per Emanuele Sabetta
Il
simbolo dell’albero della vita è senza dubbio uno dei più arcaici e comuni,
soprattutto nella forma (che ritroviamo dalla Bhagavad-Gita a Dante) dell’albero
capovolto, le cui radici sono in cielo (l’invisibile, l’occulto, coelum a celando) e la chioma sulla
terra (il visibile-tangibile). L’albero è un’immagine pressoché perfetta
dell’unimolteplicità organica della vita vivente: qualsiasi sezione della
chioma e delle radici è una moltitudine di individui apparentemente isolati, ma
anche qualsiasi sezione del tronco è una immagine dei cieli e dei cicli
concentrici. Così pure l’albero, ogni albero, è una famiglia di esseri, un ghenos – è un albero genealogico, appunto: è sia l’umanità e l’universo nel suo
insieme, sia l’individuo come specchio e pars
totalis (Leibniz), macrocosmo e microcosmo. Il primo salmo accosta lo tzaddiq, il giusto o uomo completo, a un
albero radicato nella terra e piantato su acque correnti, che dà frutto a suo
tempo, rinnovandosi proprio in grazia della sintesi tra unità e molteplicità,
laddove l’individualità animale sperimenta la separazione dello sradicamento a
causa dell’accentramento della sensibilità in un cervello (dagli antichi
associato alla luna riflettente) che presiede alla rete del sistema nervoso.
Sotto la superficie terrestre, ghê, nella chthon profonda e nutriente, regno dei morti, affondano le radici,
immagine del passato che ci condiziona come spessore karmico, subcosciente,
eredità dei morti appunto, delle generazioni molteplici, infinite; la direzione
è quella dell’acqua, verso il basso, e l’anima secondo Eraclito annusa in
direzione di Hades, il suo orientamento è la catabasi, la discesa tra gli
antenati di cui conosciamo a malapena il nome e che in realtà rivivono in noi,
moltiplicano e proiettano i loro desideri insoddisfatti in noi, muovendoci come
fili sottilissimi di marionette. Il tronco, che si erge retto, verticale,
semplice, nell’atmosfera terrestre, è il presente ovvero la coscienza: sotto la
corteccia, da cui si trae la carta, c’è però un libro da sfogliare, strati
concentrici di tempo che il kairòs
può vedere simultaneamente, nell’istante della creazione geniale. Nel tronco la
linfa è acqua e fuoco, la direzione è verso una maggiore differenziazione,
verso l’ostensione di sé che è l’akmè
dell’albero, i rami con le foglie, i fiori, i frutti: il ramo ripete la
struttura dell’intero albero, modularmente, così ogni nostra azione cosciente, ispirata
però da un rapporto liberato, attivo con il passato e i morti, è generazione
del nuovo, possibile parto di una eterna primavera o verità, aletheia,
disvelamento. Il futuro è l’intenzione, ciò che nel presente, nel tempo di
attesa autunnale o invernale della vita non vediamo quasi mai direttamente, se
non quando si trasforma in presenza e muore nel passato: così la verde foglia è
un piccolo albero raccolto in una struttura che per lo più ricorda la vesica piscis, l’intersezione tra i
mondi, il fiore è il culmine della rivelazione erotica e il frutto è la
fru-izione, che però l’albero offre ad altro da sé, al mondo, agli uccelli,
agli uomini – si matura uscendo da sé, si diventa dolci e succosi sulla soglia
della morte, sulla soglia dell’inizio di un nuovo ciclo. Chi unisca in sé la tritemporalità sarà albero di
vita, scenderà come acqua e salirà come fiamma, potrà dire (senza inflazione: con umano-divina umiltà) Io sono colui che era, è e sarà: ovvero sarà al contempo radice,
tronco e foglia, parte e tutto, partecipando alla vita del tutto.
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