Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 16 gennaio 2012

Tredici glosse sull’ipocrisia



I.

“Che cosa deve fare un ebreo, se non è un uomo pio?” chiese il Rebbe, e rispose: “Deve comportarsi come se lo fosse. L’Onnipotente non esige buone intenzioni. Quelle che contano sono le azioni, quello che importa è ciò che fate. Siete in collera? Siatelo pure, ma intanto parlate con gentilezza e siate affabili. Avete paura di essere ipocriti? Ma che importa se fingete di essere chi non siete? Per chi mentite? Per il vostro Padre che è nei cieli. Il Suo santo nome, sia benedetto, sa qual è l’intenzione e l’intenzione che sta dietro l’intenzione, ed è questo l’importante” (…)
“Se non riesci a essere un buon ebreo comportati da buon ebreo, perché si è quello che si fa” diceva sempre mio suocero. “Se no, che altri motivi ci sono per comportarsi in un dato modo? Prendete gli ubriachi all’osteria, per esempio. Perché non cercano di darsi un contegno?”.
Un giorno il Rebbe aveva detto: “Perché ‘Non desiderare’ è l’ultimo dei Dieci Comandamenti? Perché prima di tutto occorre guardarsi dal fare il male; poi, alla lunga, non si desidererà più farlo. Se si stesse ad aspettare che tutte le passioni svanissero, non si arriverebbe mai alla santità”.
E così accade con tutte le cose. Se non sei felice, comportati come se lo fossi; la felicità verrà dopo. Così accade anche con la fede. Se sei disperato, comportati come se fossi credente; la fede verrà dopo.[1]

Quando il personaggio centrale del racconto di Singer, un vecchio vigoroso e collerico, credente ma del tutto alieno dalla spiritualità, si sente dare una simile consegna da un rabbino chassidico, Chazkele di Kuzmir, maestro di suo genero (la voce narrante), la sua prima reazione è: “Se avesse un solo briciolo di buon senso, il tuo Rebbe saprebbe che non posso soffrire l’adulazione; al solo pensarci mi viene la nausea. Per me un ipocrita è peggio di un assassino”.[2] Eppure sarà proprio l’ipocrisia a curarlo, riplasmarlo, ingentilirlo.
Ipocrisia deriva dal verbo greco hypokrinein, entrare nel dialogo sulla scena, interpretare una parte. Nella sua archè l’ipocrisia è dunque la simulazione, la risposta agli eventi di chi entra nella dialettica della cultura, del sentimento,[3] è la recita come espressione mediata del proprio typos: mediata però dal sentimento stesso, dalla sua capacità di rispondere alle circostanze, di riecheggiarle, di imitarle o di farle risuonare mimeticamente nel gesto, nella messinscena culturale.
Occorre discernere tra questa ipocrisia – che chiamerei l’ipocrisia archetipica – e quella maledetta da Gesù, e distinguere ulteriormente quest’ultima dall’ipocrisia comunemente intesa. Gesù non predicava in greco, ma i Vangeli sono scritti nella koinè dei primi secoli dell’era volgare, e la parola hypokritès, usata soprattutto nelle violente tirate contro i perushim (farisei), al lettore di formazione classica finirà per suggerire il tartufo, il religioso “commediante”, l’eterna caricatura dell’uomo che manipola o subisce la scissione inerente ad una pratica spirituale imperfetta. Ma tale accezione è meglio veicolata dal corrispettivo termine ebraico: in un famoso passo del trattato talmudico Sotah (22b) si dice che non bisogna temere i farisei o i non-farisei, ma “gli ipocriti che scimmiottano i farisei, perché i loro atti sono quelli di Zimri ma si aspettano una ricompensa come quella di Pinchas”.[4] La parola tradotta con ipocriti è tzevuʻin, letteralmente “i dipinti”, “i colorati”: qui l’immagine non è tratta dalla sfera del teatro e dell’oratoria, ma da quella della tintura e della cosmesi.
Si tratta come si vede di due “ipocrisie” ben diverse: quella maledetta da Gesù è l’ipocrisia di un ordine sacro nel suo complesso, un’ipocrisia collettiva e soprattutto inconscia, mentre l’ipocrisia della fantasia popolare e del brano talmudico è soprattutto cosciente, anche se il più delle volte si tratta di una coscienza spezzata, dimidiata, compressa.[5] In un caso come nell’altro, tuttavia, il monoteismo sembra vincolato a vedere nel trickster mercuriale, nell’imbroglione delle favole e dei miti, solo un laido manipolatore e profanatore, e nell’attore, nel travestito, nel declamatore e interprete dionisiaco solo un “cembalo che tintinna” – e un ipocrita. 
La questione merita un approfondimento. Ricordiamo per un attimo il passo finale del racconto di Singer: E così accade con tutte le cose. Se non sei felice, comportati come se lo fossi; la felicità verrà dopo. Così accade anche con la fede. Se sei disperato, comportati come se fossi credente; la fede verrà dopo”. L’insegnamento di Gesù non ha l’aria di un sermone morale, e non è forse così distante dall’uso spirituale dell’ipocrisia, dalla santa ipocrisia del rabbino chassidico. Secondo il cristiano apocalittico Sergio Quinzio, Gesù ha di mira “la tragica ambivalenza dell’ordine sacro, che non può non essere, e attraverso il quale non possiamo non passare… ma che è, insieme, un giogo pesante… il quale, stando al posto della perfetta presenza di Dio, è sempre sul punto di surrogarla idolatricamente”.[6] Un’istituzione religiosa, custode del corpus rivelato, amministratrice dell’attesa e della memoria, non può non essere ipocrita e idolatrica (le due idee sono strettamente connesse). Gesù oppone a tale necessità (che nell’orizzonte abramico non è ananke impersonale ma scandalo, intollerabile prova della fede) quella che potremmo chiamare l’ipocrisia suprema, messianico-profetica, ipocrisia che è tutt’uno con la fede stessa, come l’idolatria, in quanto culto delle immagini, è tutt’uno con la venerazione del Deus revelatus. La “nuova” consegna sarà: Agisci come se il Regno fosse qui ora, senza separazione fra la tua azione e l’attuazione del Regno; sii un cittadino della Gerusalemme Celeste, e l’attesa sarà Incarnazione. “Tutto ciò che chiederete pregando, abbiate fede di averlo già ottenuto, e vi sarà dato” (Mc 11,24).

