Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 4 ottobre 2011

Edipo e la Sfinge


La Sfinge è l’Angelo dell’Umanità, l’Uomo come sintesi di animale e dio. Nel mito tebano è colta nel suo aspetto malevolo, apollineo: l’enigma è la sfida mortale lanciata all’uomo, “o me o te”, non c’è spazio per entrambe le essenze sulla rupe scoscesa del pròblema, alle porte della conoscenza del bene e del male. Edipo vince, ma vivrà la morte dell’Angelo, dispiegherà la sequenza inesorabile del proprio destino, espressa nelle parole dell’enigma, saldamente attaccato alla cavezza dell’ananke tragica. Lo shesepankh egizio, la “statua vivente” dell’Asclepio ermetico, è qui la sphinx dell’aspra saggezza ellenica, “colei che stringe”, come uno sfintere.

All’alba l’uomo è quadrupede: la lettera dell’indovinello parla di debolezza crescente con il numero dei piedi, ma la lettera è per definizione ironica, ironicamente mortale. Il bambino ha l’animalità della Sfinge, è intero, scorre tra i quattro stati del Vedanta (veglia, sogno, sonno profondo, estasi) senza fissarsi in un io, in una maschera sociale. A mezzodì è bipede: l’adulto è un pais dimidiato, non getta ombre solo in quanto ha rigettato l’Ombra; vive scisso, oscillante tra i due “piedi” della veglia e del sogno, della necessità e del desiderio, proiettato in avanti, più cieco di un cieco. Al tramonto è tripode: il vecchio è profeta, media tra adulto e infante, recupera la terza gamba, il terzo occhio del nous, ma nell’opus contra naturam (Sailing to Byzantium di Yeats), sotto forma di un bastone che palpa l’altro lato delle cose e della vita. Il vecchio zoppica perché gli manca il quarto piede, accessibile nella morte, e perché gli altri due vacillano, si confondono.

Edipo Piedegonfio diviene uomo totale e mostro, Sfinge, dopo la vittoria contro la Sfinge, di perdita in perdita, col passo squilibrato, dionisiaco, sottilmente ermetico, del sacrificio tragico.

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