Wittgenstein: “L’amore non è un sentimento. L’amore viene messo alla prova,
il dolore no. Nessuno dice: ‘Quello non era un vero dolore, altrimenti non
sarebbe finito così presto’”. Una sorta di glossa al “debito amore” di Dante,
che per i moderni è una contradictio in
adiecto.
Dunque l’amore è libero, mentre il “sentimento” (non nel senso di Jung), lo
“stato” mentale ed emotivo, non lo è.
La Caduta rende impossibile l’autenticità, o per dir meglio la trasferisce oltre
l’ultimo orizzonte, nel Giorno che rivela a ciascuno il suo vero nome.
L’individuo è un abbozzo, una sezione, un’ombra fuggevole ed elusiva della
persona. L’individuo è la persona caduta nella prospettiva mutilata dell’io, è
l’angoscia del diventare la persona che si è. Se la consistenza, lo spessore
delle causae secundae è il loro
essere in Christo, il loro radicarsi
nel Verbo – la verità della persona è Cristo
stesso, l’Uno-Molti della filosofia antica con un nome e un volto.
Rilke ha intuito che il mito di Narciso merita una lettura diversa da
quella solitamente negativa – moralistica, neoplatonica, psicoanalitica. Amando
l’immagine riflessa Narciso ama davvero un altro, e al contempo se stesso: ma
nell’estasi erotica, nel salto della nascita-morte l’identità è dimenticata, perduta,
offerta, e risorge come il torpido aroma di un fiore. Per diventare frutto,
Narciso oltre all’eros dovrebbe
sperimentare l’obbedienza, la hypakoè.
L’obbedienza è l’ipocrisia suprema: supera l’incantesimo erotico dell’occhio –
al livello del quale l’ipocrisia è “pittura”, trucco superficiale – con la
profondità dell’ascolto (hyp-akoè)
tutto proteso al Verbo. All’inizio l’uomo la sperimenta come doppiezza: il
Verbo è una spada a doppio taglio che separa l’anima dallo spirito, ma come
nella Genesi, per imprimere al caos della falsa immediatezza (l’immediatezza
caduta) la direzione del kosmos, in
cui interno ed esterno corrispondono armoniosamente (come profetizza la
preghiera di Socrate nel Fedro,
culmine della rivelazione erotica). In tal modo si è semplici come colombe –
volti a un telos che tutto unifica,
spiritualmente monogami – e astuti come serpenti – capaci di aggirare
omeopaticamente la doppiezza del Serpente con il taglio operato in noi
dall’obbedienza.
Nella Bibbia la gloria è una veste: la nudità è impurità, maledizione,
devastazione. L’essenza, l’interiorità di qualcuno, di qualcosa, è panìm, il suo “volto”. Persona è la “maschera”, l’“attore
giuridico”, perché l’identità trinitaria è relazionale (non come accidente
inerente a una sostanza, perché nulla in Dio è accidentale: ma
“relazione-sostanza”, secondo l’espressione di Florenskij, la relazione
personale come epifania essenziale, una
substantia in tribus personis).
Poiché l’identità è trinitaria, non si dà un’immediatezza negativa,
letterale: ma il Padre si nasconde, il Figlio sperimenta l’abbandono, lo
Spirito geme ineffabilmente. Nella creatura ciò si manifesta come libertà: lo statuto di quanto è
imperfetto e insieme divino, di quanto è in
Deo. Nella creatura caduta l’identità si svela infinitamente non solo e non
tanto attraverso gli altri, ma negli
altri e come gli altri. Amerai il prossimo
tuo come te stesso: non è una
similitudine, che separa, ma l’intuizione vissuta di un vincolo che unifica
senza dissolvere. Siamo tutti colpevoli di tutto davanti a tutti, diceva il
fratello di Zosima nei Karamazov:
l’unità del purgatorio che è già intimamente paradisiaca.
La Torah non inizia con la prima lettera, la alef, ma con la seconda, la beth,
che come preposizione (“in, attraverso”) indica inerenza, località, mediazione
– relazione.
L’ipocrisia è l’imitatio Dei nel tempo intermedio dell’attesa: la
Legge non può essere osservata perché la volontà dell’uomo è incatenata e il
suo occhio interiore offuscato, ma vivendo alla luce del comandamento, votati
al comandamento, si riceve la grazia di incarnarlo, di non essere più
all’esterno del comandamento, ma la sua manifestazione nel mondo.
L’espressione perfetta dell’ipocrisia messianica in dialettico e potente
contrasto con l’ipocrisia dell’ordine sacro costituito: “Quando digiunate, non
diventate scuri in volto come gli ipocriti, poiché essi annientano i loro volti
affinché sia manifesto agli uomini che stanno digiunando: amen, io vi dico,
hanno già ricevuto il loro salario. Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e
lavati il volto, affinché non sia manifesto agli uomini che digiuni, ma al
Padre tuo che è nel segreto. E il Padre tuo che vede nel segreto ti
ricompenserà” (Mt 6, 16-18).
L’ipocrita “religioso” è in tristitia
tristis: manifesta sul volto la tristezza del digiuno, del lutto,
dell’esilio, fa del volto una maschera dell’interiorità esule, della lacerante
attesa. L’ipocrita che annienta il proprio volto sta biblicamente annientando
il proprio cuore, e in tal modo si intona debitamente allo spirito di nostalgia
dell’esilio; ma l’esilio portato sul volto ha concluso la sua parabola, arrestato
il suo dinamismo, gli uomini lo vedono, lo imitano e hanno già il loro salario,
la consolazione rituale di sperimentare la vicinanza alla Shekhinah divina esiliata. Proprio perché lacerante, l’attesa chiede all’uomo di essere in tristitia hilaris: il volto sia festoso, quindi anche il cuore,
per quanto possibile; si anticipi ipocritamente il banchetto del Regno, e il
dolore stia lì, come una terra scura, un humus
calpestato – dove solo Dio, il vero attore dell’esilio, possa vederlo, cioè
assumerlo in sé. In tal modo il Padre apodosei
soi, ti darà la ricompensa che hai già iniziato ad impersonare, a manifestare: ovvero, secondo il primo significato
del vero apodidomi, “restituire”, ti
restituirà te stesso, la tua identità prima e ultima, oltre doppiezza e
autenticità.
