Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 31 ottobre 2011

I quattro che entrarono nel Pardes. Breve commento


a James Hillman

[Poiché la comprensione di questo commento richiede una minima conoscenza di base del testo talmudico esaminato, rimando a Chagigah 14b-16a. Sono reperibili online diverse traduzioni: in italiano spicca la versione di Giulio Busi-Elena Loewenthal in Mistica ebraica, Einaudi, 1999]

Entrare nel Pardes è accedere al giardino dell’interpretazione, all’integrità molteplice, all’infinito limitato. Ai tre compagni Aqiba dà una esoterica consegna: “Quando arriverete alle pietre di marmo puro [ovvero le lettere della Torah, con cui fu creato l’universo], non dite: Acque, acque” – è una menzogna. Il testo, il tessuto, è il Velario (Paroqet) che separa il Santo dal Santissimo: come il Firmamento (raqiaʻ) stellato, che separa le acque inferiori, la Malkut, dalle acque superiori, la Binah, questo mondo (ʻolam ha-zeh) dal mondo a venire (ʻolam ha-ba’). I commentatori si sono – opportunamente – separati: tra chi vede la menzogna nel confondere (tohu) ciò che il secondo giorno ha diviso, e chi nel dividere ciò che messianicamente è sul punto di ricongiungersi. Ma le une e le altre sono parole del Dio Vivente. Forse Aqiba prescriveva di non deviare dal Testo, in cui è il tutto, per affrettare la teshuvah distruggendo la Paroqet, o per restare nel mondo della separazione in modo letterale, solo giuridico.

L’esperienza del Giardino è terribile, perché l’amore di Aqiba per la Torah impone uno sguardo totale, e la visione della Misericordia è ancor più travolgente di quella del Giudizio, di Elohim che sancisce e sanziona i limiti.

Secondo un’antica tradizione, Pardes (P-R-D-S) è l’acronimo dei quattro piani dell’esegesi ebraica: peshat, remez, derash e sod, cui corrisponderebbero i quattro tanna’im della conturbante pagina talmudica.

Ben Azzai, l’uomo del peshat, muore: non si può vedere Dio e restare vivi, l’occhiata gettata dietro il Velario è mortale, la lettera dell’esperienza mistica come mortificatio è la consumazione della carne, del nostro frammento di mondo presente (ʻolam ha-zeh). La sua morte è santificazione di Dio, qiddush ha-Shem, martirio e morte di uno tzaddiq, l’ombra tragica proiettata dalla parabola del suo maestro Aqiba. La tradizione gli attribuisce uno dei midrashim più laceranti, oscura illuminazione, mitema solidamente antignostico su cui pare effuso un aroma di narrazione gnostica: quello della diminuzione della luna, principio di ogni male, per la quale Dio si impegna ad offrire un sacrificio di espiazione.

Ben Zoma, incarnazione del remez, impazzisce: il delirio dell’interpretazione si impadronisce di lui, il miele del derash, primizia del nutrimento messianico, dà un’ebbrezza ancora tragica, anzi più tragica, perché un eccesso di mondo a venire in questo mondo costringe al vomito, la tracimazione del derash oltre il ricettacolo dell’io. I due responsi halakici citati fanno intravedere questo allargamento del derash oltre il proprio alveo: l’uso di un versetto che estende una pratica in modo virtualmente indefinito; l’introduzione nel territorio normativo di una discussione, ricca di risonanze simboliche, sull’impregnazione di una vergine (in cui si parla di acqua e di seme, quindi di interpretazione, forse il soffio del Messia sulla faccia delle acque nel primo giorno).