II.

A quanto pare sin dai primordi dell’umanità tutte le nazioni hanno avuto governi, e tutte se ne sono vergognate. Nulla è più apertamente fallace della fantasia secondo cui in epoche più rozze o più semplici governare, giudicare e punire sembravano atti perfettamente innocenti e dignitosi. Queste cose sono sempre state considerate alla stregua di castighi della Caduta; come parte dell’umiliazione dell’umanità, di per sé cattive. Che il re non possa sbagliare non è mai stato altro se non una finzione legale; e tale è ancora.[7]

Questa sobria riflessione di Chesterton mi sembra gettare una luce inaspettata sull’antica – arcaica – “filosofia” dell’immagine, aiutando a comprenderla in modo meno astratto. Se tutto nell’universo è immagine, se tutto è visto e vissuto per speculum in aenigmate, io non sono un padre: sono l’immagine di un padre (del Padre), per questo è bene ch’io sia trattato come se fossi un padre. Io non sono un uomo: sono l’immagine di un uomo (dell’Uomo). E amerò il prossimo mio come me stesso, come l’immagine infinitamente altra dell’identità che è più me di me stesso. Tale sguardo attento e sospeso non disfa il midollo della vita e non spegne la sua immediatezza: è anzi il vero sguardo binoculare, che rende trasparenti le passioni e fondati i desideri.

III.

Epitteto insegna che i nostri doveri sono commisurati alle relazioni (tois schesesi), colte però nella loro trasparenza archetipica: “‘Ma il mio è un cattivo padre!’ Per la natura delle cose sei forse stato messo in rapporto con un buon padre? No: semplicemente con un padre” (Ench. 30). Devi dunque trattarlo come un padre – come il Padre.
Uno dei “cavalieri” di Eranos, Henry Corbin, geniale riscopritore dell’Islam iranico, ha indicato nell’idea di ʻālam al-mithāl la via per riportare gli archetipi nell’esperienza terrestre, per ricondurre gli dei tra noi: la via regia della psicologia archetipica. Lo ʻālam al-mithāl, da lui tradotto con l’espressione latina mundus imaginalis, il piano ontologico che media fra quello spirituale sovraformale e quello materiale – il piano dell’anima – è mondo delle immagini proprio in quanto “mondo della similitudine”, mondo del come se.[8]
Nel 1978 Hillman scriveva che “le immagini non significano niente” (non sono il rivestimento di concetti, non sono sentieri che guidino ad un significato ulteriore o superiore) e citava Edward S. Casey: l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui si vede.[9] Queste espressioni, così ben intonate con lo spirito del migliore pensiero novecentesco, suggeriscono che gli archetipi sono stili di comportamento, non il “che cosa”, il contenuto dell’immagine, che viene astratto dall’immagine stessa, ma il “come”, l’immagine nel comportamento e il comportamento nell’immagine.

