Giorni
fa chiacchieravo con uno scrittore, di buon talento e di intelligenza
non banale, che nel mezzo di una conversazione interessante ha
gettato, come un pugno di polvere e sporcizia sulla tovaglia
invitante di un picnic, la solita barzelletta di Aristotele che
considerava gli schiavi tali per natura. Gli ho risposto che non era
vero: come osserva Cornelius Castoriadis, ogni greco aveva imparato
l'Iliade a memoria e non poteva dimenticare che Andromaca, la donna
più luminosa del poema, non era schiava per natura o nascita che dir
si voglia, ma perché gli Achei avevano vinto una guerra maledetta
con l'inganno e la brutalità; solo un pazzo o un magnetizzatore di
folle (quali sono gli odierni sacerdoti del marketing, della
propaganda e dell'informazione) avrebbe potuto cercare di persuaderli
del contrario. Lo Stagirita annota, con il suo solito asistematico
buon senso, che alcuni uomini nascono schiavi, ovvero incapaci di
governarsi, e dunque bisognosi di tutela per tutta la vita. L'essenza
della schiavitù non è essere seviziati da una matrona libidinosa e
turpe e crocifissi per aver offeso un padrone dispotico, ma lavorare
esclusivamente per un altro, che in cambio deve garantire
mantenimento – victus et amictus – protezione e una certa
condiscendenza, quale sempre si riserva a fanciulli e minorati
giuridici (il romano chiamava puer lo schiavo anche quando era uomo
fatto). Ciascuno guardi dentro di sé, e si chieda con onestà
spietata se non senta, sotto gli strati di una retorica
rivoluzionaria ormai estenuata e logora, di essere uno shudra, nel
senso vedico originario, uno che deve dipendere da un proprietario,
un lavoratore dipendente e garantito. Ho l'impressione che molti di
coloro che oggi fanno fuoco e fiamme in piazza (nella piazza di
pietra o cemento e nell'agorà impalpabile del Web) sarebbero a dir
poco soddisfatti di una soluzione così drastica e colladauta alle
angosciose oscillazioni di un piratesco 'mercato del lavoro': anche
quando magari innalzano i vessilli della libertà, che non è una
condizione meramente negativa, ma una energheia, qualcosa di attivo e
positivo, roba da adulti.
Dialogo
con un testimone di Geova al capolinea del 105, Grotte Celoni,
periferia orientale di Roma.
Sorriso commerciale, lievemente contratto dalla diffidenza per la mia fisionomia e il mio abbigliamento, alquanto diversi dai suoi (è un missionario all'americana comm'il faut, abbronzatura moderata, occhiali quasi alla moda, giacca lucida, valigetta nera).
"Lei fuma la pipa, signore! Sa cosa dice la Bibbia in proposito?"
"Nulla, temo: ai tempi dei Patriarchi quell'amabile filibustiere di sir Walter Raleigh ancora non era andato a rubare il tabacco agli aborigeni. A meno che non abbiano ragione alcuni studiosi, e le navi del re Salomone non siano arrivate davvero fino al delta del Rio de la Plata..."
"Ma anche lei studia i testi sacri! Bene!"
"Qualche volta. E quando vi si parla di fumo, in genere è per via dei sacrifici".
"Conosce quel versetto del salmo 119? Fa' passare i miei occhi dal vedere cose senza valore..."
"Vanità, cose vane, dice re David, mi pare. Ma voglio citarle altre parole dello stesso salmo: Sono divenuto come un otre affumicato, non ho dimenticato i tuoi precetti. Come l'otre si impregna di fumo per diventare più resistente, così l'uomo si impregna del fumo dei precetti divini per diventare saldo e fedele. Vede? Possiamo far dire alla Bibbia ciò che vogliamo. E la mia pipa continua ad esalare il suo fiato, che a differenza del nostro è del tutto innocente".
Sorriso commerciale, lievemente contratto dalla diffidenza per la mia fisionomia e il mio abbigliamento, alquanto diversi dai suoi (è un missionario all'americana comm'il faut, abbronzatura moderata, occhiali quasi alla moda, giacca lucida, valigetta nera).
"Lei fuma la pipa, signore! Sa cosa dice la Bibbia in proposito?"
"Nulla, temo: ai tempi dei Patriarchi quell'amabile filibustiere di sir Walter Raleigh ancora non era andato a rubare il tabacco agli aborigeni. A meno che non abbiano ragione alcuni studiosi, e le navi del re Salomone non siano arrivate davvero fino al delta del Rio de la Plata..."
"Ma anche lei studia i testi sacri! Bene!"
"Qualche volta. E quando vi si parla di fumo, in genere è per via dei sacrifici".
