I.
Esagero i miei tratti. Non conosco
la faccia del mio male, del mio bene.
Di quando in quando sogno, intuisco,
che ho voluto ogni cosa: c’è una pace
essenziale al fondo del disastro,
un accordo ridente tra me e il cosmo
sotto un leggero velo inorridito.
Crepando, bene o male, fenderò
l’inconsistenza, trovandola forse
come i capricci di mio figlio amabile,
come quelli impossibile, una pura
ostensione d’altrove, ricca e sterile,
tracimante l’economia del sé,
puro splendore sterile ed umano.
Ma non è giusto ridere con gli angeli
dell’umano che ad essere fatico,
confutato all’istante, impermeabile
ad ogni soffio che non sia segreto,
l’umano impalato al suo crocicchio,
cui è nausea e tormento l’insostanza,
l’umano occidentale, accidentale,
l’ala mozzata, forte, declinante –
riderne non è giusto, per adesso,
durante il giorno, tempo di tragedia,
di lavoro ed attesa – non è giusto
pensarlo troppo disumanamente
e troppo umanamente – niente sazia
la sua fame di schiavo e d’eroe.
Sobbolle lento il brodo di mio figlio,
il cielo s’ammala per mezz’ora
di muco ai bronchi, malumore e vomito,
la luce artificiale mi protegge
dalla rivelazione che la pioggia
è buona, e quieto e grave il cielo
nel gioco alterno delle passioni,
e purgante nel vuoto la città,
e io schermato da una lampadina
che cuocio nel mio brodo il più disutile
dei figli di Adamo. Ciascun essere
è quel che è in pienezza d’attesa,
si scrive mentre ara la sua vita,
il suo passaggio sicuro e leggero,
conosce la sua casa e non sa nulla,
sorvola il nulla, lo respira, lascia
emergere dal nulla il suo mattino,
non teme la notte, suo giaciglio,
ma sente che il fiato gli si ingrossa
se il giaciglio è una polvere di strada,
un ponte, un batter d’occhio, un’altra cosa.
Il brodo si consuma. Stendo i panni.
Il cesso mi ammonisce vanamente.
Nella casa, che faccia ha l’universo.
Come ci divertiamo, sedentari,
a nascondere sotto l’abitudine,
per averne fastidi e dilazioni,
lo sgomento glorioso delle origini,
la faccia dei mondi nella casa,
la casa tracciata nelle stelle.
Che gusto, no? Ed anche il no è gustoso –
ha il sapore di un’antica elezione,
come se in ogni fastosa rovina,
in ogni eccidio giusto, necessario,
splendesse un tesoro di vanità.
II.
Il cane che mi latra l’orizzonte
è il mio dio. Il vicino che col tacco
mi martella il mio cielo è il mio dio.
La porta che si nega è il mio dio.
La finestra che mi chiude e ostende
gli strani universi è il mio dio.
Ogni fantasma chiede devozione.
Mio figlio li insegue, li gioca
e ne è giocato, in tremiti di risa
e di terrore. Io non so più farlo,
chino il capo dopo ogni ribellione,
sfioro, mordo, deploro, mi aggiro,
attendo il succo, lo lascio colare,
perdo il fiore, mi congedo dal frutto,
temo il cane, il vicino, la finestra,
trascuro la porta, e faccio male,
perché se questa porta non è ancora
la porta, io ancora non esisto, punto.
III.
A trentacinque anni si è davvero malmessi,
il samsara è al suo culmine. L’ascesi
dell’adolescenza è una ruggine, la giovinezza
un rimorso e un bagliore. Non si è ancora
vecchi, e lo si è più che mai.
Preghi per la cena di tuo figlio,
per un nuovo lavoro, per un po’
di carezze precise, sostanziali.
La ruota è un vortice, non puoi toccarla
senza romperti un dito: e proprio questo
fa belli molti mali. Vorresti morire
per aprire la fica nella luce,
per avere più luce. Sei davvero
malmesso a trentacinque anni,
i pasti di polvere ti inquartano,
il tuo peso è più esatto, incalcolabile,
qualche dettaglio inizia a farsi lieve,
ed è una trasparenza che ti umilia
e ti diverte, scaglia dopo scaglia.
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