Daniele Capuano saluta con amore benedicente il
suo Amalrico di Chartres.
Nella mia ultima lettera,
carissimo amico e fratello, ti ho promesso una breve e
necessariamente manchevole descrizione del modo di vivere degli
uomini della mia età. Dovrò raccontare cose a stento credibili per
chi, come te, è avvezzo a costumi quali oggi nemmeno i pochi
chiamati ad una vita di perfezione possono seguire senza una costante
veglia del cuore e una ininterrotta fatica dello spirito.
Nel secolo in cui sono
nato, il ventesimo dell'era cristiana, quasi tutti gli esseri umani
erano persuasi che il fine della vita fosse la permutazione di merci
e di denaro, e il compimento delle antiche speranze su questa stessa
terra, attraverso l'invenzione, la fabbricazione e la diffusione
presso il massimo numero di persone di strumenti sempre più
raffinati. Non mi è facile spiegarti cosa intendo qui con la parola
'strumenti': noi diciamo 'tecnica', un termine di origine greca che
indica, come sai, l'arte umana, l'applicazione dell'ingegno umano
alla materia creata da Dio. A un certo punto la sazietà verso le
dottrine dei Padri, che proponevano una ragionevole felicità in
questo mondo come mezzo per raggiungere la pienezza della beatitudine
nel mondo celeste, è stata accompagnata da una straordinaria
ebbrezza per le possibilità che si aprivano sulla terra, una volta
allontanata l'immagine del Regno divino, che in verità molti dei
vostri filosofi e teologi avevano già resa, se non proprio indegna
di desiderio, almeno remota e quasi inattingibile. Questa ebbrezza,
però, come il naturale slancio di una adolescenza prodiga, lieta
d'essersi liberata dalla servitù della casa paterna, si è col tempo
mutata in una ardente disperazione: a volte generosa, piena di
giovanile bellezza, come in quelle rivolte guidate da idee di origine
divina che noi chiamiamo 'rivoluzioni', intendendo con questa parola
un volgersi dell'uomo su se stesso, intorno al proprio asse – ed è
qualcosa di simile a ciò che nel vangelo è detto conversione o
metanoia – per girare armoniosamente intorno al Sole della
Verità e della Giustizia (ti ho già raccontato del ciclo dello
spirito che fu inaugurato, circa cinque secoli fa, dagli studi
meravigliosi degli astronomi, paragonabili a quelli che condussero i
magi persiani alla mangiatoia di Betlemme). Ma un fuoco non custodito
si spegne, e lascia un letto di ceneri grige: così quel giovanile
fermento, poi divenuto giovanile disperazione, si inacidì presto in
una senile stanchezza. Mi potrai obiettare, saggio come sei, che
nelle ceneri si cela pur sempre il sale di una palingenesi: non sarò
io a negarlo, ma i miei antenati, pur non potendo rescindere
completamente i legami con gli insegnamenti perenni, ne mantennero
per lo più una reminescenza oscura, che andò a fecondare visioni
profetiche non nutrite, però, dalla terra buona della contemplazione
e della testimonianza spirituale. Quella stanchezza, quel disgusto
sia per la vicina e perduta giovinezza che per l'antico ordine ormai
sfigurato e infranto, venne chiamato da alcuni saggi 'nichilismo',
ovvero, potrei dire, scienza del nulla, sapere del nulla: ma ti prego
fin d'ora di non applicare a questo nuovo parto del fallibile spirito
umano le misure del tuo tempo, forse più semplice, certo meno
torturato dai dubbi e ancor meno da risposte puramente umane ai dubbi
stessi. Non era, non è (ancora la mia età si dibatte fra le spire
di queste controversie) una mera resa al demonio, all'orgoglio della
disperazione che la tua teologia ben discerne: potrei paragonarlo, in
modo assai imperfetto, con l'unico fine di avvicinarlo al tuo
intendimento, all'inconsapevole attesa che bruciava nel petto dei
pagani poco prima che nascesse Cristo, o ancor meglio ad un'angoscia
di morte simile a quella che volle gustare Cristo nel Getsemani, ma
un istante prima della decisione redentrice. In breve, c'era e c'è
in quel 'nichilismo' qualcosa dell'apocalisse o rivelazione delle
cose ultime con cui termina la Scrittura e quindi il dicibile umano e
divino: d'altronde, il nulla è la materia da cui Dio trae le
creature, a meno che non ristagni nell'anima, diventando il trono
dell'Avversario, l'abisso della morte eterna. Non è un caso che un
testimone cristiano di quegli anni parlasse tanto di angoscia, di
quel poter essere e non essere che toglie il respiro, ed oltre il
quale non c'è che il Respiro divino, lo Spirito, o l'annegamento.