Accusando di ipocrisia la legge religiosa antica per il suo atteggiamento
nei confronti della sessualità, ad esempio quella che oggi si chiama
sbrigativamente omosessualità ed è l’espressione sessuale dell’omoerotismo, si
dice la parola opportuna senza comprenderne l’opportuno significato, come Caifa
nel sinedrio. Il concetto di omosessualità non poteva nascere nell’“ipocrita”
mondo antico: infatti è nato nel sentimentale e brutale mondo moderno, nel XIX
secolo positivista e sottilmente sadiano (la “natura insopprimibile”
alternativamente colpevolizzata o giustificata). La legge religiosa proibiva
certi atti: perché l’esistenza umana è un rito, e il rito è un temenos, uno spazio circoscritto che
opera un taglio, una scelta fra tutti gli atti possibili. Si obietterà che
condannare alcuni atti equivale a condannare l’individualità che li compie, la
struttura interiore che in essi si manifesta: ma anche in questo caso è un
giudizio che si attaglia molto di più alla nostra epoca e al suo culto
dell’autenticità e dell’individuo. La comunità antica non escludeva alcun sentimento,
perché sapeva che il sentimento non è in nostro potere, e nella sua radice è
creazione di Dio: vietava l’atto, non perché questo sia davvero in nostro
potere in senso astratto, pelagiano, ma perché il divieto dell’atto è un
limite, un orizzonte, una forma per l’itinerario dell’anima. Il sentimento,
l’esigenza profonda non solo non era negata, ma si trovava indirizzata ad una
sfera di espressioni molto ricca e articolata: veniva benedetta come ogni
creatura. Osserva J. M. Langer che la vita spirituale ebraica si è mantenuta
per secoli sull’equilibrio tra l’eros
paideutico che lega maestri e allievi e gli allievi fra di loro e la grande
mistica dell’unione nuziale: l’affettività profonda tra persone dello stesso
sesso era chiamata ad un comune cammino di santificazione, purché l’atto
sessuale restasse riservato al sacerdozio domestico, nuziale. Questa è
ipocrisia: ma ipocrisia che invece di mutilare plasma. Oggi l’amore tra persone
dello stesso sesso, assediato dall’onnipresente retorica dell’autenticità, dei
diritti, dello status naturale, è
invece mutilato come tutti gli amori, condannato ad essere una variante
emarginata (quindi alternativamente vergognosa e orgogliosa, come i poveri e
tutte le altre “minoranze”) del gran mercato capitalistico dei sentimenti,
un’opzione inessenziale nell’esistenza da schiavo dell’homo oeconomicus.
L’atteggiamento del religioso dei
nostri tempi nei confronti dell’omosessuale è caratterizzato da quell’ipocrisia
inconscia e tragica che accompagna da sempre e per sempre la permanenza
dell’ordine sacro. Il religioso non sembra accorgersi quasi mai che
l’“omosessualismo” moderno è l’altra faccia di un “eterosessualismo” per lo più
sconosciuto ai nostri maiores: l’idea
che l’amore sessuale tra l’uomo e la donna sia “normale”. Su questo punto la
distanza tra credenti e non credenti non è essenziale: il più delle volte
entrambi ignorano che si tratta di un vino orribilmente nuovo, lo spirito
dell’epoca, negli otri tragicamente vecchi del matrimonio o della passione
sottratta al rito, alla piazza, alla comunità. Quando sentiamo che qualcosa è
giustificato, invece che sospeso alla misericordia benedicente di Dio, abbiamo
già ricevuto il nostro salario, il vino che consola per un po’ nella marcia
dell’esilio. Ma l’ipocrisia della fede è stupida di stupore nei confronti del
rito cui si sottomette; non giudica: mette in scena, celebra, e attende.
Il “secondo me” dei moderni è una di quelle ridondanze che tradiscono il
carattere di un’epoca. Nella discussione,
nella dialettica, come insegna Florenskij, si foggia una dramatis persona, un tipo, un personaggio, non si esprime “se
stessi”. La complessità multidimensionale della persona non può esprimersi ed
essere conosciuta direttamente e conclusivamente, come Dio non può essere conosciuto
in sé, nella sua essenza.
L’ipocrita
è un essere appeso al filo: il suo ego, l’aggregato degli stati corporei e
mentali, è un burattino di legno mosso dal Burattinaio che è nei cieli. Per
diventare un figlio di carne deve sapere che, in questo preciso momento, non è
altro che un Pinocchio, una marionetta, thauma,
secondo la pregnante parola platonica.
Al
termine del viaggio l’eroe arriva davanti ad una porta, infera e celeste, che
deve varcare. I suoi battenti sono le coppie dei contrari: per entrare l’eroe
dev’essere in tristitia hilaris e in hilaritate tristis, sperare nella
disperazione e disperare di ogni cosa nella speranza. L’eroe supera la soglia
“senza chiedere il permesso”, come dice il Talmud, sa che è un suo diritto di
nascita, ma non può esserne sicuro: il suo è anche un bluff, oltre alla semplicità del coraggio gli occorrerà mostrare la
doppiezza dell’ipocrisia, aggirare il guardiano “con molli discorsi”, secondo
l’espressione di Parmenide.
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