IV.

Compito dell’uomo è impersonare l’archetipo, dargli (nel linguaggio di Ibn ʻArabī) un mazhar, un “ricettacolo epifanico”, un luogo, un dove per la sua manifestazione. Per questo deve prima fare e poi ascoltare (e pensare), secondo la grande parola del Sinai: “Tutto ciò che il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Es 24,7).
Ogni disciplina è creazione di abiti, di abitudini: attraverso le azioni si entra nell’aura, nello stile dell’archetipo che si vuole impersonare e lo si lascia entrare sempre più in profondità, incarnandolo. L’adesione interiore piena, intera, avviene quando si scopre che si è già data un’adesione preliminare, che si è già prestato un assenso, che l’unica via per superare i conflitti della volontà e del pensiero è quella di lasciarsi plasmare da un destino segnato, inciso, radicato in un pragma, in un organismo di azioni significative – ovvero in un mito, una cultura, un nesso archetipico.
Qui non si dà “libertà di scelta”: faremo, e ascolteremo. Anche il Corano parla di un “patto” (mithāq) preesistenziale, in cui tutte le creature hanno dato il loro assenso alla signoria divina (rispondendo “Sì” alla domanda di Allah: “Non mi manifesto io come vostro signore?”[10]). Nelle pagine forse più intensamente autobiografiche di Anna Karenina, Tolstoj fa ritornare il suo Kostja Levin alla fede “materna”, che precede ogni domanda, ogni rovello, che tutto fonda e sostiene nella sua silenziosa permanenza.[11] Per dirla con le parole di Chesterton, c’è nell’uomo “una lealtà che viene ben prima di ogni ammirazione”.[12]
Su questo piano la scelta è hairesis, eresia. Uno dei termini-chiave di Epitteto è invece proairesis, che potremmo tradurre con “decisione preliminare, impegno, voto”. Voto e scelta sono tutt’altro che sinonimi: non sono nemmeno due contrari logici, ma il loro rapporto sembra quello di un’opposizione dialettica. Il voto è una volontà che precede e abbraccia la volontà, che le porge un contesto. Il voto è contenitore, non contenuto: è un grande setting terapeutico che (come ogni setting) sembra contrarre la vita e invece la accoglie e plasma.[13] Implica che ogni cosa – ogni “scelta” e ogni “fatalità” dell’esistenza – venga riferita alla sua priorità, al suo concreto a priori: quindi non si dovrà dire solo tu es sacerdos in aeternum, ma anche tu es pater, magister, maritus etc. in aeternum.
Il matrimonio è un esempio piuttosto impressionante di voto, e ci mostra come del voto si possano dare due letture contrastanti. Da un lato il voto come giuramento: Gesù insegna a non giurare (Mt 5,34), perché noi non possediamo noi stessi, il contenuto della vita, che è contingenza, volontà di Dio; dall’altro il voto come impegno, come contenitore della vita: attraverso di esso restiamo fedeli alla contingenza nella necessità, ritualizziamo la vita, la viviamo al cospetto delle archai, alla luce delle archai, sub specie aeternitatis.

V.

I desideri, le aspirazioni, non possono attendere pienezza dal mondo, dagli altri: ciò è impossibile, è la rettorica nel senso di Michelstaedter, è la nevrosi, la non-iniziazione dell’eros infantile, che nell’adulto si avvelena e avvelena: iniziazione, persuasione sarà appunto capovolgere la prospettiva, morire, rendere embrionalmente presente ciò che si attendeva dal futuro e dall’ipocrisia maligna dei propositi, della scissione interiore, del libero arbitrio angosciato; in tal modo si diventa fecondi, si crea, si è presenti all’archè, al principio. In principio era l’azione (Goethe), ovvero l’azione rituale (Wittgenstein):[14] il rito placa l’angoscia proprio perché ne arresta l’oscillazione illimitata, è redenzione dell’infanzia dalle sue passioni incontrollate (“se non diventerete come bambini”, non “se non ritornerete bambini”), il recupero di un’infanzia passata attraverso il crogiuolo della morte.[15] 

VI.

