Il bambino che gioca con
la bambola sta compiendo un embrionale apprendistato alla magia:
devolve la propria fede immaginale, la proietta su un ricettacolo
materiale che gliela restituisce, lo allucina, lo incanta. In questo
modo può creare un mondo, e anche ovviamente restarvi intrappolato,
come ogni demiurgo.
Può il bambino sapere
ciò che fa con la bambola, può l'adulto sapere ciò che fa con le
immagini della cultura e della religione, con gli idoli e le icone
degli dei e degli eroi? Può saperlo solo in modo dionisiaco, alla
maniera dell'attore: se la sua consapevolezza non è umida, ubriaca,
l'idolo è spezzato, ma anche l'embrione del dio muore. D'altro
canto, però, se non vi è doppiezza, riflessione, senso del rito, la
bambola vampirizza il suo operatore e demiurgo, il dio si erge in
un'alterità che è il riflesso luminoso, ma altrettanto bruciante,
della tenebra diabolica. Il diavolo, infatti, è l'idolo della
potentia, potenza pietrificata: non può consistere, se non
nell'anima divina di un uomo; e nella religione dualistica, che non
rinuncia all'ego, l'ombra dell'ego, l'ombra satanica che è l'ego, ha
la sua parte indiscussa e indiscutibile. Solo le ironie del sacro,
che modulano la serpentina, ermetica doppiezza di Sofia, vedono in
trasparenza il Serpente, lo tengono lontano e al contempo ne aprono
il ventre, dove si celano tesori.
L'uomo acquariano sarà
mago? Vedrà in trasparenza, e dunque scioglierà intimamente, le
coagulazioni della tecnica tardo-pesciana? Chesterton osserva, con
finezza, che il devoto estatico della tecnica non può esserne un
buon utente: ma il mago non è identificabile con il bhakta.
Di solito lo sciamano emerge carico di trucchi dalla solitudine
tenebrosa di una caverna, di un ritiro disadorno, bestiale: proprio
perché ha tagliato i legami passivi con la magia collettiva può
essere attivamente mago. Ma sul piano culturale, epocale, è
pensabile un recupero della sensibilità magica, dell'aisthesis che
coglie le aure, gli archetipi manifesti, le immagini? L'ingorgo dei
nostri giorni induce a credere che urga un impulso segreto, che stia
per gorgogliare un fermento incontenibile negli otri vecchi del mondo
delle merci, con la sua magia soffocante, avvilente, totalitaria.
Plutone come dominatore
del secolo capitalistico-consumistico. Il gelo del narcisismo, la
vampirizzazione da parte dei modelli-merce, in cui ci si trasfonde,
liquefatti e rifatti come Narciso*. Il denaro come potenza ctonia
incoercibile, flusso informe di vita scaturente dalla morte, dalla
dissoluzione illusionistica del gioco finanziario, dai vincoli
karmici del debito con le generazioni passate (verticalmente, nel
tempo) e presenti (orizzontalmente, nello spazio). Plutone svergina
Kore, l'anima ingenua, Cappuccetto Rosso ammaliata dai narcisi, e ne
fa Persefone, la regina dei morti, luna sotterranea, oscura, centro
di gravità depressivo, richiamo distruttivo e iniziatico. Hades è
lo stesso che Dioniso, insegna Eraclito: nel pianetino gelido c'è la
scintilla alcoolica del rivoluzionario, del bisessuale, dello
scuotitore di case e di città.
Nella tensione tanatica
del consumismo, sul rovescio del suo stampo, c'è forse un desiderio
di essere di nuovo iniziati alla magia, alle arti della vinculatio.
[*Il nesso tra Plutone,
in particolare la scoperta del pianetino lento, e il narcisismo come
patologia collettiva è stato suggerito da Federico Gizzi].
Il
mondo contemporaneo è pieno di sacro come un cartellone
pubblicitario è pieno di colori. I colori dello spot sono, appunto,
spots,
macchie disposte secondo un disegno insieme anarchico e sofisticato,
come una vinculatio
che consiste nella sequenza o nel polifonico intreccio di nomina
barbara
insensati e precisi.
Di
fronte al potlach
sanguinoso del Quindici-Diciotto, un’ecatombe azteca è come un
passo di danza classica di fronte allo scatenarsi di orgiasti. Di
fronte alla giornata di un uomo-massa in una megalopoli retta da
Mammona, il tessuto di obbligazioni, riti e griglie mitologiche che
innerva la quotidianità di un Dogon è come un racconto di Esopo di
fronte a un midrash
di Kafka. Certo, nella megalopoli manca un Ogotemmeli: l’esoterista
del tramonto dell’Occidente, di solito un economista non ignaro
della multidimensionalità del suo oikos,
ha la scientia,
ma non la sapientia.
Il punto
è questo, come si suol dire con profonda banalità.
Il
testo più esotericamente fecondo su questo punto
mi sembra un aggrovigliato frammento di W. Benjamin, Der
Kapitalismus als Religion.
Vi si trova, con quella conjunctio
di disperazione malinconica e arroventata proiezione rivoluzionaria
che è tipicamente ebraica (penso a Shabbatai Zevi, da
Shabbatai-Saturno, pianeta della contemplazione, della rovina storica
e della catastrofica genialità messianica), l’oracolare intuizione
di una insuperabilità del capitalismo-religione nell’orizzonte del
sacrum
e della Erlebnis:
il capitalismo è una religione che affonda le radici nelle
profondità plutoniche, dunque nel sacrum
più prossimo all’Urgrund
e all’Ungrund,
e il suo essere la prima religione puramente
cultuale
della storia (quindi una religione in cui il rito
diventa agito,
complesso autonomo della psiche promosso a esperienza spirituale
comune delle moltitudini, di tutti e di ognuno, di ognuno e di
nessuno) fa sì che assorba e assimili ogni conatus
di esperienza alternativa, a qualunque livello di essoterismo e di
esoterismo.
Le
fratrie sorte dopo la dissoluzione dell’ordo
medievale
per preservare il seme aureo e trasmutatorio nel pozzo dell’esilio
sono condannate a una ordalia perpetua: o dissolvono ogni slancio
operativo ed esperienziale nel mestruo ermetico dell’interpretazione
permanente, dell’ironia che è il fermento rivoluzionario nel tempo
delle God’s
spies,
oppure sui loro tentativi pendono gli ambigui, accecanti versetti del
Dao-de-jing
– non puoi maneggiare il vaso dell’impero, non puoi governare il
popolo, non puoi agire
(né sulla scena visibile-tangibile, né su quella sottile). Le
radici possono essere coltivate, non fatte.
Lo stesso insegna un taoista vigile come scolta fra alba e tramonto,
che tanto è esoterico nel suo magnum
opus
narrativo, tanto è petulante e unilaterale nella sua predicazione
religiosa – Tolstoj. Guerra
e pace
è una compatta e articolatissima meditazione sull’inutilità e
l’impossibilità dei piani, degli interventi, dei disegni, occulti
o mondani, esoterici o militari: si tratti dei massoni più
addottrinati o degli strateghi prussiani più intelligenti e dotati.
Lo spirito del popolo, il vero esoterikon,
vive nei proverbi e nelle filastrocche di Platon Karataev,
nell’indolenza medievale di Kutuzov, tanto succosa e carica di
spessore culturale e spirituale da sembrare vuotaggine decadente,
l’eterna caricatura della resistenza passiva dell’orientale,
della sua oppiata pesantezza di movimenti e di volizioni.
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