"I
cadaveri vanno espulsi con più urgenza degli escrementi"
(Eraclito). Lo sfondo è indubbiamente orfico: il corpo grossolano,
il corpo-oggetto, nato dal nutrimento, è un cadavere, perché non è
legato intimamente al principio della sua vitalità; il contatto con
un morto rende impuro il vivente, che dunque dovrebbe liberarsene con
la stessa prontezza con cui si sente la necessità di sgravarsi degli
escrementi, il residuo o caput mortuum dell'assimilazione. Tuttavia
l'enigma va inteso alla luce della sophia eraclitea nel suo
complesso: il sole è nuovo ogni giorno, ogni istante, le cose
apparentemente stabili, l'apparente continuum dell'esperienza
ordinaria è un flusso, un fiume costantemente rinnovato. Quindi
l'Efesino ci sta esortando ad espellere il corpo che dura più di un
istante, l'illusione cadaverica di una continuità materiale passiva
e permanente: così facendo ci si libera dall'escremento, si è vuoti
e leggeri, si vive fluidamente, dionisiacamente, invece di
titanicamente e duramente-durevolmente morire.
In un
affresco medievale Adamo ed Eva sono ai piedi di una enorme Amanita
Muscaria. L'albero della conoscenza del bene e del male è un
fungo stupefacente: coincide con l'albero della vita, la differenza
sta nel modo dell'assunzione – la droga che conosce il bene e il
male è la coscienza riflessa come caduta nella dualità, stupore che
separa dall'integrità divina. Così il vino nel dionisismo orfico è
l'umidità che appesantisce l'anima ignea, che la rende ebbra e
barcollante, ma bevuto ritualmente è il farmaco della risalita, del
ritorno o epistrofè, la sua azione dissolvitrice nei
confronti della coscienza ordinaria, del continuum di
coscienza quotidiano, apre il varco della trasmutazione, manda in
putrefazione la psiche e fa scoccare la scintilla ardente di uno
spirito corporificato, fluido, androgino, senza opposizioni. Nel mito
aristofanesco del Simposio Zeus dice agli uomini dimidiati,
sessuati, che se sfideranno ancora il divino in modo titanico,
prometeico, li taglierà di nuovo a metà, rendendoli unidimensionali
come i contadini che, durante le feste dionisiache, praticano il rito
festoso dell'askoliasmos, il tentativo di mantenere
l'equilibrio con una gamba sola su un otre di vino coricato: la
Pentecoste dionisiaca agisce anzitutto come una perdita della
relativa integrità umana, il coribante ebbro è un danzatore zoppo,
un acrobata sul punto di inciampare e crollare nel fango, feccia del
mondo, privo di consistenza e orientamento, scisso e lubrico. Lo
Spirito glorifica mortificando, il cenacolo degli apostoli privi del
loro capo – hanno perso la testa, in tutti i sensi – è un
komos di deliranti, esposto a ogni truffa, parodia e primizia
della pienezza finale. Dioniso è il re fanciullo del ciclo più
amaro del kali-yuga, e proprio per questo è lui, lo
scuotitore di case, l'appestatore di città, a promettere la dolcezza
più ricca e appagante, che sazia e placa ogni combat spirituel.
Olimpiodoro:
il nostro corpo è dionisiaco. Corpo glorioso, ma la sua gloria, il
suo ganos è inerente alla caduta, mescolato alla fuliggine
del corpo titanico.
Il
corpo di resurrezione emerge come nei testi shivaiti: di istante in
istante, quando la scossa passionale si esaurisce in se stessa, si
dissolve in movimento, vibrazione, gioia.
Melancolia
e akedia, accidia: il
demone meridiano come duende che seduce l'eroe dell'askesis,
il meditante. Peste che distrugge a mezzogiorno, zaharim:
nell'ora dello zahir, dell'assenza di ombre, Sirio indebolisce
la violenza virile e rende folle l'energia femminile (Alceo). Tema
nicciano: la verità come ostensione della parvenza, mezzogiorno
della storia spirituale.
Enigma
orfico-dionisiaco di Sileno a Mida, il sovrano dell'anti-Cuccagna,
dell'età dell'oro letteralizzata. Sileno dice: perché vuoi
sapere ciò che per te, uomo, è sommamente funesto? La cosa prima,
la migliore, per voi è non esser nati, la seconda, una volta nati,
morire al più presto. Dioniso è il re dei morti, colui che fa del
mortale un grappolo d'uva: la gloria della zoè
'indistruttibile' (Kerenyi), dell'aphtharsia, risplende
sull'abisso orfico della caduta originaria, lo scempio titanico.
