Se un'azione
riconoscibile come intenzionalmente maligna ottiene il suo effetto,
ovvero genera uno squilibrio in chi la patisce, la meccanica delle
passioni esige che sia compiuto un atto simmetrico riequilibrante.
Tale reazione sarà anzitutto simbolica, come è simbolica l'azione
che occasiona lo squilibrio. In questo senso originario ed
elementare, vendetta e giustizia si confondono, esprimono la
necessità di pareggiare la bilancia, di richiudere una ferita, una
lacerazione aperta nel tessuto vivente dei rapporti comunitari,
oppure nel corpo sottile individuale, nella pace e nella neutralità
di un'esistenza. Di fatto la vendetta arcaica, come l'uomo arcaico,
non scevera nitidamente fra l'individuo e il gruppo, la comunità di
sangue in cui è immerso: il mio sangue è stato alterato dal
contagio maligno di un altro sangue, vendetta sarà l'azione
simmetrica o ancor meglio compensatrice per eccesso. La Bibbia pone
all'alba della storia umana il canto di Lamekh, che ripagherà una
ferita o un maleficio con un'uccisione. Caino, il primo omicida, il
primo esule, fondatore della prima città, sarà vendicato sette
volte: Lamekh settanta volte sette (la misura che, con la stessa
logica simmetrica, Gesù imporrà a Pietro per il perdono).
Vendicare deriva
probabilmente da venum dicare, indicare o fissare un prezzo:
la passione individuale chiede il prezzo del sangue versato, del
dominio sul corpo dell'offensore, la comunità pacifica tende a porsi
come intermediario, collocando l'impersonalità divina della legge,
del logos, tra la passione dell'offeso e la passione dell'offensore.
La mediazione assume, sin dall'antichità, la forma del denaro: si
paga una multa, un riscatto, l'amuleto metallico trasferisce su di sé
il valore simbolico del sangue. Bloy dice che il denaro è il sangue
del povero, di Gesù: quando paghiamo le tasse diciamo di aver
versato il nostro sangue, perché il denaro è il corrispettivo di
una proprietà, di un lavoro, dunque di qualcosa che è intrecciato
con il nostro corpo, che fa parte della nostra carne. Ma per le
offese più gravi, come l'omicidio, di solito il denaro non basta: la
logica simbolica, magica, sacrificale, chiede una simmetria visibile,
uno spettacolo sanguinoso.
Nemesis, colei che
sorveglia la bilancia cosmica della giustizia, è vendicatrice. Ogni
nostro atto proietta conseguenze sottili e grossolane, ogni istante è
un incrocio karmico, un crocevia di destino: tessiamo la sorte futura
rimettendo in scena, per lo più come marionette, la sorte dei nostri
avi, che occulti ci scorrono nell'occulto sangue. Karma
significa semplicemente atto: se è compiuto in modo passionale e
dunque passivo, come sfogo di un desiderio, di un attaccamento o di
una repulsione, rafforza l'ego, individuale e collettivo, e ciò che
nella sua esecuzione resta inconscio ritornerà all'esecutore
dall'esterno, come ritorsione divina, come destino duro, refrattario,
ineluttabile. La Bhagavad-Gita insegna che se compiamo l'atto
secondo la logica della celebrazione sacrificale, ovvero non come
individui passionali, marionette del fato, il karma si consuma nel
fuoco dell'attenzione saggia, siamo liberi dai fili che ci manovrano.
La vendetta si compie
comunque. A volte l'idea viene espressa con frasi come: la miglior
vendetta è il perdono, o l'oblio. Rimettere biblicamente o
evangelicamente la vendetta a Dio vuol dire rinunciarvi da un punto
di vista individuale: ma così, come osserva Quinzio, la richiesta di
giustizia non è negata o smussata, anzi si fa immensamente forte, il
desiderio di ritorsione passionale si brucia nel fuoco
dell'invocazione apocalittica, l'impotenza della vittima inerme
diventa partecipazione al paradosso di Gesù, Agnello Sgozzato che
siede come Rex Tremendae Majestatis per giudicare le moltitudini. La
misericordia, l'amore per il nemico, il perdono delle offese
divinizzano l'uomo: lasciare l'offensore sbilanciato, senza la
consueta, per lo più meccanica richiesta di compensazione e di
vendetta, può spaesarlo, affrettarne il giudizio definitivo, a volte
indurlo alla conversione. Questa sembra, da un punto di vista
spirituale, la vendetta perfetta, ovvero la perfetta giustizia: non
solo il male è dimenticato dall'offeso, ma l'offensore lo ha
scontato tutto in se stesso, ha anticipato il destino, non lo ha
atteso dall'esterno, è stato carnefice e redentore di se stesso, in
un certo senso.
L'ascesi, ovvero il
training filosofico e religioso antico, consigliava di ridurre
la reattività alle offese attraverso una indefessa attenzione. Cosa
mi ha fatto davvero, quell'uomo? Cosa può farmi, se io non lo
voglio? Non è dunque l'offesa un atto magico di suggestione, volto a
farmi credere che io potrei perdere l'equilibrio a causa di un evento
esterno – e non, invece, di una resa interiore, come di fatto
avviene? Così il nemico diventa, secondo la parola ascetica di ogni
luogo e tempo, il mio maestro più prezioso. Il prezzo di questa
vendetta è l'annientamento dell'offensore, l'epistrofè
dell'offesa al cuore dell'offeso e dunque la presa di rifugio
nell'interiorità, che considera l'uomo esterno a me e la sua
minaccia alla stregua di un sogno. Eppure questa dissoluzione
sottilmente brutale dell'offensore in me è il preludio al suo
riconoscimento come individualità spirituale autentica, come
persona, e non come nucleo egoico di passioni imposte: riconducendo
al cuore, al centro invisibile il peccato, posso guardare per la
prima volta, faccia a faccia, il peccatore, consapevole di tutti i
fili che mi uniscono a lui. La vendetta è dunque l'evento in cui ci
leghiamo ad un altro in modo speculare, offuscante e inconsapevole –
eppure, proprio per questo, l'occasione per cogliere con uno sguardo
di pura attenzione la connivenza profonda tra me e il nemico, la mano
che gli porgo accogliendo la sua provocazione. Se il groviglio
serpentino diventa per un attimo duello, si illumina in un lampo la
possibiltà di utilizzare le armi sottili della volontà e
dell'intelligenza per tagliare i fili che i burattinai invisibili
muovono al di sopra delle nostre teste surriscaldate.
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