Già da molto tempo le
terre cristiane erano dominate da quelle passioni contrarie alla
legge di cui ti facevo cenno all'inizio: la fabbricazione di
strumenti sempre più raffinati, la loro diffusione presso tutti gli
uomini come pegno della liberazione dalla miseria, dall'aspra
necessità, lo scambio delle merci e del denaro, che per te sono come
minimo attività pericolose, da limitare e frenare; e quell'idea così
diabolica, così antica, ma che solo allora guidò popoli interi come
un codice, ovvero che l'avidità dovesse spegnere la fraternità, che
l'accrescimento dei propri beni dovesse soffocare il ricordo di ciò
che è piccolo e umile, dell'immagine divina nel prossimo. Anzi, e so
che questo ti riuscirà quasi incomprensibile, a meno di non
intenderlo come un'astuzia dei potenti della terra per angariare i
deboli in tutta sicurezza e impunità, molti sapienti dicevano
secondo la loro coscienza che il soddisfacimento sfrenato delle
passioni individuali – all'epoca si parlava soprattutto della
passione di avidità – avrebbe condotto col tempo al maggior bene
comune, anche se questo doveva comportare la rovina e la miseria di
numerosi fratelli. Vedi, amico, come il potere dell'intelleto
disponeva liberamente della carne degli uomini – proprio perché di
essa non si curava già mentre dava forma alle sue idee.
Nel secolo in cui sono
nato i cristiani hanno dichiarato due guerre straordinariamente
brutali, in cui anche gli altri popoli hanno versato il loro sangue,
e che hanno mostrato qual era la capacità mortale degli strumenti
sempre più perfetti fabbricati nei decenni precedenti. Non sono
state guerre simili a quelle che si combattevano ai tuoi tempi: non
gli uomini guerreggiavano, ma gli strumenti bellici (ho ritegno a
chiamarli armi) manovrati dagli uomini; e i loro reggitori non erano
sovrani o senati o altre assemblee, ma tutti muoveva quella
permutazione universale, la stessa in cui erano afferrate le merci e
il denaro. Il che dà ragione, io credo, del successivo e sempre
crescente senso di impotenza non solo tra le plebi, ma anche tra i
loro chierici e i ricchi e i dominatori, un'impotenza che rendeva
inutili e vane tutte le differenze di conoscenza, di opulenza e di
potere: e non ti paia incoerente con quel che ti ho brevemente
raccontato una volta, ovvero che proprio in quegli anni certi tiranni
riuscirono a incantare i popoli cristiani e pagani accendendo in loro
passioni smisurate e funeste. Non vi è nulla, infatti, che attragga
e quasi evochi uno stregone o un demagogo come l'impotenza delle
genti, come l'intima sensazione che tutto sia inesorabile: e un bene
inesorabile non è che un male moltiplicato.
Dopo la seconda di quelle
guerre, che imitarono la passione sterminatrice di Gog e Magog senza
però mostrare all'orizzonte le armate del Secondo Avvento, non fu
più necessario incantare con la violenza: la stanchezza dei vinti e
l'orgoglio dei vincitori congiurarono nel creare un ordine sociale e
civile in cui l'impotenza generale potesse distendersi come su un
pagliericcio tiepido e confortevole, e non si parlò d'altro che di
sicurezza, di pace, di comodità, di 'sviluppo' – questa parola che
a te suggerirà l'estrarsi da un viluppo, da un impaccio, il pieno
manifestarsi di un'entelechia, e invece significava per noi tutti un
allargamento dei confini di questo ordine sicuro, pacifico e
inalterabile. Come senz'altro già comprendi, carissimo amico, non
era più il Regno dell'Uomo sorto dalla perturbazione dell'ordine
antico, quell'adolescenza dell'uomo cristiano a cui si dava
volentieri il nome di 'era moderna' (altro termine che i Padri
riferivano al secolo nuovo abrogatore del gentilesimo) e di cui ti ho
scritto sopra. Mi chiederai come mi piaccia chiamarlo. Non te l'ho
ancora descritto a sufficienza, ma provo a spiegarti che, se il Regno
anteriore pretendeva di essere il regime dell'individuo, separato
dall'ordine e dalla comunione dei suoi padri, il nostro Regno
potrebbe dirsi il regime di una comunione senza individui e senza
persone: in cui la libertà di agire secondo l'immagine divina è
consegnata alla tutela di padroni che nessuno incontra mai;
l'eguaglianza proclamata dalla dottrina è rivendicata come parità
nell'ottenimento di comodità e sicurezza, cui provvedono le merci,
gli strumenti e le istituzioni preposte; e la fraternità del corpo
di Cristo non viene più celebrata toccando le sue membra, come il
Samaritano, ma lasciandone la cura a un oste pagato da tutti e da
nessuno.
Nella prossima lettera
cercherò di narrarti, con l'aiuto di Dio, i giorni dell'uomo in
questo regno che non tocca più l'uomo. Ma ora parlami di te e dei
tuoi giorni, Amalrico: dimmi del chiostro, del mattutino e di
compieta, fammi sentire il rumore delle vostre scodelle e delle
vostre spade, l'odore del vostro incenso e del vostro sangue, la voce
delle vostre donne e dei vostri bambini, il vostro latino.
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