Equivoco dei nichilisti: mè phynai non è mè einai,
non-nata è a-ja, la natura-capretta, l'aion che sempre
fluisce.
Si
può riscoprire il nesso silenico fra accidia melanconica nel panico
mezzogiorno ed ebbrezza-mania trasfigurante, divinizzante? Dioniso va
lasciato entrare, va accolto: allora la sua possessione non è
l'ottenebramento distruttivo dei miti, ma è la dolcezza mielata
della vita al confine. Non ermeticamente, attraverso la phronesis,
la metis (intelligenza
ermetica), ma attraverso il pathos stesso.
Bachofen: Dioniso media tra il demetrico, il diritto materno,
conservato dall'orfismo, e l'apollineo, il diritto paterno.
Rivoluzionario, straniero, veniente,
traghetta i doni dell'archè nella notte del transito, nella
mera dissoluzione della krisis (Hoelderlin). Oggi i fenomeni
riconducibili all'archetipo dionisiaco mancano di questa
consapevolezza notturna, simile a una fiaccola portata sui monti e
per le valli, la percezione di una gloria corporea della melancolia,
della 'depressione'. Eraclito: Dioniso e Hades sono heautos,
"il medesimo"; se manca questa consapevolezza, gli
oggetti venerabili, indicibili del rito vengono manipolati senza
aidos, l'happening è mera carnevalata, Saturnale, sul
tiaso hippy e sulla parata del Gay Pride mettono le mani i Pentei
ormai avvisati, trasferiscono quella seduzione alle loro merci
(Anders), alle loro istituzioni asservitrici. La celebrazione diventa
autocelebrazione narcisistica, rituale sterile dell'età dei consumi.
L'ombra rimane staccata, inconscia, Manson non viene inserito nel
mito ma espulso, l'AIDS non è pandemia, peste artaudiana che si fa
teatro ma vergogna da occultare, ennesimo pharmakos.
Incombe
il timore, da Nietzsche in poi, di ricondurre Dioniso a Cristo, anche
nella forma del Paraclito, del Terzo escatologico: evocare la Croce
introdurrebbe l'ascesi nel rituale orgiastico, mutilandolo. Ma questo
perché la depressione, come insegna Hillman, è vista solo
all'interno dell'orizzonte cristico, non più tragico-giocoso ma
'spirituale': e il paradigma apollineo-erculeo falsifica la coscienza
dionisiaca, ipocrita, 'bisessuale', policentrica, fluida, in
'percorso di integrazione'. Impossibile, però, tornare alla visione
rinascimentale della melancolia, tutto sommato legata al modello
umanistico: il 'melanconico' di oggi è un 'dissidente' del mondo dei
consumi, un ribelle del tutto inconsapevole. Il sorriso ozioso ed
ebbro di Sileno non ha nulla a che vedere con il ghigno del drogato
prima borghese e poi massificato. L'I prefer not to del
depresso contemporaneo è più silenzioso e più violento al
contempo.
Omar
Khayyam: di nuovo pessimismo ed ebbrezza. Epicureismo mistico.
L'istante di ebbrezza mistica e il disprezzo per il mondo della morte
e dei morti viventi, per i vincoli sociali e confessionali.
Quietismo, ma non letteralizzato: una dolce esultanza, un ebbro
abbandono che fa vedere doppio, che indossa una maschera
inafferrabile (è un sufi o uno scettico? Un monoteista o un
dualista, un manicheo?). Ciò che Penteo teme di più, in quel
ciarlatano dai lunghi capelli, morbido ed evasivo, è la sua
indeterminatezza politica: dionisiaco è il democratico entusiasta,
il demagogo dall'occhio febbrile, il fondatore di comunità di eguali
o di pari e l'autocrate istrionico, inconsistente o delirante.
D'altronde, il lato iniziatico, misterico del dionisismo assume
aspetti ben diversi se fa sentire la sua creatività 'politica' in
tempi di piccole comunità fiere, combattive e libere oppure di
imperi che si reggono sul sostegno delle plebi e incantano, con il
terrore e/o l'inganno, i senati e le assemblee 'aristocratiche'.
Orfismo e interpretazione noetico-spiritualistica del dionisismo. La
Rivelazione abramica nasce dal rifiuto dialettico dell'immediatezza
dionisiaca, legata a Cam: così va letta, secondo la Weil, la
proibizione di cuocere il capretto nel latte della madre (lamina
dell'esoterismo orfico: capretto caddi nel latte). Forse anche il
divieto noachide di mangiare l'animale con dentro il suo sangue è
diretto principalmente contro lo sparagmos del dionisismo
mediterraneo, fermento camita.
