Narciso
nasce dallo stupro della naiade Liriope, “colei che bagna il giglio”, da parte
del fiume Cefiso.
Il
giglio, fiore dell’albedo, è il
ritrarsi di Maria davanti all’Angelo, il suo prendere rifugio nel dio interiore
contro la prosbolè
dell’immagine.
Narciso
si conosce nell’immagine: come Maria nella visitazione di Gabriele, come anche
Gesù nello specchio della sua ecclesia,
dei suoi amici e traditori. Si suicida squarciandosi il petto, il cuore: così
la spada della profezia attraversa l’anima di Maria e la lancia del soldato il
fianco di Gesù. Il cuore spezzato è la mente tagliata in due dal Verbo,
dall’esperienza spirituale che è la morte, la tragedia dell’anima. Il sangue di
Narciso è l’essenza del fiore narciso come Jesus
patibilis suspensus e ligno (nella teologia manichea, la sostanza del Gesù
psichico è crocifissa in ogni pianta: il regno vegetale è il più puro, il più
sattvico, il più luminoso del cosmo caduto). Effondendo il suo pothos suicida come fiotto prezioso,
Narciso rinasce come dono, immagine pura, il fiore che è Selbstdarstellung (Portmann) della terra. Ed è il fiore che
stupisce, che addormenta, che dà il thauma
dello specchio e della morte (Kore che viene rapita da Hades mentre coglie
narcisi). Narciso muore sulla riva del fiume, al di qua dello specchio: la sua
iniziazione è il consumarsi del (nel) pothos,
un martirio al cospetto dell’immagine distante e più intima a sé di se stesso,
intima come il volto che si porta. Eraclito dice che facciamo perire ciò che
vediamo, mentre ciò che non vediamo lo portiamo su di noi, in noi.
Narciso è cacciatore, come tutti gli artemidei, i devoti della
solitaria pienezza lunare: è Artemide stessa a condurlo alla fonte che
l’oracolo apollineo gli aveva predetto letale. Mentre altri artemidei famosi,
come Ippolito, vengono straziati dal contatto allopatico con la divinità
antagonista (il terribile eros incestuoso di Fedra), Narciso vive una passio del tutto artemidea, ancor più di
Atteone, che ha qualche affinità segreta con lui. La visione di Artemide, cui
Eraclito ha dedicato il suo Perì physeos,
la visione della physis che kryptesthai philei perché il suo volto, come nella
meditazione di Novalis, è il volto stesso del ricercatore-cacciatore, è appunto
la contemplazione stupita del proprio riflesso nello specchio lunare, nello speculum naturae: il meditante
vedantico vede il serpente nella corda, Bilqis vede l’acqua nel pavimento di
cristallo di Salomone, Narciso vede un altro (un’altra, la sorella morta,
l’anima che è noi-non noi) in sé e sé in un altro.
La
narcosi di Narciso è affine alla ḥayra
(perplessità) di Ibn Arabi: stupore dinamico di fronte alla coincidentia oppositorum, che è anche oppositio coincidentium. Si tratta della
soglia ambigua dell’immagine, dello specchio: muro e porta; crepuscolo, cortina
tremula del lethe che può condurre al
tamas notturno dell’insensibilità
oppure alla bhakti, alla devotio sympathetica verso l’immagine,
all’aisthesis come esclamazione di
meraviglia con cui accogliamo il mondo, riflesso del nostro io che è a sua
volta riflesso del mondo. L’istruzione iniziatica è la stessa di Goethe: sapere
che la Natura inganna con le sue immagini, e lasciarsene saviamente ingannare.
(Tale consapevolezza avrà la natura di Eco, l’amante respinta di Narciso, aura
del pathos stesso, riflessione
inerente al pathos come suo riflesso,
sua vocalità sottile). Cecco d’Ascoli nel suo poema riconosce: Io so Ella, io stesso sono la Donna del
mio amore spirituale, e ciò rende l’amore più ardente anziché spegnerlo (o
meglio lo rende ermetico, serpentino, spiraliforme, fa fiorire un sorriso di kouros sacrificato e liberato al fondo
dello strazio erotico).
Le
tre morti di Narciso.
Il
tuffo nello specchio d’acqua, ad inseguire l’immagine riflessa: qui Narciso è
proprio Zagreo bambino, Dioniso bambino, col suo stupor cosmogonico che è creazione del mondo nell’anima e caduta
dell’anima nel mondo. Oltre lo specchio, come nel mito gnostico, Sofia-Anima
proietta il proprio lethe, la propria
narcosi, nelle distese illimitate di Hyle; e al contempo, attraverso la
morte-iniziazione, la teshuvah-epistrofè, ritorna all’archè, alla madre, nella forma
condensata di un fiore – il suo sacrificio prende la forma di un fiore, di un
pensiero alacre e dormiente della Dea, sogno della terra che è pura
manifestazione, corpo sottile-angelico offerto a tutto e a tutti come colore e
odore.
