Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 9 febbraio 2014

Candelora e C.



Giorni fa chiacchieravo con uno scrittore, di buon talento e di intelligenza non banale, che nel mezzo di una conversazione interessante ha gettato, come un pugno di polvere e sporcizia sulla tovaglia invitante di un picnic, la solita barzelletta di Aristotele che considerava gli schiavi tali per natura. Gli ho risposto che non era vero: come osserva Cornelius Castoriadis, ogni greco aveva imparato l'Iliade a memoria e non poteva dimenticare che Andromaca, la donna più luminosa del poema, non era schiava per natura o nascita che dir si voglia, ma perché gli Achei avevano vinto una guerra maledetta con l'inganno e la brutalità; solo un pazzo o un magnetizzatore di folle (quali sono gli odierni sacerdoti del marketing, della propaganda e dell'informazione) avrebbe potuto cercare di persuaderli del contrario. Lo Stagirita annota, con il suo solito asistematico buon senso, che alcuni uomini nascono schiavi, ovvero incapaci di governarsi, e dunque bisognosi di tutela per tutta la vita. L'essenza della schiavitù non è essere seviziati da una matrona libidinosa e turpe e crocifissi per aver offeso un padrone dispotico, ma lavorare esclusivamente per un altro, che in cambio deve garantire mantenimento – victus et amictus – protezione e una certa condiscendenza, quale sempre si riserva a fanciulli e minorati giuridici (il romano chiamava puer lo schiavo anche quando era uomo fatto). Ciascuno guardi dentro di sé, e si chieda con onestà spietata se non senta, sotto gli strati di una retorica rivoluzionaria ormai estenuata e logora, di essere uno shudra, nel senso vedico originario, uno che deve dipendere da un proprietario, un lavoratore dipendente e garantito. Ho l'impressione che molti di coloro che oggi fanno fuoco e fiamme in piazza (nella piazza di pietra o cemento e nell'agorà impalpabile del Web) sarebbero a dir poco soddisfatti di una soluzione così drastica e colladauta alle angosciose oscillazioni di un piratesco 'mercato del lavoro': anche quando magari innalzano i vessilli della libertà, che non è una condizione meramente negativa, ma una energheia, qualcosa di attivo e positivo, roba da adulti.

Dialogo con un testimone di Geova al capolinea del 105, Grotte Celoni, periferia orientale di Roma.
Sorriso commerciale, lievemente contratto dalla diffidenza per la mia fisionomia e il mio abbigliamento, alquanto diversi dai suoi (è un missionario all'americana comm'il faut, abbronzatura moderata, occhiali quasi alla moda, giacca lucida, valigetta nera).
"Lei fuma la pipa, signore! Sa cosa dice la Bibbia in proposito?"
"Nulla, temo: ai tempi dei Patriarchi quell'amabile filibustiere di sir Walter Raleigh ancora non era andato a rubare il tabacco agli aborigeni. A meno che non abbiano ragione alcuni studiosi, e le navi del re Salomone non siano arrivate davvero fino al delta del Rio de la Plata..."
"Ma anche lei studia i testi sacri! Bene!"
"Qualche volta. E quando vi si parla di fumo, in genere è per via dei sacrifici".
"Conosce quel versetto del salmo 119? Fa' passare i miei occhi dal vedere cose senza valore..."
"Vanità, cose vane, dice re David, mi pare. Ma voglio citarle altre parole dello stesso salmo: Sono divenuto come un otre affumicato, non ho dimenticato i tuoi precetti. Come l'otre si impregna di fumo per diventare più resistente, così l'uomo si impregna del fumo dei precetti divini per diventare saldo e fedele. Vede? Possiamo far dire alla Bibbia ciò che vogliamo. E la mia pipa continua ad esalare il suo fiato, che a differenza del nostro è del tutto innocente".

