una terza dimensione astratta; nella
seconda, attiva e meditativa, le sezioni bidimensionali riflettono direttamente
l’angelo come esistenza quadridimensionale, archetipo che si epifanizza. Così
non si cerca più un “dietro” o un “dentro”: l’immagine non ammette spiegazione;
il nascosto si rende in essa manifesto, si tratta quindi di mutare l’orientamento
dello sguardo, di lasciar emergere dimensioni ulteriori dell’unica
esperienza. La prosa quotidiana si disarticola in poesia, in specchio lucido e
prensile: si iniziano a vedere le cose nella reciprocità dell’eros, scorgendo
la luce onirica che le illumina dall’interno; si sente e intuisce che il
desiderio e il desiderato sono contigui sulla soglia del cuore, sulla soglia
dello specchio.
Evagrio
insegna che il pensiero dell’oro può essere angelico (caratterizzato dalla percezione
amorosa della corrispondenza simbolica tra oro materiale e oro spirituale),
umano (la pura “memoria”, o sati, dell’oro) o demoniaco (caratterizzato
dalla brama di possesso che distrugge la contemplazione). Il pensiero umano
(dell’uomo terrestre) è purgazione di quello demoniaco tramite la sua
riduzione alla pura sezione bidimensionale, all’azzima dell’immagine, prostrata
ovvero sospesa: solo così diventa superficie in grado di riflettere la luce
infuocata dell’appassionata intellezione angelica.
Nessun commento:
Posta un commento