Naḥman
di Breslaw distingue tra ʻatzvut (tristezza,
ḥuzn, melancholia, akedia) e lev nishbar, il “cuore spezzato” (contritum, per i latini) del Salmo 51. La prima è una “passione”
fondata sull’ira; il secondo è dolore semplice, vipassana della sofferenza, lamento del puer abbandonato dal Padre. Eppure Giobbe, ḥanīf paradigmatico (ovvero, nel linguaggio islamico, pagano
intimamente aperto e disponibile alla rivelazione del Dio Unico), vortica
circolarmente tra la prima e il secondo – o meglio il suo è un moto a spirale
da un’ira stupita e semplice a un “cuore (mente) spezzato e calpestato” che si
indigna, ha fame e sete di Giudizio e Misericordia. Dio risponde alla sfida: la
sua ironia è iniziatica, muove il cuore spezzato e triste sulla soglia tra
Rigore e Tenerezza, Din e Raḥamim. Il silenzio di Giobbe apre nel
cuore il buco della visione: si confuta e si consola su polvere e cenere, il
suo io diventa intercessione, misericordia.
“Mi
odio” (Gb 42,6). Già in 9,11: “Sono
integro? Non lo so nemmeno io [nafshì
– ma anche: non conosco la mia anima]: odio la mia vita”. Giobbe è l’“Odiato”:
nella sua integrità iniziale c’è l’angoscia del non sapere se è integro – se il
suo dolore è akedia/ʻatzvut o “cuore spezzato”,
l’alternativa di Naḥman. Tutto era figura e segno dell’odio-di-sé liberante e
liberato: la visione di Dio che svuota l’uomo, la teofania nella forma di un
mondo che è intimamente e perpetuamente libero dall’angoscia semiconsapevole
dell’uomo. Dice Elifaz: “Non esce dalla polvere la sventura, e dalla terra non
spunta il tormento [ʻamal, fatica,
sforzo, dukkha] – ma l’uomo nasce per
il tormento come le faville si alzano in volo”.
Leviatano
è la teofania della potenza divina. Contemplandone la terribilità innocente,
Giobbe si svuota. È la Tigre di Blake, burning
bright/ in the forests of the night:
i suoi occhi sono le palpebre dell’aurora. Giobbe è chiamato a venerare Dio
nella sua manifestazione animale, animistica: la quiete possente di Behemot,
sintesi di tutte le bestie, e la ferocia affascinante del mostro Leviatano,
forse modellato sul sacro coccodrillo del Nilo, Sobek-Ra. Liwyatan, il Contorto, l’Avvolto-a-spirale, Oceano-Tiamat,
l’energia serpentina che Dio uccide-domina alla fine dei tempi (Serpe-Luna
sotto i piedi della Vergine, Shakti purissima) per nutrirne gli eletti, gli
iniziati. È Moby Dick, è il Sunday di Chesterton, capo dei terroristi e insieme
della polizia segreta: il drago è l’anima stessa del cavaliere, ovvero è
identico alla principessa che custodisce-imprigiona tra le sue spire.
L’iniziato, il fatā’, è San Giorgio,
Khiḍr il Verde, il misterioso ‘profeta’ coranico che è superiore al legislatore
Musā, alle sue discriminazioni. Khiḍr è in grado di uccidere un fanciullo, per
giustizia e misericordia sovrumane: i suoi atti destano orrore e angoscia, ha
assimilato-vinto il verde drago, il principe di questo mondo.
Le tre
“nuove” figlie di Giobbe si chiamano Yemimah, Qetziah, Qeren-Happukh: Colomba,
Cassia, Corno d’Antimonio. La grazia dell’albedo:
l’aroma dell’incenso, del sacrificio-orazione: la polvere che intensifica lo
sguardo. Levità, consumazione e profumo, kosmos
(l’antimonio è il kohol, cosmetico e
materia prima mercuriale dell’opera alchemica, polvere nera che sottolinea
l’occhio). Dieu est dans le détail.
Sobek-Horus
raccoglie i brani di Osiride. Leviatano distrugge e ricompone – reintegra –
Giobbe. Alla fine è davvero tam, “intero”
– proprio perché spezzato, lev nishbar:
ha integrato il Mostro e Belinda, ha amato il Mostro.
Il
discorso finale di Giobbe va letto integralmente:
Ho scoperto che tutto puoi
E nessun pensiero è da te
escluso
Chi è costui [parla di sé guardandosi da fuori, si appropria delle
parole di sfida di Dio] che oscura il
consiglio senza penetrarlo?
Perciò ho espresso senza
discernimento
Cose che mi superano, senza
sapere
Ascolta, io parlo [anche qui ripete la sfida
divina]
Ti faccio domande, dammi tu
conoscenza
Con l’ascolto dell’orecchio ti
ho ascoltato
[ragione e fede]
Ma ora i miei occhi ti vedono [teofania]
Per questo mi odio e mi ricreo [mi consolo, mi pento, radice n-ḥ-m, da cui il nome Naḥman]
Su polvere e cenere [dissolto, morto, consumato,
cremato].
Giobbe
aveva detto: “Egli [Dio] mi schiaccerà in un turbine” (seʻarah con la lettera sin).
Poi: “E Dio parlò a Giobbe dal turbine” (seʻarah
con la lettera samekh, la stessa di sod, il segreto esoterico. Samekh è l’antico ideogramma del sesso
femminile, lettera ambigua, veleno e transito, morte iniziatica). 1) Dio parla
a Giobbe da dentro il turbine, il Maelström che lo sommerge; 2) La parola di
Dio è il turbine stesso, il vortice o
spirale serpentina tra cielo e terra, che risucchia in cielo Elia, l’iniziato.
La teofania è il dînos, il Vortice.
Giobbe
è un edomita, quindi un antenato dei Romani, secondo la biblica tavola delle
nazioni. È fuori da Israele, sulla soglia tra semiti e goyim. Giobbe l’Odiato, l’Amato, è un pagano iniziato al mistero
delle teofanie molteplici dell’Unico.
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