Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 21 dicembre 2013

Lettera ad un canonico regolare del XII secolo


 

Daniele Capuano saluta con amore benedicente il suo Amalrico di Chartres.

Nella mia ultima lettera, carissimo amico e fratello, ti ho promesso una breve e necessariamente manchevole descrizione del modo di vivere degli uomini della mia età. Dovrò raccontare cose a stento credibili per chi, come te, è avvezzo a costumi quali oggi nemmeno i pochi chiamati ad una vita di perfezione possono seguire senza una costante veglia del cuore e una ininterrotta fatica dello spirito.
Nel secolo in cui sono nato, il ventesimo dell'era cristiana, quasi tutti gli esseri umani erano persuasi che il fine della vita fosse la permutazione di merci e di denaro, e il compimento delle antiche speranze su questa stessa terra, attraverso l'invenzione, la fabbricazione e la diffusione presso il massimo numero di persone di strumenti sempre più raffinati. Non mi è facile spiegarti cosa intendo qui con la parola 'strumenti': noi diciamo 'tecnica', un termine di origine greca che indica, come sai, l'arte umana, l'applicazione dell'ingegno umano alla materia creata da Dio. A un certo punto la sazietà verso le dottrine dei Padri, che proponevano una ragionevole felicità in questo mondo come mezzo per raggiungere la pienezza della beatitudine nel mondo celeste, è stata accompagnata da una straordinaria ebbrezza per le possibilità che si aprivano sulla terra, una volta allontanata l'immagine del Regno divino, che in verità molti dei vostri filosofi e teologi avevano già resa, se non proprio indegna di desiderio, almeno remota e quasi inattingibile. Questa ebbrezza, però, come il naturale slancio di una adolescenza prodiga, lieta d'essersi liberata dalla servitù della casa paterna, si è col tempo mutata in una ardente disperazione: a volte generosa, piena di giovanile bellezza, come in quelle rivolte guidate da idee di origine divina che noi chiamiamo 'rivoluzioni', intendendo con questa parola un volgersi dell'uomo su se stesso, intorno al proprio asse – ed è qualcosa di simile a ciò che nel vangelo è detto conversione o metanoia – per girare armoniosamente intorno al Sole della Verità e della Giustizia (ti ho già raccontato del ciclo dello spirito che fu inaugurato, circa cinque secoli fa, dagli studi meravigliosi degli astronomi, paragonabili a quelli che condussero i magi persiani alla mangiatoia di Betlemme). Ma un fuoco non custodito si spegne, e lascia un letto di ceneri grige: così quel giovanile fermento, poi divenuto giovanile disperazione, si inacidì presto in una senile stanchezza. Mi potrai obiettare, saggio come sei, che nelle ceneri si cela pur sempre il sale di una palingenesi: non sarò io a negarlo, ma i miei antenati, pur non potendo rescindere completamente i legami con gli insegnamenti perenni, ne mantennero per lo più una reminescenza oscura, che andò a fecondare visioni profetiche non nutrite, però, dalla terra buona della contemplazione e della testimonianza spirituale. Quella stanchezza, quel disgusto sia per la vicina e perduta giovinezza che per l'antico ordine ormai sfigurato e infranto, venne chiamato da alcuni saggi 'nichilismo', ovvero, potrei dire, scienza del nulla, sapere del nulla: ma ti prego fin d'ora di non applicare a questo nuovo parto del fallibile spirito umano le misure del tuo tempo, forse più semplice, certo meno torturato dai dubbi e ancor meno da risposte puramente umane ai dubbi stessi. Non era, non è (ancora la mia età si dibatte fra le spire di queste controversie) una mera resa al demonio, all'orgoglio della disperazione che la tua teologia ben discerne: potrei paragonarlo, in modo assai imperfetto, con l'unico fine di avvicinarlo al tuo intendimento, all'inconsapevole attesa che bruciava nel petto dei pagani poco prima che nascesse Cristo, o ancor meglio ad un'angoscia di morte simile a quella che volle gustare Cristo nel Getsemani, ma un istante prima della decisione redentrice. In breve, c'era e c'è in quel 'nichilismo' qualcosa dell'apocalisse o rivelazione delle cose ultime con cui termina la Scrittura e quindi il dicibile umano e divino: d'altronde, il nulla è la materia da cui Dio trae le creature, a meno che non ristagni nell'anima, diventando il trono dell'Avversario, l'abisso della morte eterna. Non è un caso che un testimone cristiano di quegli anni parlasse tanto di angoscia, di quel poter essere e non essere che toglie il respiro, ed oltre il quale non c'è che il Respiro divino, lo Spirito, o l'annegamento.