Da anni ormai mi vado convincendo che la nostra cultura, basata sulla sincerità e sulla realizzazione di sé, ci rende miti e passivi e che il Medioevo e il Rinascimento avevano ragione a basare la loro cultura sull’imitazione di Cristo o di un eroe classico. San Francesco e Cesare Borgia riuscirono a diventare personalità dominanti e creative passando dallo specchio alla meditazione su una maschera.

Se non riusciamo a immaginarci diversi da quello che siamo e ad assumere quel secondo sé, non possiamo imporci una disciplina, anche se possiamo accettarne una da altri. La virtù attiva, che è diversa dall’accettazione passiva di una regola, è perciò teatrale, consapevolmente drammatica, è indossare una maschera […]. Wordsworth, per quanto grande come poeta, è così spesso piatto e tedioso anche perché il suo senso morale – disciplina che egli non si è creato autonomamente, ma è semplice obbedienza – non possiede alcun elemento teatrale.[16]

La rivendicazione moderna dell’“autenticità” è il più delle volte rivendicazione dell’ego, quindi dell’identità falsificata dalle passioni: è l’affermazione (angosciata) del diritto alla passione (“non posso farci nulla”, “è la mia natura”, “quando ci vuole, ci vuole”…). Il rito invece è mediazione, è vidyāmāyā, illusione come sostrato della conoscenza e quindi della verità: nel rito non c’è l’inquietudine egoica della “scelta”, si è già in ballo e si balla, è uno status che si suppone fondato da una parola, da un ordine archetipico e che è dato ripetere-rinnovare come voto, iniziazione.
Come profetizzava Nietzsche, la separazione-opposizione tra verità e apparenza, tra autenticità e finzione, ha portato l’Occidente a cadere nel nichilismo, che è l’esperienza del nulla. Yeats ribadisce quello che è insieme un paradosso e un truismo (come tutti i buoni paradossi e i buoni truismi): l’autenticità è un’illusione, l’essenza della vita è artistica. Non si è se stessi se non indossando una maschera: e per Yeats la maschera è anzitutto un anti-self, un anti-sé o secondo sé, un sé posto di fronte al sé.

VII.

(…) il Daimon non visita ciò che gli è simile ma va alla ricerca del proprio opposto perché l’uomo e il Daimon nutrono la brama l’uno nel cuore dell’altro. Il fantasma è semplice, l’uomo eterogeneo e confuso, e perciò essi si congiungono solo quando l’uomo trova una maschera i cui lineamenti gli permettono di esprimere tutto ciò che non ha (che è forse ciò che maggiormente teme) e solo quello.
(…)
Se penso alla vita come a una lotta con il Daimon, che vorrebbe sempre che ci dedicassimo all’opera più difficile fra quelle non impossibili, comprendo il motivo della inimicizia profonda fra l’uomo e il proprio destino e perché l’uomo ama solo il proprio destino. (…) E allora la mia immaginazione va dal Daimon all’amata, e intuisco un’analogia che sfugge all’intelletto. Penso agli antichi greci che invitavano a cercare le stelle primarie, che governano sia l’inimicizia che l’amore, fra quelle che stanno per tramontare, nella settima casa, direbbero gli astrologi; e che forse “l’amore sessuale” che “è fondato sull’odio spirituale”, è un’immagine del conflitto che esiste fra uomo e Daimon; e mi chiedo perfino se non ci sia una comunione segreta, un mormorio nel buio fra il Daimon e l’amata.[17]

Il daimon, che è più noi di noi stessi, si incontra mettendo sul volto le maschere degli avi: le imagines romane, maschere funebri dei maiores indossate dai discendenti nelle cerimonie solenni. Dobbiamo “diventare” l’anima, il daimon che “siamo”, e quindi diventare la storia, il passato, ma solo e sempre nella sospensione del “come se”, nel mundus imaginalis, sempre per speculum in aenigmate, sempre in modo teatrale, ipocrita. È lo statuto ontologico del daimon – uno statuto mediano e mediatore – a imporre l’ipocrisia artistica, perché noi, a rigor di termini, non “siamo” l’anima e il daimon: la tensione e lo scarto sono ineliminabili. Noi conosciamo noi stessi, secondo il precetto delfico e quindi apollineo, solo nell’alterità dionisiaca dell’immagine, della maschera che, come il daimon, è noi-non noi, nostra-non nostra.
Giustamente Yeats parla della lotta tra noi e il daimon, e la paragona a quella con l’amata: ciò che ci è più prossimo vieta ogni indiscreta intimità, ogni volgare immediatezza. L’amor fati è come l’amore per una donna, che ne è spesso il veicolo: il coraggio necessario ad abbracciare l’ombra e l’alterità non è quello monolitico, unilaterale dell’io solitario, ma un continuo scambio, un gioco di parti, vero perché ipocrita, una fuga sui crocicchi e i trivi di Hermes che sono anche gli incroci e le croci dell’opposizione tragica, di Apollo e Dioniso. 