Mito di Aristofane nel Convito, dialogo tra maschi che
assumono il sangue di Dioniso temperato con la fredda acqua
'giunonica' o 'orfica' o 'apollinea'. Gli uomini integri primordiali,
se uomini-uomini, hanno una stirpe e dunque un eros solari:
l'omoerotismo apollineo, aristocratico, l'iniziazione maschile,
guerriera. Se donne-donne, sono terrestri: la 'comunanza sororale' di
Antigone? Comunque l'omoerotismo femminile come iniziazione ctonia e
demetrica, misura del diritto materno. Se uomini-donne, androgini,
sono lunari: dionisiaci. Dioniso, secondo Bachofen, media tra
il demetrico e l'apollineo: tra Sole e Terra, nous e corpo.
Come l'anima. Dioniso ha molti nomi, è hygros (umido)
come l'anima incarnata, 'molti-e-uno', riflesso inebriato, caduto,
dell'uno-molti del Nous e dell'uno-e-molti dell'Anima Mundi (che
forse è Dioniso nel suo stato celeste, principiale).
Hoelderlin
e l'elemento patrio: bisogna ritornare ad esso, convertirsi ad esso –
epistrofè – attraverso l'elemento opposto, che diviene un
anti-self, una maschera. Dioniso, il proprio, ritorna sempre
come Straniero: potenziale nemico e ospite (hostis-hospes). I
Greci avevano come elemento patrio l'orientale, l'aorgico, per questo
per esprimersi si affidarono all'elemento della sobrietà giunonica e
della distanza apollinea, indulgendovi troppo fino all'artificiosità
ellenistica. Noi, occidentali, esperidi, abbiamo come elemento patrio
la sobrietà giunonica, il limite, tendiamo perciò allo scatenamento
aorgico – ma, sembra dire Hoelderlin, per lo più inconsciamente.
Differenza tra l'instaurazione della democrazia ad Atene e la
Rivoluzione Francese.
Sofocle
è il "più tragico": esprime secondo Nietzsche il
sentimento popolare ateniese, l'idea – distante dalla teodicea
dell'iniziato Eschilo – che la dismisura tra l'uomo e il dio coglie
come sventura e dolore l'incolpevole, Edipo, trasformandolo con il
pathos in un essere benedicente, una figura di debolezza e
trasfigurazione, dionisiaca. Il suo pathos misterico è più
essenziale e profondo proprio in quanto non esplicito: l'intuizione
sapienziale della 'nullità' umana, congiunta a quella della sua
deinotes (lo sradicato è deinos, è 'smisurato'),
trascende persino quella religiosa di colpa.
Non bisogna letteralizzare la crudeltà nei miti e in alcuni
riti dionisiaci (soprattutto fuori dall'Attica): si tratta di
diventare bacchoi, attori, l'identificazione va vissuta con la
doppiezza dell'occhio teatrale, della maschera.
Nell'Era
dei Pesci il dionisismo si è scisso fra l'excessus mentis
della mistica e il carnevale delle danze sacre-iniziatiche e
feriali-popolari (vi è già una anticipazione nel giudaismo, ovvero
nella rivelazione semitica più antica). La festa dei folli e
quella degli asini sono appunti sospensioni carnevalesche: i
sacerdoti si allontanano, lasciano il campo agli avvinazzati. Si nota
qualcosa di simile già nel periodo ellenistico, questa lunga
preparazione al nuovo impero spirituale. Noi siamo sempre meno
adatti ad accogliere l'epidemia nella
trasognata consapevolezza di un rito: forse Dioniso era ed è,
soprattutto, un invito al trasognamento, a una coscienza liminare,
sobria-ebbra, androgina (Hillman).
L'India
postvedica ha fatto di Shiva un 'asceta erotico' (Doniger), la Grecia
presocratica ha fatto di Dioniso un alleato di Apollo, uno xenos
che riplasma la comunità invece di distruggerla.