Già da molto tempo le terre cristiane erano dominate da quelle passioni contrarie alla legge di cui ti facevo cenno all'inizio: la fabbricazione di strumenti sempre più raffinati, la loro diffusione presso tutti gli uomini come pegno della liberazione dalla miseria, dall'aspra necessità, lo scambio delle merci e del denaro, che per te sono come minimo attività pericolose, da limitare e frenare; e quell'idea così diabolica, così antica, ma che solo allora guidò popoli interi come un codice, ovvero che l'avidità dovesse spegnere la fraternità, che l'accrescimento dei propri beni dovesse soffocare il ricordo di ciò che è piccolo e umile, dell'immagine divina nel prossimo. Anzi, e so che questo ti riuscirà quasi incomprensibile, a meno di non intenderlo come un'astuzia dei potenti della terra per angariare i deboli in tutta sicurezza e impunità, molti sapienti dicevano secondo la loro coscienza che il soddisfacimento sfrenato delle passioni individuali – all'epoca si parlava soprattutto della passione di avidità – avrebbe condotto col tempo al maggior bene comune, anche se questo doveva comportare la rovina e la miseria di numerosi fratelli. Vedi, amico, come il potere dell'intelleto disponeva liberamente della carne degli uomini – proprio perché di essa non si curava già mentre dava forma alle sue idee.
Nel secolo in cui sono nato i cristiani hanno dichiarato due guerre straordinariamente brutali, in cui anche gli altri popoli hanno versato il loro sangue, e che hanno mostrato qual era la capacità mortale degli strumenti sempre più perfetti fabbricati nei decenni precedenti. Non sono state guerre simili a quelle che si combattevano ai tuoi tempi: non gli uomini guerreggiavano, ma gli strumenti bellici (ho ritegno a chiamarli armi) manovrati dagli uomini; e i loro reggitori non erano sovrani o senati o altre assemblee, ma tutti muoveva quella permutazione universale, la stessa in cui erano afferrate le merci e il denaro. Il che dà ragione, io credo, del successivo e sempre crescente senso di impotenza non solo tra le plebi, ma anche tra i loro chierici e i ricchi e i dominatori, un'impotenza che rendeva inutili e vane tutte le differenze di conoscenza, di opulenza e di potere: e non ti paia incoerente con quel che ti ho brevemente raccontato una volta, ovvero che proprio in quegli anni certi tiranni riuscirono a incantare i popoli cristiani e pagani accendendo in loro passioni smisurate e funeste. Non vi è nulla, infatti, che attragga e quasi evochi uno stregone o un demagogo come l'impotenza delle genti, come l'intima sensazione che tutto sia inesorabile: e un bene inesorabile non è che un male moltiplicato.
Dopo la seconda di quelle guerre, che imitarono la passione sterminatrice di Gog e Magog senza però mostrare all'orizzonte le armate del Secondo Avvento, non fu più necessario incantare con la violenza: la stanchezza dei vinti e l'orgoglio dei vincitori congiurarono nel creare un ordine sociale e civile in cui l'impotenza generale potesse distendersi come su un pagliericcio tiepido e confortevole, e non si parlò d'altro che di sicurezza, di pace, di comodità, di 'sviluppo' – questa parola che a te suggerirà l'estrarsi da un viluppo, da un impaccio, il pieno manifestarsi di un'entelechia, e invece significava per noi tutti un allargamento dei confini di questo ordine sicuro, pacifico e inalterabile. Come senz'altro già comprendi, carissimo amico, non era più il Regno dell'Uomo sorto dalla perturbazione dell'ordine antico, quell'adolescenza dell'uomo cristiano a cui si dava volentieri il nome di 'era moderna' (altro termine che i Padri riferivano al secolo nuovo abrogatore del gentilesimo) e di cui ti ho scritto sopra. Mi chiederai come mi piaccia chiamarlo. Non te l'ho ancora descritto a sufficienza, ma provo a spiegarti che, se il Regno anteriore pretendeva di essere il regime dell'individuo, separato dall'ordine e dalla comunione dei suoi padri, il nostro Regno potrebbe dirsi il regime di una comunione senza individui e senza persone: in cui la libertà di agire secondo l'immagine divina è consegnata alla tutela di padroni che nessuno incontra mai; l'eguaglianza proclamata dalla dottrina è rivendicata come parità nell'ottenimento di comodità e sicurezza, cui provvedono le merci, gli strumenti e le istituzioni preposte; e la fraternità del corpo di Cristo non viene più celebrata toccando le sue membra, come il Samaritano, ma lasciandone la cura a un oste pagato da tutti e da nessuno.
Nella prossima lettera cercherò di narrarti, con l'aiuto di Dio, i giorni dell'uomo in questo regno che non tocca più l'uomo. Ma ora parlami di te e dei tuoi giorni, Amalrico: dimmi del chiostro, del mattutino e di compieta, fammi sentire il rumore delle vostre scodelle e delle vostre spade, l'odore del vostro incenso e del vostro sangue, la voce delle vostre donne e dei vostri bambini, il vostro latino.

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