per Marco
Morgantini
Secondo Nietzsche, Amleto è affine all’“uomo
dionisiaco” che, avendo penetrata la natura delle cose, conosciuta la verità,
quando torna al molteplice, al tempo, al quotidiano non può agire, soverchiato
dall’orrore e dalla nausea. Mentre i drammaturghi ateniesi porgono la coppa
dell’ebbrezza dionisiaca spezzando e facendo sanguinare destini apollinei,
eroici, la chuzpa del moderno, di
Shakespeare, sta nel rappresentare direttamente il dionisiaco come somma
impotenza e somma potenza – dell’intelletto, della sensibilità, alla fine anche
di un’“azione”, di un gesto-drâma
catastrofico, un Giudizio Finale precipitato con atti indiretti,
semiaccidentali, ispirazioni capricciose e lucidissima indolenza.
L’uomo penetrato dall’infinito contamina di
infinito tutti i suoi atti. Il delay
di Amleto è l’illimitato che trascina ogni cosa alla propria infinita
consumazione. Il compito divino, titanico, dell’Amlodi originario è sentito e
vissuto dal principe di Shakespeare come una conoscenza disastrosa della
totalità, un’irruzione di totalità che non infrange o dissolve ma amplia
daimonicamente i confini dell’individuo.
Amleto è entrato nel Maelström, il vortice che fa e disfa i mondi: ne esce
giovane-vecchio, vivo-morto, come il personaggio di Poe.
Amleto sa che lo spettro del padre sta chiamando a
sé, alla morte, l’intera generazione, l’intera corte danese. Sa anche che una
visione è un fenomeno dell’immaginazione, che va veri-ficato, reso vero. La sua
melancolia – ipocrita in senso
profondo e non mera simulazione strumentale, bensì maschera ermetico-dionisiaca
– è proprio l’abisso di folgorante indolenza che muove ogni cosa verso il suo
limite, verso il Giudizio. L’ambiguità di ogni evento (morte di Polonio, di
Ofelia, scoperta della lettera alla corte inglese, pirati, scambio delle coppe
e delle spade avvelenate ecc.) è la chiarità oscura della conoscenza che amplia
i limiti delle azioni umane.
Discorso nel cimitero, suscitato dal cranio del
Fool. Percezione delle relazioni samsariche. Il wit di profondità viaggia sul confine tra la mistica
scettico-dionisiaca di un un Khayyām, di un Ḥāfeẓ (la polvere, la botte) e la “cronica lucidità”
dell’uomo senza qualità. Su quel confine il Principe è il fool dell’universo, figlio di Yorick (secondo l’ottimo suggerimento
di Harold Bloom) e dell’Ade.
To be or
not to be non parla di suicidio –
non essenzialmente – ma del samsara.
La coscienza del sogno, del desiderio non estinto che si proietta oltre la
soglia della morte, ci rende cowards,
paralizza lo slancio eroico dell’uomo apollineo, pagano.
Il Danton di Büchner vede la Natura come utero e tomba dell’azione rivoluzionaria. Il suo
disgusto, la sua sazietà e stanchezza di vittima consapevole pongono la
mascherata storica su uno sfondo di orrore-voluttà dionisiaco. Il Nulla è il
dio che deve nascere dal Caos del mondo temporale, storico: si svela l’epidēmia di un Dioniso smascherato
e dunque annichilito. Il nichilismo come dionisismo infelice dell’apocalisse
cristiana.
Chissà se a Marx arrise un riflesso della
dionisiaca lucidità di Amleto e di Danton quando “citò”, modificandolo, il “Ben
scavato, vecchia talpa” del giuramento di vendetta, all’inizio della tragedia.
Legame tra Dio e Pidocchio osservato da Ceronetti:
sterminio igienico e nichilismo. Ivan Illich sui parassiti: abbiamo perso
l’idea che la pelle, i confini, siano abitabili, abbiamo distrutto la
mediazione dei commons. Enigma che i fanciulli
proposero a Omero, sui pidocchi. Eraclito osserva: anche l’uomo insipiente,
come il grande vate degli Elleni, muore perché non sa scioglierlo. “Ciò che
abbiamo visto e preso lo perdiamo, ciò che non abbiamo né visto né preso lo
portiamo”. Il visibile-tangibile sfugge verso la morte, perché è morte,
entropia; l’invisibile-intangibile lo portiamo, in noi e su di noi, lo
mostriamo con i nostri tratti, con la nostra esistenza. I pidocchi si chiamano phtheirai, dalla radice di phtheiro, distruggere, consumare: le archai nascoste ci consumano, ci
dissanguano. L’illimitato venir-meno è compensato dall’invisibile che portiamo
in noi/su di noi, e l’uomo muore/fallisce quando non è intero, cioè quando non
assume in sé l’intero ciclo come fa l’iniziato. Omero doveva lasciarsi guidare
dalla cecità che “portava in sé”, invece di tentare di risolvere l’indovinello
con la mente: la sua cecità è infatti, simbolicamente, sia lo stato del
non-iniziato sia, al contrario, la visione cieca dell’iniziato, il suo “occhio di
troppo” (Hölderlin)
tattile e acustico, esoterico.
Enigma-koan: l’ēthos antropōi daimōn di
Eraclito, alla luce della filosofia di Schopenhauer, sarebbe: il carattere
acquisito-fenomenico è, per l’uomo, (non diverso da) il carattere
intelligibile. Ovvero, forse: l’uomo si accosta al proprio archetipo-angelo
ponendosi ermeticamente, in controluce, rispetto al proprio carattere-volto:
“ragionando” per speculum, a dritto e
a rovescio, sapendosi maschera-burattino dell’Altro-Sé. Questo gioco, lotta
erotica, narcissica e dionisiaca, è la storia degli amori tra Sole e Luna.
Epicuro collega la libertà-contingenza al clinamen, affine all’obliquità
dell’eclittica. La precessione degli equinozi è una catastrofe in cui necessità
astrale-celeste e angoscia terrestre si intrecciano. Amlodi è il fool redentore, Horus fanciullo del
nuovo ordine, del nuovo ciclo temporale. Shakespeare, umanizzando la sua
follia, la rende più essenziale: il time
out of joint è la melancolia-angoscia chiaroveggente del Principe, che assume
in sé il transito epocale, la corruzione generativa (“Something is rotten in the state of Denmark”) del
passaggio storico. Così è stato, in tutti i sensi: Amleto è il mythos dell’uomo moderno, come osserva
ancora Bloom. La sua pazzia è l’alba dell’era: la rinuncia ad Ofelia è forse
quella all’era anteriore, che muore affogata in una demenza nostalgica, carica
di risonanze incestuose, regressive. Amleto però, cristicamente, non è
destinato a regnare sulla terra: la sua patria è la morte, o piuttosto uno
spazio di possibilità tra la vita e la morte, un tertium abitabile solo da eroi come lui. Per questo è una figura
così dinamica, ironica, dialettica: non istaura nulla, morendo nel compimento
della vendetta per un istante spezza il ciclo.
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