Caro
* * *,
mi
chiedi qualche riga sull’immortalità dell’anima. Cerchiamo
anzitutto, per quanto possibile, di capirci. Se per “anima” si
intende il principio divino, niente che esista può esserne privo,
perché essere vuol dire essere dal divino e nel divino: e dunque, da
questo punto di vista, tutto è animato, tutto è in tutto, e
il più fulgido dei sapienti non lo è più del ciottolo sulla
strada. Se invece si intende la consapevolezza di essere in quel
principio, la coscienza della destinazione spirituale del cosmo, il
possesso di ciò che in tutti gli esseri e in ciascuno è potenziale,
virtuale, un seme, un germe – se chiamiamo “anima” questa
presenza a ciò che è, questa realizzazione o attualizzazione di ciò
che è latente, sepolto, questa resurrezione di ciò che è morto o
risveglio di ciò che dorme, con la conseguente “costruzione” di
un corpo luminoso in grado di superare intatto e trasfigurato la
cosiddetta “seconda morte” – allora sì, solo in pochi “hanno”
un’anima.
Ed
è vero che “qualcosa è andato storto” en archê: ma è
stato – ed è anche adesso – un dramma intradivino, qualcosa di
interno ed esterno al divino insieme; i sapienti antichi lo
paragonano ad un essere perfetto che si guarda allo specchio, si
smarrisce per un attimo nello stupore e in quell’attimo sorge il
mondo come coscienza alienata del divino stesso, caduta del divino
nelle acque del tempo e dello spazio, smembramento-disattenzione,
morte-oblio. Tutto è perduto, eppure tutto è (ritorna) come sempre,
perché noi siamo una brutta giornata di Dio, diceva Kafka (noi in
quanto noi, in quanto io separato da Dio, noi se e quando pensiamo
“io-sono-nel-mondo” e non “il-mondo-è-in-me”). La caduta
però è stata anche un tuffo – qualcosa di simile a una sbronza, a
un innamoramento, a un gioco d’ombre sul muro: diventandone
consapevole, il divino diventa se stesso, trascende se stesso, si
individua come un uomo – perché è l’Uomo Originario, la
Persona suprema, Puruṣa.
In
Paolo, come in tutta la tradizione ebraica, l’idea greca
dell’immortalità dell’anima non è di casa. L’ebraismo è
profetico e teurgico: predica la resurrezione dei corpi, la
glorificazione. Per questo si parla tanto di vesti nuziali, di tende,
di città celesti-terrestri, e la nudità è immagine di impurità e
dannazione. Da questo punto di vista, sono d’accordo con te: a
Paolo interessa il corpo glorioso, l’anima stessa è una regione
mediana, un tramite, uno strumento. Ma non c’è bisogno di
esaminare gli ardenti e difficili passi paolini: basta meditare le
parabole evangeliche. Quella dei talenti, ad esempio – terribile ed
enigmatica.
Un
maestro che ho conosciuto mi ha detto, e non l’ho mai dimenticato:
stiamo molto peggio e molto meglio di quanto crediamo. Questa breve
narrazione lo illustra in modo esemplare. Il talanton è una
moneta antica: molto grossa, visto che il suo nome indica il peso che
un uomo può arrivare a trasportare con le sue forze. Si tratta del
destino spirituale dell’uomo, dell’immagine divina in lui: come
la moneta reca impressa l’effigie di chi l’ha coniata, così
l’uomo reca impressa l’immagine di chi l’ha creato. In questo
senso, tutti abbiamo un’anima, l’immagine di Dio in noi. Eppure
non tutti arriviamo a possederla: chi ha ricevuto un solo
talento va a seppellirlo in attesa che il signore ritorni – si
lascia vivere, dà per scontato che avere equivalga a possedere. Ma
non è così: il signore lo punisce, lo caccia fuori dal palazzo,
nelle tenebre, fa disseppellire il talento e lo affida a chi ne ha
(possiede) già dieci.
