Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 26 ottobre 2011

Meditazioni nevrotiche


I.

Esagero i miei tratti. Non conosco

la faccia del mio male, del mio bene.

Di quando in quando sogno, intuisco,

che ho voluto ogni cosa: c’è una pace

essenziale al fondo del disastro,

un accordo ridente tra me e il cosmo

sotto un leggero velo inorridito.

Crepando, bene o male, fenderò

l’inconsistenza, trovandola forse

come i capricci di mio figlio amabile,

come quelli impossibile, una pura

ostensione d’altrove, ricca e sterile,

tracimante l’economia del sé,

puro splendore sterile ed umano.

Ma non è giusto ridere con gli angeli

dell’umano che ad essere fatico,

confutato all’istante, impermeabile

ad ogni soffio che non sia segreto,

l’umano impalato al suo crocicchio,

cui è nausea e tormento l’insostanza,

l’umano occidentale, accidentale,

l’ala mozzata, forte, declinante –

riderne non è giusto, per adesso,

durante il giorno, tempo di tragedia,

di lavoro ed attesa – non è giusto

pensarlo troppo disumanamente

e troppo umanamente – niente sazia

la sua fame di schiavo e d’eroe.

Sobbolle lento il brodo di mio figlio,

il cielo s’ammala per mezz’ora

di muco ai bronchi, malumore e vomito,

la luce artificiale mi protegge

dalla rivelazione che la pioggia

è buona, e quieto e grave il cielo

nel gioco alterno delle passioni,

e purgante nel vuoto la città,

e io schermato da una lampadina

che cuocio nel mio brodo il più disutile

dei figli di Adamo. Ciascun essere

è quel che è in pienezza d’attesa,

si scrive mentre ara la sua vita,

il suo passaggio sicuro e leggero,

conosce la sua casa e non sa nulla,

sorvola il nulla, lo respira, lascia

emergere dal nulla il suo mattino,

non teme la notte, suo giaciglio,

ma sente che il fiato gli si ingrossa

se il giaciglio è una polvere di strada,

un ponte, un batter d’occhio, un’altra cosa.

Il brodo si consuma. Stendo i panni.

Il cesso mi ammonisce vanamente.

Nella casa, che faccia ha l’universo.

Come ci divertiamo, sedentari,

a nascondere sotto l’abitudine,

per averne fastidi e dilazioni,

lo sgomento glorioso delle origini,

la faccia dei mondi nella casa,

la casa tracciata nelle stelle.

Che gusto, no? Ed anche il no è gustoso –

ha il sapore di un’antica elezione,

come se in ogni fastosa rovina,

in ogni eccidio giusto, necessario,

splendesse un tesoro di vanità.

II.

Il cane che mi latra l’orizzonte

è il mio dio. Il vicino che col tacco

mi martella il mio cielo è il mio dio.

La porta che si nega è il mio dio.

La finestra che mi chiude e ostende

gli strani universi è il mio dio.

Ogni fantasma chiede devozione.

Mio figlio li insegue, li gioca

e ne è giocato, in tremiti di risa

e di terrore. Io non so più farlo,

chino il capo dopo ogni ribellione,

sfioro, mordo, deploro, mi aggiro,

attendo il succo, lo lascio colare,

perdo il fiore, mi congedo dal frutto,

temo il cane, il vicino, la finestra,

trascuro la porta, e faccio male,

perché se questa porta non è ancora

la porta, io ancora non esisto, punto.

III.

A trentacinque anni si è davvero malmessi,

il samsara è al suo culmine. L’ascesi

dell’adolescenza è una ruggine, la giovinezza

un rimorso e un bagliore. Non si è ancora

vecchi, e lo si è più che mai.

Preghi per la cena di tuo figlio,

per un nuovo lavoro, per un po’

di carezze precise, sostanziali.

La ruota è un vortice, non puoi toccarla

senza romperti un dito: e proprio questo

fa belli molti mali. Vorresti morire

per aprire la fica nella luce,

per avere più luce. Sei davvero

malmesso a trentacinque anni,

i pasti di polvere ti inquartano,

il tuo peso è più esatto, incalcolabile,

qualche dettaglio inizia a farsi lieve,

ed è una trasparenza che ti umilia

e ti diverte, scaglia dopo scaglia.

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