VIII.

La maschera è il volto del rito: l’identità come dramatis persona, come personaggio del dramma. È l’identità dionisiaca: l’eroe tragico si consuma nel suo daimon, che non è un’identità umana, un io, è anzi in tensione con l’io, è una potenza mediatrice, una manifestazione del dio.
Il destino nobile, tragico, si consuma attraverso l’ananke, è iniziazione al proprio volto eterno; il destino ordinario, comico, si scioglie nel mero spettacolo della tyche. Al mattino la maschera piange, la bocca curvata sotto il giogo dell’individuazione: alla sera ride,[18] il travaglio umano nell’impersonare gli archetipi si fa risata liberatrice (Dioniso Lysios) dalla gravità, gli archetipi sono colti nella buffonesca e ancor più iniziatica contingenza della loro incarnazione (la lacrimosa Caduta si fa grottesco capitombolo, culata).

IX.

Leibniz e Wittgenstein concordano nella visione di un parallelismo tra corpo e mente, anche se la priorità in concreto è del corpo, del segno-carattere che incide, scava e mette in rilievo l’immagine.[19] Wittgenstein nota: “Io penso in effetti con la penna, perché la mia testa spesso non sa nulla di ciò che scrive la mia mano”, quasi riecheggiando una riflessione di Leibniz: “E come in effetti coloro che calcolano apprendono mentre scrivono, coloro che parlano fanno a volte delle scoperte alle quali non pensavano – lingua praecurrente mentem”.
In Schopenhauer il corpo è l’oggettività, la manifestazione immediata della Volontà o cosa in sé, mentre l’intelletto è uno strumento dell’individuazione.
Un aspetto poco osservato, tanto da apparire paradossale, è che il fine del cammino spirituale è il corpo glorioso in cui il mercurio della mente (intelletto-volontà, discorsività, fantasticheria e libero arbitrio) è fissato dallo zolfo del daimon-destino. Vi è come un movimento circolare dal corpo al corpo, e dal corpus della Rivelazione al corpo vivente, trasfigurato ma feriale, ordinario, dell’uomo e del cosmo.
Il grande maestro del Soto Zen, Eihei Dogen Zenji, riassume spesso il suo insegnamento nella formula shikantaza: semplicemente-sedersi, la meditazione zazen non è una pratica che conduca all’illuminazione, ma pratica/illuminazione – è quello che è. Nella pratica c’è tutto, come nel corpus scritto della Torah, anzi, la pratica è tutto.
Tale retorica spirituale è costitutiva dell’insegnamento Zen, ma è disseminata in tutte le tradizioni.
L’opus alchemico non è altro che la scelta e la manipolazione di certe materie – ma questo “lavoro da donne”, questo “gioco da bambini” è anche l’arte ieratica per eccellenza, che trasforma attraverso le corrispondenze simboliche, simultaneamente, l’interiorità dell’operatore e la costituzione dei metalli, ripetendo la creazione del mondo nei contenitori del laboratorio e conseguendo la Pietra, tangibile primizia della resurrezione della carne.
I Padri del Deserto, maestri dell’ascesi cristiana primitiva, non si stancano di consigliare al discepolo assediato dalle tentazioni: “Che il tuo pensiero vada dove vuole, ma che il tuo corpo non esca dalla cella”.[20] La meditazione e l’orazione non sono altro che questo: non uscire dalla cella del corpo, dal temenos del rito, dal setting della pratica, catena e legame che nutre l’anima, religio. Non deporre il giogo del precetto, perché in questa ananke il volto perde, grazie alla maschera ipocrita dell’ascesi, la fissità passionale dell’io e lascia che restino incisi su di lui i lineamenti del carattere, i corrugamenti che sono le tracce di un lungo dialogo con il daimon, con il dio.

