Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 12 ottobre 2011

Lettera di un suicida immaginale-immaginario


Cari amici,

dopo vent’anni di sofferenze offensivamente sproporzionate ai loro frutti malati, inconsistenti, insostanziali – non che io presuma di giudicarle solo con questo metro: le sofferenze mimano una faccia e un corpo che qui non si conoscono, se non tra dubbi illimiti e illimitamente logorati – dopo quattro lustri, due decenni, duecentoquaranta mesi di sofferenze di cui ho avuto, ricevuto, conquistato solo chiavi irrisorie, irridenti, deludenti, eludenti – dopo tanto patire, sempre più chiuso, cifrato, straccato, strozzato, sempre più lussuosamente votato agli inferi, sempre più sfumatamente profumato di impossibilità, di nascondimento, di iniziatica vergogna – io vado via. Ora che l’ho scritto m’accorgo di non avere forze sufficienti se non per accarezzare, configurare confusamente, canticchiare imprecisamente il suicidio. Il mio cuore è così stracciato e sbranato da non potersi gettare nemmeno in questa impresa rituale, in questo ricatto dove la disperazione si tinge del sangue teatrale, istantaneo, cerimoniale di una speranza orribilmente pura, solo superficialmente paradossale. È un eroe tragico anche il più immondo dei suicidi. Anche, soprattutto, oggi, il più comico, il Papageno che si guarda attorno fino alla fine, il Narciso lambiccato e banale, lo sconfitto che non ha mai gareggiato, il letterato che si guarda scrivere, parodia di libertà, l’ultimo biglietto.

Si può immaginare: il correlato mentale e psichico di un dolore come il mal di testa, un dolore complesso, centrale e marginale insieme, che è dato esibire solo in corrugamenti di fronte, cattivi umori, pose contorte. Se tale dolore, tale mal di testa voglio dire, fosse continuo, salvo quelle brevi pause di ristoro che solo un carnefice esperto saprebbe calcolare, e per molte ore, molti giorni, non dico nemmeno molti anni perché è impossibile immaginarlo a chi l’abbia appena assaggiato, se tale pressione, torsione, tensione, ustione fosse praticamente ininterrotta, ovvero interrotta giusto quel tanto che valga a lubrificare la macchina, a ravvivare l’obbrobrio, nessuno si meraviglierebbe se il paziente cercasse la morte con un trasporto animale, ma anche del tutto lucidamente umano. Pure, non si trascuri l’essenziale: il correlato, l’analogo, lo specchio mentale, psichico, interno di tale specchio minuzioso degli inferi, dell’inferno, della dannazione perpetua, perenne, illimite, sarebbe aggravato dalla vergogna che contagia ogni piaga nascosta, da quell’acerba passione che è il senso di responsabilità proiettato sulla pietra, sulla terra dei fenomeni visibili e tangibili, quell’angoscia metafisica calata, abbassata, schiacciata confusamente sulla scena terrestre, sul densissimo impasto, sulla fittissima stoffa del destino subsolare e sublunare: insomma, sarebbe irritato, infuocato, affumicato, accecato da un concorso mirabilmente funesto di tutte le passioni animali e umane, immaginarie e razionali, sognanti e vigilanti, mute e loquenti, da un accordo di orologio barocco, di automa illuministico fra tutte le maschere strazianti, fameliche, curiose che affollano il proscenio di una malattia iniziatica abortita, di un allenamento sciamanico sfarinato, esploso, quasi incenerito, quasi sbriciolato, quasi fottuto in figure di pura sorte, di puro malanno. E qualora si sia riflettuto, quanto lo concede la misura del proprio intelletto e della propria esperienza, su tali verità fluttuanti, su tali certezze semisonne, semimorte, semi-nate, si osi ancora parlare della morte con leggerezza, per anime simili, per simili sentieri umani e inumani!

Qualcuno, se maturo, giusto e giustamente crudele, potrebbe lasciar aperta una porta come ci si accoltella una mano per rabbia: “Ma un’anima simile, un simile sentiero umano, inumano, è in tutto questo, per l’appunto, umanamente, inumanamente chiamato a balzare oltre il mal di testa, oltre la testa, a perdere la testa, a troncarsi la testa e far zampillare la fontana turata, la linfa compressa, il destino difficile del sacerdote velato, del sovrano dal fianco squarciato!”. Ma io ho già sentito questa voce: perché anch’io sono, di quando in quando, maturo e giusto e crudele con la mia anima, con la mia sorellina fatale e fatata. Si è chiamati solo se si è chiamati. Non è un invito ad avvolgersi il capo, consegnandosi al carceriere, alla ruota dentata, alla faccia impossibile e predestinata: no, si legga bene, per favore. Si è chiamati solo si è chiamati. Si può saltare oltre il settimo cielo solo se si è chiamati. Si può perdere la testa e tenerla in mano per l’ultima danza solo se si è chiamati. Si può entrare nella breccia del fianco, nel fianco squarciato come un firmamento, come un fico, come una bocca canora, solo si è chiamati. Si può vivere la propria morte solo si è chiamati. Non si può essere chiamati, se non si è chiamati. Si può essere chiamati solo si è chiamati. Ci si può preparare ad essere chiamati, solo si è preparati ad essere chiamati. Si può immaginare di essere chiamati, solo se si immagina di essere chiamati. Tutto il resto è buono, come tutto è buono – ma buono per altri, buono per altre persone, per altri mondi, per altre vite. Non c’è nulla che vada perduto: ma per me, tutto è perduto. E io sono il tutto di cui devo rispondere. E rispondo scrivendo una lettera che non è un biglietto di suicida, perché non posso, non voglio, non devo suicidarmi, ma una lettera che cade nella morte, che viene consegnata alla morte, che viene spedita alla morte, che ha senso solo per chi vuole morire e non può, per chi non può accedere né alla luce né alle tenebre, né all’eroismo segreto, mitemente lucente, glorioso di chi lascia fluttuare la pelle staccata verso la sua polvere, né l’eroismo grave, splendidamente cieco, tutto figurale, figurato, perennemente inquieto, di chi si soffoca con la propria pelle su un altare di vittime crude, di sconfitte inviolate dal fuoco, di olocausti immaginari, immaginali.

A voi, amici, che siete i destinatari manifesti, cari, viventi delle mie parole, devo inviare un saluto che sfugge alle parole, che forza malignamente le parole: non addio, perché scivolo sul rovescio del mio dio, non arrivederci, perché spero di non rivedere nulla e di vedere quanto c’è da vedere, non “salve”, “state bene”, “siate benedetti”, perché non è giusto augurare ai compagni fraterni quanto non si osa augurare a se stessi. Eppure qualcosa mi resta da augurarvi, forse: una comunione più alta col dolore che ora intravedo e intravivo, una fraternità più desta, uno spartire il pane dopo che i denti e le bocche sono saltati, sfigurati, spariti.

Egesia Anfirropo

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