Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 21 dicembre 2013

Gastric Flu Notes



Il bambino che gioca con la bambola sta compiendo un embrionale apprendistato alla magia: devolve la propria fede immaginale, la proietta su un ricettacolo materiale che gliela restituisce, lo allucina, lo incanta. In questo modo può creare un mondo, e anche ovviamente restarvi intrappolato, come ogni demiurgo.
Può il bambino sapere ciò che fa con la bambola, può l'adulto sapere ciò che fa con le immagini della cultura e della religione, con gli idoli e le icone degli dei e degli eroi? Può saperlo solo in modo dionisiaco, alla maniera dell'attore: se la sua consapevolezza non è umida, ubriaca, l'idolo è spezzato, ma anche l'embrione del dio muore. D'altro canto, però, se non vi è doppiezza, riflessione, senso del rito, la bambola vampirizza il suo operatore e demiurgo, il dio si erge in un'alterità che è il riflesso luminoso, ma altrettanto bruciante, della tenebra diabolica. Il diavolo, infatti, è l'idolo della potentia, potenza pietrificata: non può consistere, se non nell'anima divina di un uomo; e nella religione dualistica, che non rinuncia all'ego, l'ombra dell'ego, l'ombra satanica che è l'ego, ha la sua parte indiscussa e indiscutibile. Solo le ironie del sacro, che modulano la serpentina, ermetica doppiezza di Sofia, vedono in trasparenza il Serpente, lo tengono lontano e al contempo ne aprono il ventre, dove si celano tesori.

L'uomo acquariano sarà mago? Vedrà in trasparenza, e dunque scioglierà intimamente, le coagulazioni della tecnica tardo-pesciana? Chesterton osserva, con finezza, che il devoto estatico della tecnica non può esserne un buon utente: ma il mago non è identificabile con il bhakta. Di solito lo sciamano emerge carico di trucchi dalla solitudine tenebrosa di una caverna, di un ritiro disadorno, bestiale: proprio perché ha tagliato i legami passivi con la magia collettiva può essere attivamente mago. Ma sul piano culturale, epocale, è pensabile un recupero della sensibilità magica, dell'aisthesis che coglie le aure, gli archetipi manifesti, le immagini? L'ingorgo dei nostri giorni induce a credere che urga un impulso segreto, che stia per gorgogliare un fermento incontenibile negli otri vecchi del mondo delle merci, con la sua magia soffocante, avvilente, totalitaria.

Plutone come dominatore del secolo capitalistico-consumistico. Il gelo del narcisismo, la vampirizzazione da parte dei modelli-merce, in cui ci si trasfonde, liquefatti e rifatti come Narciso*. Il denaro come potenza ctonia incoercibile, flusso informe di vita scaturente dalla morte, dalla dissoluzione illusionistica del gioco finanziario, dai vincoli karmici del debito con le generazioni passate (verticalmente, nel tempo) e presenti (orizzontalmente, nello spazio). Plutone svergina Kore, l'anima ingenua, Cappuccetto Rosso ammaliata dai narcisi, e ne fa Persefone, la regina dei morti, luna sotterranea, oscura, centro di gravità depressivo, richiamo distruttivo e iniziatico. Hades è lo stesso che Dioniso, insegna Eraclito: nel pianetino gelido c'è la scintilla alcoolica del rivoluzionario, del bisessuale, dello scuotitore di case e di città.
Nella tensione tanatica del consumismo, sul rovescio del suo stampo, c'è forse un desiderio di essere di nuovo iniziati alla magia, alle arti della vinculatio.

[*Il nesso tra Plutone, in particolare la scoperta del pianetino lento, e il narcisismo come patologia collettiva è stato suggerito da Federico Gizzi].

Il mondo contemporaneo è pieno di sacro come un cartellone pubblicitario è pieno di colori. I colori dello spot sono, appunto, spots, macchie disposte secondo un disegno insieme anarchico e sofisticato, come una vinculatio che consiste nella sequenza o nel polifonico intreccio di nomina barbara insensati e precisi.
Di fronte al potlach sanguinoso del Quindici-Diciotto, un’ecatombe azteca è come un passo di danza classica di fronte allo scatenarsi di orgiasti. Di fronte alla giornata di un uomo-massa in una megalopoli retta da Mammona, il tessuto di obbligazioni, riti e griglie mitologiche che innerva la quotidianità di un Dogon è come un racconto di Esopo di fronte a un midrash di Kafka. Certo, nella megalopoli manca un Ogotemmeli: l’esoterista del tramonto dell’Occidente, di solito un economista non ignaro della multidimensionalità del suo oikos, ha la scientia, ma non la sapientia. Il punto è questo, come si suol dire con profonda banalità.
Il testo più esotericamente fecondo su questo punto mi sembra un aggrovigliato frammento di W. Benjamin, Der Kapitalismus als Religion. Vi si trova, con quella conjunctio di disperazione malinconica e arroventata proiezione rivoluzionaria che è tipicamente ebraica (penso a Shabbatai Zevi, da Shabbatai-Saturno, pianeta della contemplazione, della rovina storica e della catastrofica genialità messianica), l’oracolare intuizione di una insuperabilità del capitalismo-religione nell’orizzonte del sacrum e della Erlebnis: il capitalismo è una religione che affonda le radici nelle profondità plutoniche, dunque nel sacrum più prossimo all’Urgrund e all’Ungrund, e il suo essere la prima religione puramente cultuale della storia (quindi una religione in cui il rito diventa agito, complesso autonomo della psiche promosso a esperienza spirituale comune delle moltitudini, di tutti e di ognuno, di ognuno e di nessuno) fa sì che assorba e assimili ogni conatus di esperienza alternativa, a qualunque livello di essoterismo e di esoterismo.
Le fratrie sorte dopo la dissoluzione dell’ordo medievale per preservare il seme aureo e trasmutatorio nel pozzo dell’esilio sono condannate a una ordalia perpetua: o dissolvono ogni slancio operativo ed esperienziale nel mestruo ermetico dell’interpretazione permanente, dell’ironia che è il fermento rivoluzionario nel tempo delle God’s spies, oppure sui loro tentativi pendono gli ambigui, accecanti versetti del Dao-de-jing – non puoi maneggiare il vaso dell’impero, non puoi governare il popolo, non puoi agire (né sulla scena visibile-tangibile, né su quella sottile). Le radici possono essere coltivate, non fatte. Lo stesso insegna un taoista vigile come scolta fra alba e tramonto, che tanto è esoterico nel suo magnum opus narrativo, tanto è petulante e unilaterale nella sua predicazione religiosa – Tolstoj. Guerra e pace è una compatta e articolatissima meditazione sull’inutilità e l’impossibilità dei piani, degli interventi, dei disegni, occulti o mondani, esoterici o militari: si tratti dei massoni più addottrinati o degli strateghi prussiani più intelligenti e dotati. Lo spirito del popolo, il vero esoterikon, vive nei proverbi e nelle filastrocche di Platon Karataev, nell’indolenza medievale di Kutuzov, tanto succosa e carica di spessore culturale e spirituale da sembrare vuotaggine decadente, l’eterna caricatura della resistenza passiva dell’orientale, della sua oppiata pesantezza di movimenti e di volizioni.

Nessun commento:

Posta un commento