"Conosce quel versetto del salmo 119? Fa' passare i miei occhi dal vedere cose senza valore..."
"Vanità, cose vane, dice re David, mi pare. Ma voglio citarle altre parole dello stesso salmo: Sono divenuto come un otre affumicato, non ho dimenticato i tuoi precetti. Come l'otre si impregna di fumo per diventare più resistente, così l'uomo si impregna del fumo dei precetti divini per diventare saldo e fedele. Vede? Possiamo far dire alla Bibbia ciò che vogliamo. E la mia pipa continua ad esalare il suo fiato, che a differenza del nostro è del tutto innocente".
La
legge di Murphy (nome opportunamente beckettiano) è la percezione
della continua antipatia fra il carattere diurno, acquisito,
cosciente, e il daimon, spessore di storia sepolta, genio astrale e
astrologico, ade e cielo dalla nostra angusta prospettiva terrestre.
Così forse Murphy è un Hermes embrionale, ancora impegnato in un
umorismo da forca sapienziale e ammiccante, ma che, una volta
divenuto genuinamente e intensamente pessimista, potrà forse passare
dagli scherzi nel cortile del Tempio alle sacre buffonate sulla
soglia del Naos.
I
punti di una religione o di una teologia che più rumorosamente ci
fanno ridere o più acidulamente sghignazzare, sono le croci che
segnalano la presenza del tesoro sepolto, ampolline deformi e
bizzarre in cui è custodito lo spirito, l’esoterico del Grande
Carnevale. Questo il senso del Credo quia ineptum di Tertulliano –
effato, non dimentichiamolo, di un avvocato romano, ovvero di un
essere a metà fra un glossatore kafkiano e uno stregone
conquistatore di anime. Le banconote della fede vengono garantite dai
dobloni del re: chi voglia investigare, scoprirà che il re non ha
nulla, solo debiti – ma nei sotterranei vuoti del palazzo, invece
dell’oro rilucente, si può trovare, ormai disperati, oltre
l’ultima svolta tenebrosa, la bottega del burattinaio, dell’omino
grigio e ridente che regge i fili anche alla marionetta del sovrano.
"Zio"
deriva quasi certamente da theios, "divino", perché
nel sistema simbolico antico il fratello della madre iniziava il
bambino ai misteri religiosi specifici della famiglia. Quindi
bestemmiare lo zio non è affatto un'attenuazione, uno spostamento,
un eufemismo.
La triplice domanda di
Rabbi Hillel, celeberrimo tonico spirituale, osservata in controluce
fa emergere l'ombra della dottrina esoterica universale: se non si
traffica con il talento, se lo si deposita nell'occulto, la moneta,
l'immagine umano-divina, non va comunque perduta – ritorna al
Signore, al padrone, ma priva di individuazione, e viene
assegnata all'abile accumulatore di un capitale già consistente, che
per così dire la redime a sua insaputa e suo malgrado.
Se io non sono per me,
chi è per me? Im en ani li, mi li?
Im
– "se", può essere letto anche em, "madre",
la sefirah della teshuvah, del ritorno a Dio: l'anello della
misericordia, della dipendenza reciproca tra il creatore e la
creatura. En ani li: ani, "io", ritorna ad
essere ayin, en, "non" (termine costituito
dalle stesse consonanti); lo yesh o essere determinato si
annulla. Se io torno al nulla, se l'io dell'individuazione torna al
nulla, si manifesta "Chi", Mi, nome del Dio
personale nella sua trascendenza.
Se io
sono per me (solo), cosa sono io? Uksheani le-asmi, mah ani?
Se io
sono per me, io sono mah, "che cosa?", la domanda
che costituisce l'uomo, la richiesta che il figlio idiota, tam
(ovvero semplice, integro), pone alla Madre nella notte di Pasqua.
L'essenza, la che-cos-ità, mahiyya, è lo stupore della
domanda originaria di Adamo che tende a irrigidirsi in risposta,
nella determinazione di essenze separate, ad immagine dell'ego
sradicato dal divino.
E se
non ora, quando? We-im lo ʻakshav,
ematai?
Il Talmud
comincia con la domanda me-ematai,
"da quando"? Ematai
si può leggere come emet
Y-Y, "la Verità
del Signore": verità creatrice, ma anche, secondo il midrash,
rigore e purezza della legge divina che si oppone alla creazione
dell'Uomo in quanto viluppo di menzogne, colpevole semicosciente
della dislocazione dell'universo, della sua inquietudine samsarica.
Se non ci si insedia nel nunc,
nell'intersezione meditativa tra eternità e tempo, sfolgora
comunque, ma non intravista, non gustata, alterità e trascendenza
pura, la Verità che tende a distruggere la provvisoria e relativa
consistenza umana.
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