Tutti,
tutte le cose hanno un’anima, virtualmente: poche persone, pochi
esseri arrivano ad esserne consapevoli, a farla loro (“l’anima/
che combatte per farsi anima tua”, dice il poeta greco Ghiorgos
Seferis), in questa vita. Non lo dico come se disponessimo di
molteplici vite, o come se esistesse una separazione tra questa vita
e un’altra. La vita ha molti strati, molte facce, perché tutti
siamo uno, nel divino. Il servo che ha sepolto il talento
viene espulso nelle tenebre, ma il talento viene salvato e
arricchisce un altro servo. Se il talento è l’immagine di Dio,
l’anima in potenza, il seme dell’anima, possiamo interpretare
così: niente va perduto, ma l’io del servo, che non esiste senza
il talento, diventa ciò che è, nulla (=le tenebre) – mentre il
suo intimo, vero sé, la sua scintilla divina, rimasta sepolta,
dormiente, morta in questa vita, ritorna comunque nel divino,
ma al di là della coscienza di questa vita, assunta da un altro
destino spirituale. Quel destino terrestre ha fallito, ma la
sua essenza, il suo senso, il suo volto profondo, è salvo – anche
se viene salvato in un altro destino. Il mondo è una sorta di
laboratorio alchemico, le individualità sono punti di vista,
prospettive di un unico essere, l’Adam Qadmon della qabbalah,
l’Uomo. L’Uomo non può che salvarsi tutto insieme o perdersi
tutto insieme. L’essere torna all’essere, il non essere “torna”
al non essere: è l’esito della rivelazione manichea.
Qualcosa
è andato storto, en archê: eppure, proprio per questo,
l’essere più ilico, più smarrito nelle passioni, nelle tenebre
della Materia, è un’eco dello stupore primigenio di Sofia, che è
uno dei volti del Pleroma. Così, io credo, quell’essere, anche se
non prenderà mai consapevolezza del divino e di sé, anche se non
“possiederà” mai un’anima, sarà parte del Pleroma in quanto
già lo è stato e quindi, essendo il Pleroma l’eterno presente,
già lo è. Ciò non nega la libertà, le dà uno sfondo: tutto è
collegato a tutto, tutto è in tutto, come dicevo. L’espressione
più perfetta e misteriosa di questo legame reciproco mi sembra
essere il tempio, in cui ogni essere ha il suo posto, dal tenero
viticchio che si avvolge intorno al pilastro, al mostruoso e
tormentato demone che lo sorregge. È vero che, da un certo punto di
vista, il demone non è nel tempio, perché non ne è consapevole o
perché non lo accetta: ma la sua volontà corrotta, la sua
conoscenza offuscata è qualcosa di limitato, di frammentario
appunto, qualcosa che ha a che fare con la famosa brutta giornata di
Dio, mentre il suo essere, il suo “corpo”, il suo talento, è
eterno come il sole dietro alle nubi, come il sorriso del teschio
dietro alle mille smorfie della faccia di carne.
Forse
non sono riuscito a spiegare bene i miei sentimenti confusi: di
questo si tratta, perché la verità non si spiega, non è la
risposta a un enigma. Io credo che entrambe le posizioni di partenza
abbiano una loro legittimità, se bene intese: ognuno è nell’anima,
ma non tutti hanno quell’anima, non tutti la conquistano.
Niente va perduto, di ciò che esiste: la sensazione più umbratile e
pigra che mi ha sfiorato ieri, il pensiero sciocco e passionale che
ora attraversa (forse) il mio vicino di autobus, l’ultimo palpito
della mosca schiantata contro il vetro, la vita dispersa e
disseminata nel vetro stesso, mondi dentro ai mondi. Tutto è un
unico essere, per questo ha senso lottare per la luce e con la luce,
riconoscersi figli della luce e non schiavi della tenebra. Da quello
che leggo degli gnostici, anche loro pensavano – e vivevano –
qualcosa di simile.
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