Nella scena della sua contemplazione delle Acque, Binah e Malkut si sfiorano: la Shekhinah discende sulla terra, la Ruach cova dolcemente le acque della Torah senza toccarle. Ma ciò è detto del primo giorno, il Giorno dell’Uno (yom echad), dell’indivisione, e quel soffio è il soffio dell’interprete messianico: mentre l’alto e il basso si sono separati nel secondo giorno, il giorno di Gevurah, del timore e della minaccia. Ben Zoma è fuori di sé ed anche fuori del Pardes, perché il Pardes è proprio la Scrittura, e la visione rapita-delirante del rabbino è un’esperienza unitiva che riporta al caos l’articolazione creazionale e profetica. Se la lettera ha ucciso Ben Azzai, se un’esperienza del divino troppo letterale non fa stare più nella pelle, l’abuso del remez, del suggerimento metaforico, dell’allusione, tratta la Scrittura come qualcosa di fluido, la dissolve in un metapherein illimitato: per questo Ben Zoma non ha più i piedi per terra, è fuori dal mondo (mibbachus).

Ben Avuyah (Acher, l’Altro, l’innominabile) taglia i germogli: la sua apostasia ripete la colpa di Adamo, la rottura della comunicazione tra le sefirot. Ben Zoma è fuori, Ben Avuyah taglia: taglia, soprattutto, l’unità della Torah scritta con quella orale, l’unità della kenesset o comunità spirituale, ecclesia. Anchi qui è questione di star seduti-stare in piedi. Metatron, lo scriba di Dio, l’interprete che è manifestazione angelica di Malkut, sta seduto davanti a Dio, è un servo dallo statuto particolare (gli altri angeli devono stare in piedi, in attesa di ordini): ma il suo star seduto è umile, come Malkut è l’ultima sefirah, la più bassa. Ben Avuyah ha lasciato che la sua bocca (la sua interpretazione) seducesse la sua carne, la sua esistenza limitata; in un altro passo, il suo rifiuto di Dio come Giudice, Dayan, era legato alla testimonianza di un precetto non retribuito. Il rabbino, grande commentatore, maestro di Me’ir che butta la scorza e mangia la polpa del suo insegnamento, affascinato dal pensiero greco cade nella afiqorsut, nell’“epicureismo” drammatico del monoteista (ribellione, straziato plaisir de descendre) a causa della sua perplessità per la ricchezza infinita del mondo divino. Uno sguardo sulla duplicità di Dio e del suo interprete, e si insinua il dubbio dualista, gnostico: che in uno spirito innamorato dell’unità genera la disperazione della salvezza, quel “tranne l’Altro” che è coda velenosa del richiamo scritturale alla teshuvah udito da dietro la Cortina celeste, il Pargod. L’apostasia, culmine del climax tragico (morte-delirio-taglio dei germogli) che è già oltre il tragico (per questo è l’Altro), sta tutta in questa estensione del derash che distrugge il Pardes, i suoi limiti che mediano tra Alto e Basso, tra il Giubileo spirituale di Binah e il commento infinitamente rinnovato di Malkut. La “ricerca” di significati che amplia la lettera del Testo induce Ben Avuyah a credere che esistano due dèi, perché solo così si placa la “ricerca” di una risposta alla domanda sul male del mondo; e quindi diventa apostata (manicheo), opera un taglio tra sé e la comunità, tra i vari Nomi e Attributi di Dio, separa ciò che non si deve e non si può separare.

Aqiba, meravigliosamente, entra in pace (be-shalom) ed esce in pace, integro, inafferrabile come la voce silenziosa del soffio che atterrì Elia, chiamato al destino tragico del martirio (e alla sua ancor più tragica premessa, l’investitura messianica del resistente Bar Kokhba), ma trasportato ad esso, ed oltre, con la levità amorosa di chi è un segno delle miriadi di Dio, un uomo totale proprio perché delicatamente e ardentemente innamorato della molteplicità della manifestazione di Dio nella Torah e nell’universo.

Solo Rabbi Aqiva, che corrisponde al sod, alla lettura esoterica-cabbalistica, entre ed esce dal Pardes salvo, pieno di vita, di shalom: solo lui riesce a tenere distinte le acque senza separarle, solo lui unisce vita terrestre (legge) e visione celeste (esoterismo) – e lo dimostra quando muore ridendo perché ha compreso un versetto importante della Bibbia, e l’ha compreso vivendolo nella morte.

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