Il
suicidio per languore sulla riva, al di qua dello specchio. Questa è la morte
più esoterica, più sottile: il pothos
per l’immagine consuma il corpo e l’anima attraverso la distanza – la
mediazione – dello sguardo, del
riflesso.
Il
suicidio violento, la lama di pugnale che squarcia il petto. Qui il sangue
viene effuso dalla mano stessa del giovane, la sua essenza interiore dev’essere
estratta con pena, con il dolore di una scissione interna, di una iniziazione
crocifiggente, brutale.
Eco
salva Psyche, ma non Narciso: lui l’ha respinta nella sua lunare e fragile
pienezza, ora nella morte la loro distanza è colmata dalla voce di lei,
riflesso sonoro, specchio acustico – che raccoglie il prezioso dolore della
morte iniziatica del suo amato per effonderlo nelle cose; è lei il tramite
della sua metamorfosi. Due distanze, due pothoi
accostati, resi paralleli dal destino, generano il fiore che stupisce, la droga
che aliena, l’estasi che mette in comunicazione i due mondi, la morte e la vita.
Amando l’immagine riflessa Narciso ama
davvero un altro, e al contempo se stesso: ma nell’estasi erotica, nel salto
della nascita-morte l’identità è dimenticata, perduta, offerta, e risorge come
il torpido aroma di un fiore. Per diventare frutto, Narciso oltre all’eros dovrebbe sperimentare l’obbedienza,
la hypakoè. L’obbedienza è
l’ipocrisia suprema: supera l’incantesimo erotico dell’occhio – al livello del
quale l’ipocrisia è “pittura”, trucco superficiale – con la profondità
dell’ascolto (hyp-akoè) tutto proteso
al Verbo. All’inizio l’uomo la sperimenta come doppiezza: il Verbo è una spada
a doppio taglio che separa l’anima dallo spirito, ma come nella Genesi, per
imprimere al caos della falsa immediatezza (l’immediatezza caduta) la direzione
del kosmos, in cui interno ed esterno
si corrispondono armoniosamente (come profetizza la preghiera di Socrate nel Fedro, culmine della rivelazione
erotica). In tal modo si è semplici come colombe – volti a un telos che tutto unifica, spiritualmente
monogami – e astuti come serpenti – capaci di aggirare omeopaticamente la
doppiezza del Serpente con il taglio operato in noi dall’obbedienza.
Alla
fine Narciso si identifica con l’albedo
della madre, la riconquista, la assimila: cacciatore lunare, per ottenere la
Luna, per essere Luna, deve patire lo
strazio della metamorfosi, la rivelazione – alienante, estatica – dello
specchio.
Narciso
e il sonno che Elohim fa cadere su
Adamo per trarne Eva. In ebraico è tardemah,
che indica quasi sempre il sonno profetico: i Settanta traducono ekstasis, la Vulgata sopor. Elohim giudica che non è bene per
l’Adamo androgino essere solo, levadò,
e decide di fargli un aiuto che gli stia di fronte, che gli si opponga, kenegdò. Eva, la Donna, era latente
nell’Adamo, o piuttosto – secondo il midrash
– attaccata alla metà maschile dell’Androgino per la schiena. Al di là dello
stupore, del sonno profetico in cui cade, Adamo trova il proprio specchio in
Eva, il proprio sé nell’altro-altra, ed è caduta e imitatio Dei insieme: beatrix
culpa. La morte di Narciso è qui la morte dell’Adamo-Uno, dell’Androgino
prelapsario: il fiore è l’eros stesso, l’agnizione erotica nell’alterità, nel
tempo (“Stavolta, ha-paʻam, costei è osso delle mie
ossa…”), impossibile nell’unità raccolta e sferica dei pura naturalia, che del resto “erano” puramente potenziali.
L’eros,
il pothos che consuma sulla riva, è
(come) la dialettica: una via che, attraverso la purificazione, conduce ad
un’autoconfutazione. Oltre quella soglia albeggia l’esperienza misterica
dell’uni-diade, dell’androgino ricostituito.
Quanti
di noi sono disposti ad abbassarsi tanto da specchiarsi in Narciso – nel
narciso? La nostra immagine dormiente nel fiore è inafferrabile: si può solo
esserla morendo a se stessi, o meglio sapere di esserla come si sa di dormire,
come si sa di essere radicati e offerti.
“Qui si vede che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide
con il realismo puro. L’io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e
resta la realtà coordinata ad esso” (Wittgenstein). Non si può dire: il mondo è
il mio riflesso – ciò si mostra. L’immagine non significa nulla, non ha
un “dorso”, come l’angelo: è ostensione di sé, manifestazione. Quando Narciso
muore, si riduce a un punto, a un seme: allora può rinascere, può essere il
mondo, ritrovarsi nel mondo senza riconoscervisi preliminarmente, egoicamente.
Il suo stupore è demiurgico: è lo stesso del Demiurgo – fa essere il mondo,
lascia essere l’essere. Lo lascia fiorire.
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