X.

“Fa’ buon viso a cattivo gioco”. Cos’altro è la fede? Solo con questa ipocrisia si uniscono i contrari, solo questa maschera, il “buon viso”, fa sì che l’anima riceva l’impronta del nous, dello spirito, e al tempo stesso che emerga, nasca il nous dall’esperienza crepuscolare dell’anima.

XI.

Nel tram davanti a un giovane timido prende posto un’anziana signora dal venerabile aspetto. Il giovane cerca di atteggiare il volto a compostezza, sforzandosi di arginare le ridondanze nevrotiche che sente fluire e scoppiettare attraverso ogni poro. Tale atteggiamento è appunto manifestazione della sua nevrosi, e quindi ipocrisia nel senso giudicato indesiderabile, nella misura in cui è unilaterale, scisso dalla fonte della sua integrità, che è il voto. D’altro canto, “se il folle perseverasse nella sua follia, diventerebbe saggio” (W. Blake, Proverbs of Hell). L’ipocrisia dionisiaca, la maschera come persona del Daimon, è la stessa recita coatta della timidezza, ma la sua unilateralità nevrotica, la sua irrelata passività, cede alla più ampia teatralità del rito, e la “verifica” è innanzitutto estetica: è la sua felicità nel senso di felicitas, fecondità creativa, giustezza, risposta al mondo, mimesi del mondo.

XII.

La morale non è che il commento (aperto, incompiuto) al rito.

XIII.

Anche chi ha scritto queste brevi glosse è un personaggio, un typos, una dramatis persona richiesta dal dialogo del pensiero, dalla sua dialettica, uno hypokrites che risponde alle sollecitazioni dell’Antagonista: e anche la sua maschera è un anti-self, perché solo un moderno ossessionato dall’autenticità, angosciato dalla festa, sradicato dal rito, poteva sciogliere un canto di lode alla sacrosanta ipocrisia.