La legge di Murphy (nome opportunamente beckettiano) è la percezione della continua antipatia fra il carattere diurno, acquisito, cosciente, e il daimon, spessore di storia sepolta, genio astrale e astrologico, ade e cielo dalla nostra angusta prospettiva terrestre. Così forse Murphy è un Hermes embrionale, ancora impegnato in un umorismo da forca sapienziale e ammiccante, ma che, una volta divenuto genuinamente e intensamente pessimista, potrà forse passare dagli scherzi nel cortile del Tempio alle sacre buffonate sulla soglia del Naos.

I punti di una religione o di una teologia che più rumorosamente ci fanno ridere o più acidulamente sghignazzare, sono le croci che segnalano la presenza del tesoro sepolto, ampolline deformi e bizzarre in cui è custodito lo spirito, l’esoterico del Grande Carnevale. Questo il senso del Credo quia ineptum di Tertulliano – effato, non dimentichiamolo, di un avvocato romano, ovvero di un essere a metà fra un glossatore kafkiano e uno stregone conquistatore di anime. Le banconote della fede vengono garantite dai dobloni del re: chi voglia investigare, scoprirà che il re non ha nulla, solo debiti – ma nei sotterranei vuoti del palazzo, invece dell’oro rilucente, si può trovare, ormai disperati, oltre l’ultima svolta tenebrosa, la bottega del burattinaio, dell’omino grigio e ridente che regge i fili anche alla marionetta del sovrano.

"Zio" deriva quasi certamente da theios, "divino", perché nel sistema simbolico antico il fratello della madre iniziava il bambino ai misteri religiosi specifici della famiglia. Quindi bestemmiare lo zio non è affatto un'attenuazione, uno spostamento, un eufemismo.

La triplice domanda di Rabbi Hillel, celeberrimo tonico spirituale, osservata in controluce fa emergere l'ombra della dottrina esoterica universale: se non si traffica con il talento, se lo si deposita nell'occulto, la moneta, l'immagine umano-divina, non va comunque perduta – ritorna al Signore, al padrone, ma priva di individuazione, e viene assegnata all'abile accumulatore di un capitale già consistente, che per così dire la redime a sua insaputa e suo malgrado.
Se io non sono per me, chi è per me? Im en ani li, mi li?
Im – "se", può essere letto anche em, "madre", la sefirah della teshuvah, del ritorno a Dio: l'anello della misericordia, della dipendenza reciproca tra il creatore e la creatura. En ani li: ani, "io", ritorna ad essere ayin, en, "non" (termine costituito dalle stesse consonanti); lo yesh o essere determinato si annulla. Se io torno al nulla, se l'io dell'individuazione torna al nulla, si manifesta "Chi", Mi, nome del Dio personale nella sua trascendenza.
Se io sono per me (solo), cosa sono io? Uksheani le-asmi, mah ani?
Se io sono per me, io sono mah, "che cosa?", la domanda che costituisce l'uomo, la richiesta che il figlio idiota, tam (ovvero semplice, integro), pone alla Madre nella notte di Pasqua. L'essenza, la che-cos-ità, mahiyya, è lo stupore della domanda originaria di Adamo che tende a irrigidirsi in risposta, nella determinazione di essenze separate, ad immagine dell'ego sradicato dal divino.
E se non ora, quando? We-im lo ʻakshav, ematai?
Il Talmud comincia con la domanda me-ematai, "da quando"? Ematai si può leggere come emet Y-Y, "la Verità del Signore": verità creatrice, ma anche, secondo il midrash, rigore e purezza della legge divina che si oppone alla creazione dell'Uomo in quanto viluppo di menzogne, colpevole semicosciente della dislocazione dell'universo, della sua inquietudine samsarica. Se non ci si insedia nel nunc, nell'intersezione meditativa tra eternità e tempo, sfolgora comunque, ma non intravista, non gustata, alterità e trascendenza pura, la Verità che tende a distruggere la provvisoria e relativa consistenza umana.

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