Dialettica post-nietzscheana: non si
può contrapporre del tutto Dioniso a Cristo; non siamo in un epoca
post-cristiana, ma apocalittica (Illich); il 'terrorismo morbido', il
double bind del tardo
capitalismo ci rendono quasi impossibile celebrare nelle crisi
di questo sistema una
parousia dello Straniero, che richiama le donne lontano dalle città
e confonde le angosciate sicurezze del potere. Il Grande Pan è
morto, possiamo coglierlo solo nei frammenti, nelle rovine, nelle
persistenze sfigurate. Il Dioniso pre-acquariano dovrebbe forse
essere carnevalesco, funebre, eccessivo, un fiorire di happenings
apocalittici?
Se
manca "l'elemento ebbro-vegetativo" e quello "ctonio"
(G. Zacharias), ovvero se "il Grande Pan è morto" (o non è
mai nato), il dionisiaco tende a manifestarsi come infrazione
gnostico-esoterica. Il dionisiasta lascia che l'ebbrezza l'accompagni
ad una coscienza di confine, ad una esperienza di trasfigurazione
sulla soglia fra i vari regni della natura – una sorta di Regno
Messianico ma non conquistato con un'ascesa (e un'ascesi), bensì
lasciandosi sedurre, abbandonandosi.
Il
duende sale interiormente dalla pianta dei piedi (come il ch'i
taoista), non viene da fuori come l'angelo e la musa, va risvegliato
dalle stanze oscure del sangue. Apre la ferita, vive sul suo bordo, e
solo lui la guarisce.
Affinità
e differenze tra Dioniso ed Hermes. Hermes dio dei confini, dei
crocicchi, del tertium come traghettamento incessante, come
erm-eneutica: dio polymetis, della saggezza che elude il
dilemma, che irretisce e trova mechanai; dio dell'esoterismo,
dell'iniziazione che fa uscire dal grex, dalla magia sociale.
Dio dei crepuscoli, ladro, truffatore, ipocrita. Anche Dioniso è
ipocrita: ma piuttosto nel gesto, nel drama; dio del pathos,
dei confini sperimentati in sé, della liminarità trasognata, dello
strazio e della ferita (che può alludere ad una mechanè
ermetica, l'aporia come 'apertura' a dimensioni ulteriori),
del lutto e della risata; se Hermes rende versuti, ricchi di sale,
psico-logici, Dioniso rende attori, ricchi di succo, hygroi,
sul fondo fluido e sdrucciolevole della valle del fare-anima.
Dioniso
porge Hermes, Hermes porge Dioniso. Apollo è Dionysodote, ricompone
Dioniso smembrato, Dioniso è congiunto ad Apollo.
Vino e melancolia nello
pseudo-Aristotele: la droga dionisiaca come l'umore oscuro legato a
ghè e chthon,
Dioniso come Hades. Se temperati, danno la complessione eroica,
geniale. La bevanda fermentata, sacramento con cui si assimila
l'universo (vedi Crisippo, una goccia di vino, il pyr
phronimon, è diffusa
nel cosmo), è succo vegetale, acqua lunare da cui sprizza il fuoco
alcoolico. Luce oscura, fiume del Lethe: oblio del passato che fa
discendere le anime dalla luna, attraverso la porta degli inferi o
Cancro, le fa sorgere ignoranti come il puer,
Zagreo, Krshna, astorico, aion
che gioca. Le nozze di Dioniso e Arianna: la Signora infera delle
anime, abbandonata dall'apollineo Teseo, l'eroe, riceve nel suo lutto
e nella sua attesa, in mezzo al mare, il dio della zoè,
della trasmutazione lunare, vegetale-animale, il puer
aeternus.
Il fermento dionisiaco, quando
irrompe nel sogno della storia, è il massimo dell'ambiguità,
intossica e sollecita all'iniziazione: può manifestarsi come il
tumulto della rivolta, con la sua sospensione esaltante e accecante
dei limiti morali e politici, o come lo Streben
superomistico di Alessandro, Achille infelice, sovrano cosmico
infelice, ipnotizzato dall'illimitatezza dello spazio terrestre; o di
Nerone e di al-Hakim, semidei folli, lievi e micidiali, che cercano
con il popolo un rapporto immediato, di isterica partecipazione. Il
potus deorum, il vino
che illumina e allieta gli dei, quando si fa potus
animarum, vincolo oscuro delle
anime, chiede la morte, la putrefactio,
che può lievitare in rigenerazione solo attraverso il contenimento
del rito, a cui Dioniso è incline con la sua stessa pastosa umidità:
è il dio della follia rituale o telestica, secondo Platone, e a
differenza di Zeus, l'avventuroso Padre degli Dei, lui, l'effeminato,
il bisessuale, conosce un solo legame nuziale, quello con Arianna,
l'abbandonata.
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