[1] I. B. Singer, Un consiglio, trad. it. di Anna Bassan Levi, da Racconti, collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1998.
[2] Ibid.                   
[3] La funzione sentimento è (con la funzione pensiero) una delle funzioni razionali, in quanto legata alla valutazione. Nel sistema simbolico classico potrebbe corrispondere al cuore solare come la funzione pensiero al cervello lunare: sarebbe dunque, per così dire, il sole dell’anima o della persona. In essa l’opposizione tra autenticità e finzione (e quindi tra teoretica, etica ed estetica) è conciliata, perché il sentimento percepisce le aure culturali, la trama significativa delle situazioni, non nessi di oggetti e tantomeno oggetti isolati: è interiorità e comunità insieme.
[4] In Num 25 gli israeliti si accampano a Shittim, dove trasgrediscono le loro norme sulla purezza sessuale e matrimoniale congiungendosi con donne straniere e praticando insieme a loro il culto di Baʻal-Peʻor (il Beelphegor della traduzione greca). Tale Zimri introduce nella sua tenda un’amante madianita: Pinchas, il Sommo Sacerdote, li segue e li trafigge entrambi con un solo colpo di lancia, squarciando il “basso ventre” della donna (probabile significato di qavatah): così fu arrestata la “piaga” che decimava Israele. Il passo talmudico significa perciò che l’ipocrita, pur agendo come Zimri, l’idolatra dissoluto, si aspetta la ricompensa destinata agli zelanti (noi diremmo fanatici) come il sacerdote Pinchas. 
[5] Chiamerei la prima “ipocrisia tragica” o “apocalittica” e la seconda “ipocrisia morale”.
[6] S. Quinzio, La fede sepolta, Adelphi, Milano, 1978.
[7] G. K. Chesterton, What’s Wrong with the World, p. 3, ch. VIII, mia traduzione.
[8] L’intuizione metodologica del “come-se” andrebbe studiata nella sua complessa genealogia, che dalla raffinata revisione di Hillman risale, attraverso Adler, all’originale esegesi kantiana di Hans Vaihinger, autore appunto del testo fondamentale Philosophie des Als Ob (1911). Al di là degli spunti pragmatico-costruttivistici, ampiamente sviluppati dalla filosofia del Novecento, ci sembra che la matrice kantiana del concetto resti insuperabile (con tutto il suo portato di dualismo tra cosa in sé e fenomeno, tra verità irraggiungibile e apparenza inconsistente) finché non si recuperi uno sguardo realistico e platonico insieme: come quello di Niccolò Cusano, che definisce congetture le conoscenze umane positive in quanto partecipano della verità nell’alterità, ovvero nell’immagine, e quello dei commentatori neoplatonici di Aristotele come Simplicio, che riconciliano lo Stagirita e gli Eleati assegnando alle proposizioni della fisica (ovvero concernenti il mondo del divenire) uno statuto di verosimiglianza, oggi diremmo di modello o ipotesi.
[9] Entrambe le citazioni in J. Hillman, Enciclopedia del Novecento, voce “Psicologia archetipica”, Treccani, Milano, 1981.
[10] Sura 7 – Le altezze (al-Aʻrāf) – v.172: “Quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli di Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare su se stessi (lett. sulle loro anime): ‘Non sono io il vostro Signore? (alastu bi-rabbikum)’, ed essi risposero: ‘Sì, lo attestiamo (balā shahidnā)’”.
[11] Cfr L. N. Tolstoj, Anna Karenina, p. 8, capp. 12-13. È una sorta di “lingua materna” dell’anima: dunque niente di letteralmente innato o istintivo, ma una sorta di strato primario dell’acculturazione – anteriore all’iniziazione paterna, ma già caratterizzato, in quanto tale, da una differenziazione che è l’operazione stessa del radicamento, dell’accesso alla comunità. Tale linguaggio materno, tale fede materna, non può essere propriamente perduto e forse nemmeno rinnegato: tuttavia lo si può distorcere, camuffare, frantumare e così via. Non è ovviamente una garanzia di salvezza e nemmeno di stabilità: anzi, proprio per questo è essenziale l’intervento paterno, che contrae e ritualizza il rito primario (ponendosi quindi in una posizione inizialmente secondaria, derivata) – le minacce della ninna-ninna vengono portate su un proscenio al tempo stesso più ampio e più ristretto, più illusorio e più trasformante, più rigidamente fissato e più aperto al commento. Non è un caso che Gesù muoia invocando il Padre assente con un testo dei suoi padri morti (un salmo di Davide) cantato nella lingua materna, l’aramaico. Come dire che la fede materna non è che lo sfondo sul quale accade l’iniziazione crocifiggente: non una rete di protezione, ma proprio la tomba – che non si sente e non si può sentire come utero (così come nell’utero non si è sentita la nascita come nascita), ma proprio come vuoto e negazione e proprio nel momento stesso in cui affiora alle labbra, alla memoria, al corpo nella forma del canto.
[12] G. K. Chesterton, Orthodoxy, c. V, traduzione mia. In un altro capitolo (IV) Chesterton porge un koan che è una chiave per l’ipocrisia della fede: commentando la fiaba della Bella e la Bestia, osserva: “una cosa dev’essere amata prima che sia amabile”.
[13] Oppure diciamo: la contrae davvero, ma nel senso che la riscatta dalla sua caotica indeterminatezza, dalla sua presunta e morbosa “spontaneità”.
[14] Solo per la mente moderna l’Azione di Goethe e la Parola del Vangelo giovanneo (e del libro della Genesi) sono distinte e anzi incompatibili: per la mente antica e in special modo per l’uomo biblico, davar è sia la parola-ordine che l’azione-cosa pronunciata-ordinata.
[15] Anche se nelle culture tradizionali, rituali, si tratta di una morte forse più dolce, perché il senso della solitudine individuale è meno sviluppato, ogni individuo è un embrione che nuota nell’utero della comunità e del cosmo ed è accompagnato alla sua maturità, la percezione tragica del mondo è da un lato più forte proprio perché l’occhio è allenato al rito, allo spettacolo, alla recita, ma dall’altro è meno angosciante, meno logorante, meno disperante, proprio perché quell’occhio, quello sguardo, preserva l’individuo dall’insensatezza, dalla lacerazione che accompagna la perdita del rituale.
[16] W. B. Yeats, Per amica silentia lunae, a cura di G. Scatasta, SE, Milano, 2009.
[17] Ibid.
[18] Nel contesto delle Grandi Dionisie, le tragedie venivano rappresentate al mattino, le commedie di sera.
[19] Vedi R. Fabbrichesi Leo, I corpi del significato: lingua, conoscenza e scrittura in Leibniz e Wittgenstein, Jaca Book, Milano, 2000.
[20] Detti e fatti dei Padri del Deserto, a cura di C. Campo e P. Draghi, Rusconi, Milano, 1974.

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